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I “colletti bianchi” e le mafie

Non è dato sapere quanti siano i liberi professionisti implicati in inchieste di mafia. Di certo una minoranza, ma il coinvolgimento è diffuso e di difficile controllo.

Le pronunce delle Corti giudicanti di Nord, Centro e Sud Italia raccontano di gruppi criminali che si rivolgono a commercialisti per ripulire i proventi degli affari illeciti, ad avvocati per sottrarre beni patrimoniali ai provvedimenti giudiziari di varia natura, a medici per ottenere diagnosi che alleggeriscano lo stato detentivo di boss o affiliati, ad architetti per assicurare la formale regolarità di lavori condotti in spregio delle normative urbanistiche, sino a coinvolgere quasi tutte le categorie professionali.

Se si assume il punto di vista dei clan, il perché e evidente: nell’ampia ricerca di relazioni esterne che agevolino il radicamento e l’espansione, la necessità di competenze che garantiscano la riuscita dei propri affari spiega il ricorso a soggetti che hanno la padronanza della tecnica necessaria a svolgere al meglio, nella forma e nella sostanza, determinati “adempimenti”.

Non vi è dubbio che quella delle mafie con i professionisti compiacenti rappresenti la relazione con un ambito di potere: il potere derivante da quei saperi “tecnici” che, utilizzati conformemente a legalità, hanno enorme valore per la società, ma piegati a fini illegali rappresentano, in maniera contraria e speculare, una risorsa ambita dalla criminalità per perseguire i propri obiettivi di rafforzamento.

Ma il movente del professionista, nel momento in cui mette a disposizione di organizzazioni mafiose le proprie capacità intellettuali, qual è? Quali le ragioni di chi ha investito notevoli energie, tempo, risorse economiche e competenze in un percorso di preparazione professionale lungo e complesso, di chi perciò sarebbe in grado di assicurarsi una vita almeno dignitosa senza ricorrere a collusioni e contiguità con la criminalità organizzata? Quale il tornaconto tanto irrinunciabile da indurre a tradire la professione per la quale ci si è costruiti?

Sono gli interrogativi che affronto ne “L’angusto spazio vitale di Titta Di Girolamo: scelte professionali tra legalità e mafiosità” – lavoro conclusivo del master in “Analisi, prevenzione e contrasto della corruzione e della criminalità organizzata”, diretto dal professoe Alberto Vannucci, docente del Dipartimento di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Pisa – anche alla luce della riflessione di eminenti studiosi del fenomeno mafioso (in primis, il sociologo Rocco Sciarrone e lo storico Isaia Sales).

Proprio nel solco della preziosa teorizzazione di quest’ultimo (sulle relazioni come reale fattore-chiave del successo delle mafie) emerge un ulteriore quesito, che in qualche modo riunisce i precedenti: fino a che punto il professionista è del tutto consapevole della intrinseca posizione di debolezza in cui si colloca nel momento della scelta di “servire” uno o più gruppi criminali?

Nel patto tra il soggetto normalmente dedito all’illegalità (il mafioso) e quello che deve continuare a dare parvenza di improntare il proprio lavoro alla legalità pur avendo fatto la scelta opposta (il professionista infedele), c’è un “contraente debole”. Che non è dissuaso, evidentemente, dall’aver intrapreso e concluso percorsi di studio impegnativi da un punto di vista professionale, e comprendenti quei principi di etica e deontologia sul cui rispetto gli organismi rappresentativi delle categorie professionali (Ordini e Collegi) dovrebbero vigilare; né dalla consapevolezza che l’essere depositario di determinati saperi non lo rende “competitivo” nei confronti di chi è specializzato in capacità intimidatoria e utilizzo della violenza (ove occorra).

Se al libero professionista nemmeno può ritenersi applicabile il movente proprio degli affiliati ai gruppi criminali – ovvero quello per cui la violazione delle leggi permette di integrarsi meglio nella società e nello Stato (il paradosso è solo apparente) – residua allora più che una impressione: che la sua “scelta di mafiosità” non sia del tutto interpretabile secondo canoni di razionalità.

 di Giuliano Esposito

4 SETTEMBRE 2018

Fonte:http://mafie.blogautore.repubblica.it/