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Voto di scambio politico-mafioso: il reato visto da magistrati e avvocati

Voto di scambio politico-mafioso: il reato visto da magistrati e avvocati

6 marzo 2018

di Francesco Pacifico e Ilaria Proietti

Le condanne per corruzione politico-elettorale sono ancora poche. Perché trovare le prove non è semplice. E, secondo l’Antimafia, serve maggiore flessibilità. Ma anche una sensibilità diversa della società civile. Le mafie possono condizionare il voto perché sono in grado di infiltrare la politica. Le parole del ministro dell’Interno, Marco Minniti, ripetute più volte a una manciata di giorni alla conclusioni di una campagna elettorale, non lasciano margini di interpretazione. “Si tratta di una minaccia drammatica alla nostra democrazia ed è cogente dirlo oggi. Anzi è grave non farlo proprio ora: la politica non chieda e non ne accetti i voti”, ha detto il titolare del Viminale alla presentazione della relazione conclusiva dei lavori della commissione Antimafia.

La mafia mutante. Il documento parla esplicitamente dell’affermarsi di una mafia “mutante”, che da ormai molto tempo non usa la lupara ma che invece si fa sempre più network di potere, ribattezzato talvolta comitato d’affari, altre masso-mafia, altre volte ancora cricca. Una mutazione genetica in cui la criminalità può agire senza necessariamente far scorrere sangue, ma ricorrendo alla corruzione. Mandando e in fuori gioco l’armamentario a disposizione dei magistrati, che per contestare il reato presuppongono il metodo mafioso tradizionalmente inteso. Ma cosa ne pensano gli operatori del diritto della recente riforma del 416ter sul voto di scambio politico-mafioso?

Alessandra Dolci è a capo della Direzione distrettuale antimafia della Procura di Milano, che ha dato duri colpi alle ‘ndrine radicate al Nord. Con operazioni come quella denominata ‘Grillo Parlantè (che ha portato alla condanna a 13 anni e mezzo per l’ex assessore regionale lombardo, Domenico Zambetti per voto di scambio mafioso) o ‘Crimine-Infinito’, che ha portato a 200 arresti per reati gravissimi, tra cui l’omicidio e il traffico di droga, e coinvolto imprenditori tutti accusati di affiliazione alle cosche. Secondo la procuratrice aggiunta, “l’articolo 416ter non è di difficile applicazione, poiché quello che all’inizio poteva essere colto come un profilo problematico – la scelta di esplicitare il metodo mafioso come contenuto tipico della promessa di voti – è stato superato dalla ormai costante giurisprudenza di legittimità. Secondo la quale, l’intervento normativo ha il valore di una novità lessicale di minimo contenuto e, dunque, non è richiesto che il politico alla ricerca di voti chieda all’interlocutore mafioso specifiche modalità di attuazione della campagna elettorale e ne ottenga l’assenso”.

Gli strumenti già esistono. Questo lo stato dell’arte, perché “gli strumenti normativi per combattere il fenomeno mafioso ci sono, ma vanno accompagnati con altrettanto efficaci strumenti per combattere le altre macro aree di devianza – come l’evasione fiscale o la corruzione – che rinsaldandosi con il crimine organizzato fanno un tutt’uno difficile da contrastare. Il mondo di mezzo in cui il candidato alla competizione elettorale e il mafioso si incontrano è quello dell’area del malaffare, della corruzione, delle clientele. Ed è il politico che cerca il mafioso, non viceversa”. Non a caso, in riferimento al monito lanciato dal ministro degli Interno, Marco Minniti, sulle capacità della mafia di incidere sull’esito elettorale del 4 marzo, il magistrato ammette che “è stato giusto lanciare questo allarme. Quel che vedo mi preoccupa per il futuro del mio Paese”.

Presidio Hobo contro Minniti a Bologna

Alberto Cisterna – già numero due della Direzione nazionale antimafia, aggiunto a Reggio Calabria e per anni pubblico ministero in trincea a Palermo – invece collega i limiti del 416ter al fallimento del concorso esterno in associazione mafiosa, regolato dal 416bis. “La grande scommessa era quella di arrivare a sanzionare le condotte collusive tra mafia e politica attraverso quest’ultimo reato. Ma prima con la sentenza Mancino della Cassazione e infine con il fallimento del processo Contrada, si è avuta l’implosione della fattispecie”. Il che renderebbe claudicante l’impalcatura complessiva.

