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Vittorio Boiocchi, cosa c’è dietro l’omicidio del capo ultrà dell’Inter: l’ossessione per i soldi e i contatti criminali

Il Corriere della Sera, Domenica 30 Ottobre 2022

Vittorio Boiocchi, cosa c’è dietro l’omicidio del capo ultrà dell’Inter: l’ossessione per i soldi e i contatti criminali

Il capo ultras Inter ha frequentato il gotha criminale degli anni Novanta, dal clan di Cosa nostra dei Fidanzati fino ai Mannino e ai calabresi. Una vita spesa tra estorsioni, affari occulti nel controllo di piccole attività e droga

di Cesare Giuzzi

Più del tifo il potere. Più del potere, i soldi. Tanti soldi