Le responsabilità condivise. Secondo il magistrato, oggi presidente di sezione al Tribunale di Roma, con l’attuale formulazione del 416ter, viene sanzionato “chiunque accolga la promessa di vedersi procurati voti con le modalità mafiose. Quindi il reato è costruito dalla parte del politico che accetti questo consenso. Il che presuppone un’iniziativa della mafia, ma non ricomprende l’altro lato della questione ossia quella del politico che per procacciarsi voti sollecita le cosche. Questa condotta in teoria dovrebbe essere punita attraverso il 416bis, ossia il concorso esterno in associazione mafiosa. Che però, come detto, è stato fortemente indebolito dalle ultime sentenze”.

I nuovi metodi della mafia. I limiti di questo schema risiedono in “una concezione vecchia della mafia. La quale oggi si muove in maniera opposta rispetto al passato. Perché accanto alla coercizione del metodo mafioso, si affida sempre più alla corruzione. Ma questa, a differenza della violenza, implica una certa debolezza da parte da chi la metta in pratica”. Di conseguenza il 416ter diventa molto più difficile da applicare, perché costringerebbe l’inquirente a dimostrare – cosa non certo facile – la debolezza, la soggezione del mafioso sulla politica. Per questo Cisterna propone di risolvere il problema “allargando il perimetro del concorso esterno. La corruzione va inclusa nel metodo mafioso accanto all’assoggettamento e all’omertà”. A ben guardare una strada che concettualmente il legislatore ha seguito con il Codice Antimafia per quanto riguarda la condotta di tutta quella zona grigia (funzionari pubblici, imprenditori, professionisti) che si muovono tra la mafia e la politica.

La corruzione, nuova arma delle mafie

Il nodo della corruzione è infatti una questione sempre più centrale nei rapporti tra mafia e politica. Come dimostrano anche le parole di Giuseppe Cascini, già segretario dell’Associazione nazionale magistrati e soprattutto uno dei tre pm del processo noto come ‘Mafia Capitalè. “Il voto di scambio politico-mafioso è fenomeno presente quasi esclusivamente laddove c’è un controllo totale e pervasivo del territorio da parte dei clan”. Ossia in Sicilia o in Campania, ma anche in alcuni comuni a Nord di Milano. “Nel resto d’Italia non si è avuta evidenza di collegamenti tra esponenti politici e mafiosi nella fase squisitamente della raccolta-formazione del voto. Si è accertato invece il tentativo delle cosche di utilizzare il metodo corruttivo per ottenere appalti, per entrare nel business dell’erogazione dei servizi pubblici. Questo fenomeno è molto diffuso sia in quelle che la Cassazione chiama nuove mafie sia nelle mafie di esportazione, che operano fuori dal loro territorio originario. Le quali replicano soltanto alcune delle condotte tipiche tradizionali – per esempio non impongono il pizzo tra le attività di controllo del territorio – ma nei loro settori si affidano comunque all’esercizio della violenza, uno dei capisaldi del metodo mafioso”.

L’obiettivo? Appalti e privilegi. La corruzione attraverso le intimidazioni insomma è il collante nel nuovo rapporto tra “piccole mafie” e politica. Nell’inchiesta “Mafia Capitale” – ridimensionata dai giudici di primo grado, che hanno fatto cadere l’ipotesi di concorso esterno in associazione mafiosa – non è emersa la fattispecie di voto di scambio, ma l’interesse a trattare con politici già eletti per ottenere appalti e privilegi. Per questo, secondo Cascini, bisogna “incentivare la trasparenza nel mondo della cosa pubblica. L’obiettivo delle mafie è investire nell’economia legale, utilizzando loro un metodo, la corruzione, che garantisce maggiore pervasività. Ed è un fenomeno dal maggiore allarme sociale, anche perché più nascosto, meno visibile”.

L’opacità dei contesti mafiosi. In questo mutato scenario non nasconde le difficoltà Erminio Amelio. da procuratore aggiunto a Palermo Amelio ha condotto numerose inchieste sulla pubblica amministrazione che hanno portato in carcere “colletti bianchi”, politici regionali, imprenditori e personaggi in odore di mafia. “È obbligatoria una premessa di natura ambientale: certi contesti mafiosi sono più chiari in Sicilia o in Calabria, altrove sono più sottotraccia. Allo stesso modo è cambiato anche l’oggetto del patto: i soldi, che in teoria sono sempre più facilmente tracciabili, sono stati sostituiti da favori o da appalti magari concessi lontano dal territorio dove si vota oppure a un soggetto terzo, collaterale alla famiglia”.

Di conseguenza, aggiunge Amelio oggi sostituto alla Procura di Roma, “una vera svolta nei casi di voto di scambio politico-mafioso, l’avremo soltanto quando i candidati, anche ad altre latitudini rispetto per esempio alla Sicilia, avranno la piena consapevolezza che non bisogna mai porre in essere rapporti con determinati soggetti. Nel momento in cui si ha un’avvisaglia di questo genere – cosa che, come detto, può essere meno limpida in un ambiente non conosciuto come mafioso – il politico deve cercare di tenersi a debita distanza dalle persone che possono essere in odore di mafia”.

Il cortocircuito di reati troppo specifici. Ma serve un tagliando al 416ter? Amelio, amico e collaboratore di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ricorda che “le norme sono sempre perfettibili, ma ogni qualvolta le si rende più specifiche, si corre il rischio di lasciare scoperta un’area, un pezzo”. Per questo, e guardando all’azione giudiziaria, è convinto che “gli strumenti necessari siano quelli che il codice già ci dà. E noi dobbiamo cercare di utilizzarli al meglio, nella speranza di ottenere risultati. In quest’ottica hanno dato un grandissimo apporto le intercettazioni, che è uno strumento da potenziare. Così come converrebbe ampliare le attività di infiltrazione, per capire meglio i rapporti che si instaurano tra esponenti politici e mafiosi”.

E gli avvocati cosa pensano? “Il 416ter è un pasticcio come quasi tutte le leggi fatte negli ultimi anni in materia di mafia e di mafia e politica”, dice Antonio Ingroia, oggi legale ma a lungo magistrato. Il quale dà un giudizio tranciante della norma nemmeno oggi che da avvocato è candidato alla Camera con la “Lista del popolo”. “La norma è frutto di un compromesso tra esigenze punitive ed esigenze di garanzia e quello che ne viene fuori è una autodifesa della politica dalla magistratura attraverso una formula equivoca che può neutralizzarne l’applicazione”, dice soffermandosi sulla difficoltà di provare la circostanza che i politici “sappiano che i voti promessi siano condizionati dal metodo intimidatorio: s tratta di una prova diabolica, impossibile perché si richiede una sostanziale compartecipazione del politico all’attività mafiosa. A questo punto bastava quanto previsto dal 416bis: un’interpretazione pignola e rigorosa del 416ter rende questa fattispecie sostanzialmente inutile”.

I difensori si preoccupano. Preoccupazioni di segno completamente opposte sono quelle formulate dall’Unione Camere penali (Ucpi). “Dal nostro punto di vista il pericolo è esattamente contrario rispetto a quello evidenziato dal collega Ingroia – spiega il segretario generale dell’Ucpi, Francesco Petrelli – L’individuazione della fattispecie prevista dal 416ter è vaga ed incerta e questo ne agevola l’interpretazione rendendo d’altra parte più difficile l’attività di chi difende il malcapitato accusato di simili reati. Il legislatore ha descritto una fattispecie che non fa riferimento a elementi oggettivi, come ad esempio all’esistenza di materiale documentale o fonti testimoniali. Rispetto alla legislazione precedente che richiedeva il costringimento fisico non c’è neppure il richiamo per la configurazione della fattispecie a comportamenti oggettivi e quindi facilmente rilevabili: si parla di accordi che utilizzano per il raggiungimento dell’obiettivo le modalità del 416bis che sono sostanzialmente intimidazioni di natura ambientale”.

Se l’utilità rimpiazza l’ideale. Petrelli richiama il principio di tassatività in base al quale “si deve sapere quali siano le condotte punite: il concetto della promessa di utilità è molto vago specie in una contingenza politica in cui è sempre più evidente una distorsione culturale in base alla quale si vota non in base ad un’idealità, ma in vista dell’ottenimento di utilità. Inoltre la norma per riuscire a cogliere uno spazio di applicazione il più vasto possibile prevede che le pene, peraltro altissime, scattino anche quando il disegno illecito non sia realizzato: basta la disponibilità a farlo. È evidente che tecnicamente ci muoviamo in quello che si definisce il “foro interiore”.

Da qui la domanda se “basterà aver annuito per provare che l’accordo sia stato accettato? E del resto il rischio di un’applicazione della norma priva del supporto di prove affidabili è stata rilevata dalla Cassazione, quando ha sottolineato le criticità del 416ter a proposito delle difficoltà di provare l’effettiva esistenza dell’impegno. La Corte non a caso si è soffermata sugli indici sintomatici dell’accordo che sono di difficile dimostrazione processuale”.

Ma le condanne sono ancora poche

In quest’ottica torna centrale la campagna lanciata nel 2013 dall’associazione Riparte il futuro, per inserire nel 416ter del Codice Penale il concetto di “altra utilità” tra le ragioni dello scambio politico elettorale. Al riguardo, e in risposta a Petrilli, l’ex sottosegretario alla Giustizia e senatore dell’Italia dei Valori fino al 2013, Luigi Li Gotti (e avvocato di importanti pentiti quali Tommaso Buscetta, Totuccio Contorno, Giovanni Brusca, Francesco Marino Mannoia e Gaspare Mutolo) ricorda: “La norma è sicuramente di difficile applicazione ma questo non vuol dire che non serva, anzi. Il 416ter colma una lacuna rispetto a fenomeni che esistono e sono anzi molto diffusi. E il numero esiguo delle condanne, obiettivamente basso, dimostra semmai che il giudice ha sempre bisogno che si raggiunga la prova del reato”, spiega, ricordando come molti collaboratori di giustizia abbiano fatto riferimento allo scambio politico mafioso. Anche se “Brusca una volta mi disse che loro non facevano accordi con i politici prima essendo certi di poter condizionare con la lusinga o con la minaccia chiunque fosse stato eletto. Ma si tratta di un caso estremo”.

La difficoltà della prova. Sempre attingendo alla propria esperienza nelle aule di giustizia, Li Gotti ricorda come sia in corso in questi giorni di fronte alla Corte di Appello di Catanzaro il processo all’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto. “Un mio assistito ha deposto una settimana fa nell’ambito del processo di appello sull’appoggio elettorale che sarebbe stato dato da Filippo Pizzimenti, considerato dagli inquirenti vicino alla cosca Arena per l’elezione del sindaco Caterina Girasole (imputata nel processo con il marito Franco Pugliese ed entrambi assolti con formula piena in primo grado dall’accusa di voto di scambio ed abuso d’ufficio, ndr). Il mio assistito ha detto di non sapere se effettivamente il pacchetto di voti promesso sia stato effettivamente dato, ma che sicuramente vi fosse interesse da parte della cosca in questione per l’elezione del primo cittadino. Anche questo caso dimostra come il reato sia di difficile prova perché patti di questo genere non si fanno per iscritto. Ma certo si può risalire alla prova con intercettazioni, materiale fotografico e altro”. Ricordando l’impegno profuso in parlamento per tipicizzare la fattispecie, sottolinea di essersi speso “per allargarla, oltre che allo scambio materiale di denaro al concetto di ‘altre utilità’. Il che non vuol dire affievolire la condotta prevista per la contestazione del reato: è sempre infatti necessario ricercare la prova”.

Conta l’impegno criminale. L’avvocato Vincenzo Maiello, ordinario di diritto penale all’università di Napoli “Federico II” sottolinea come l’attuale formulazione del 416ter non sia “particolarmente felice, anche se la riforma era necessaria dal momento che in precedenza venivano colpite manifestazioni marginali del fenomeno dello scambio politico mafioso ossia quelle che si realizzavano esclusivamente attraverso lo scambio di denaro. È evidente che alle mafie non interessa solo il denaro ma soprattutto l’impegno politico più duraturo da parte della politica ad autoalimentare il sistema criminale. Questa configurazione insomma relegava la fattispecie ad un ruolo di sostanziale inutilità. E non a caso le spinte giurisprudenziali avevano equiparato, ma in violazione al principio sacro del divieto di analogia, lo scambio di denaro ad altri beni suscettibili di apprezzamento in termini economico patrimoniale. Questa equiparazione era però la spia di una sofferenza applicativa della fattispecie”, spiega il penalista.

Le incertezze applicative. Il legale, però, sottolinea perché fosse necessario riformare il 416ter “riscattando la norma da una sostanziale ineffettività. Tuttavia l’attuale configurazione non è delle più felici perché il reato si potrebbe configurare secondo la lettera della disposizione nei soli casi in cui esplicitamente si preveda in sede di accordo che l’appoggio elettorale avverrà ricorrendo al metodo mafioso. Non a caso la giurisprudenza della Cassazione che ha condiviso una mia tesi, distingue due tipi di accordo: il primo tra il politico-candidato e un esponente che agisce in rappresentanza dell’associazione mafiosa; il secondo tra il candidato e chi sia solo circondato da un’aurea di mafiosità senza essere inserito in una consorteria di tipo mafioso. La Cassazione ha affermato che nel primo caso non c’è bisogno di esplicitare il metodo mafioso, mentre nell’altra ipotesi c’è bisogno che venga provato che nell’oggetto dell’accordo si chieda o si prometta di ricorrere al metodo mafioso. Il che, è evidente, pone un serio problema dal punto di vista della prova con tutte le incertezze applicative che ne conseguono”.

Abolire il concorso esterno? Ma i problemi non finiscono qui. “C’è poi la questione del rapporto tra il 416ter e il concorso esterno in associazione mafiosa ritenuto configurabile dalla Cassazione, anche in rapporto allo scambio elettorale, alla condizione, ben vero, che quest’ultimo produca un effettivo rafforzamento della capacità organizzativa del sodalizio, cosa non necessaria per la configurazione del delitto di cui al 416ter: se si stipula un patto che determina questo rafforzamento, il politico risponde di concorso esterno e il mafioso di nulla in quanto si ritiene la sua condotta assorbita in quella di partecipe del clan. Mentre invece, ove questo effetto di rafforzamento dell’associazione non si verifichi, saranno puniti ai sensi del 416ter sia il candidato che il mafioso. Tale situazione genera, all’evidenza, una incongruenza nel sistema che ne segnala la insostenibilità sul piano giuridico”.

Secondo Maiello, “per superare questo impasse, occorrerebbe che la giurisprudenza, condividendo una prospettiva che è già stata affacciata in dottrina, affermasse che in rapporto alla materia deli accordi elettorali politico-mafiosi non è più configurabile il concorso esterno. Se un giorno sarà affermato questo principio, la riforma del 416ter si rivelerà oltremodo significativa, in quanto segnerà il superamento della esperienza del concorso esterno riguardo a un genere di situazioni che intrinsecamente esposte a rischi di collisione e di conseguenti polemiche strumentalizzatrici tra l’azione della magistratura e gli interessi della politica”.

Dal governo la richiesta di una sensibilità nuova

Fin qui le analisi, anche contrastanti di chi, spesso su orizzonti opposti, siede nelle aule di giustizie. Ma la lotta alla mafia non si risolve soltanto a colpi di norme e codicilli o grazie al prezioso lavoro delle forze dell’ordine: serve una rinnovata sensibilità della società civile. Attraverso “un forte impegno anche educativo che deve contraddistinguere questo cammino molto lungo che va fatto evitando facili perniciose illusioni”, ha detto nel corso della presentazione della relazione della commissione Antimafia don Luigi Ciotti, tra l’altro ispiratore della nascita di Riparte il Futuro e delle sue più importanti battaglie contro il malaffare, come quella per modificare il 416ter, per riconoscere la figura del whistleblowing o per abolire i vitalizi ai condannati per mafia e corruzione. Un prete in prima linea, non a caso definito da Minniti “uno straordinario profeta dei nostri tempi”, ha detto don Luigi Ciotti (definito da Minniti “uno straordinario profeta dei nostri tempi”) nel corso della presentazione della relazione della commissione Antimafia. A cui ha fatto eco il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che ha segnalato il rischio di mafie “capaci addirittura di autorappresentarsi in politica mentre è ancora forte un negazionismo strisciante della sua capacità di infiltrazione e dell’affermarsi di una borghesia mafiosa”.

La legislatura della lotta alla corruzione. Il presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi, ovviamente i ministri Minniti e Orlando, il procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero De Raho, così come l’animatore di Libera don Ciotti hanno però anche rivendicato lo sforzo legislativo fatto in questi anni, che si è accompagnato al contrasto di cui si sono fatti carico la magistratura e le forze dell’ordine.

“La XVII legislatura potrà essere ricordata, probabilmente, come una legislatura costituente per la lotta alle mafie e alla corruzione. Occorre che movimenti e forze politiche dimostrino, in modo autonomo e prima delle indagini della magistratura, di aderire a criteri di candidabilità più stringenti, rispetto alla normativa attuale, indicati nel codice di autoregolamentazione da noi approvato. Perché la politica ha comportamenti che attraverso familismo, trasformismo e clientelismo aprono varchi alla mafia”, ha detto Rosy Bindi. Che nel suo intervento e in maniera più approfondita nella corposa relazione finale elaborata a San Macuto, auspica dall’inizio della prossima legislatura, una apposita sessione dei lavori parlamentari dedicata alle misure di contrasto delle mafie che sia anche l’occasione per fare un tagliando alle norme approvate.

Per la commissione Antimafia il tema delle candidature e della qualità di queste ultime e cioè la questione degli ‘impresentabili’ non si esaurisce certamente con l’esibizione di certificati penali privi di evidenze giudiziarie. Occorre ripensare specialmente agli strumenti e alle informazioni di cui i partiti e i movimenti devono poter disporre, per poter conseguentemente assumere le responsabilità politiche delle scelte, ai fini di una trasparente ed efficace selezione del personale politico e in generale dell’accreditamento di chiunque si candidi a cariche rappresentative. A partire da misure ormai indifferibili come la legge di attuazione dell’articolo 49 della Costituzione sull’organizzazione dei partiti politici.

Allo stesso modo, per l’Antimafia, non può restare inascoltato l’appello lanciato – in occasione degli Stati generali organizzati dal ministero della Giustizia lo scorso 24 novembre 2017 a Milano – dal ministro dell’Interno, il quale ha chiesto “un patto solenne tra i partiti per respingere il voto mafioso, che tanto ha inquinato il voto locale, in particolare nel Meridione dove è stata esponenziale la crescita del numero e dell’importanza degli scioglimenti dei comuni per mafia”.

Serve maggiore flessibilità. La riflessione sull’aggiornamento del fondamentale istituto previsto dall’articolo 143 del Tuel sullo scioglimento dei comuni per infiltrazione e condizionamento di tipo mafioso dovrà necessariamente contemplare una “terza via” tra scioglimento e conclusione del procedimento ispettivo, in modo da ampliarne in modo flessibile le condizioni d’uso, sia nella fase che precede sia in quella che segue la decisione sulla permanenza della compagine politica; inoltre, maggiore incisività va trovata anche sulla componente amministrativa, molto spesso di fatto inamovibile.

Il rischio liste civiche. “La situazione di progressivo deterioramento delle condizioni di legalità in seno a molti enti locali – prevalentemente ma non esclusivamente meridionali, si precisa nella relazione conclusiva approvata all’unanimità dalla Commissione Antimafia – è andata di pari passo con l’avanzare dei sintomi di una poco strategica ‘ritiratà dei partiti nazionali da molte zone del Paese, e con la conseguente proliferazione delle liste civiche come unica proposta politica in occasione delle elezioni amministrative. Queste ultime, sciolte da una matrice o da apparentamenti politici chiari, sono risultate frequentemente una sorta di bad company che rischiano di essere stratagemmi per dialogare, o per così dire “civettare”, ora con i partiti tradizionali, di cui riciclano fuoriusciti o esponenti minori, ora con altri ambigui referenti locali, spesso prossimi a soggetti criminali, soprattutto nei piccoli comuni delle regioni di tradizionale insediamento.

Fonte:lettera43.it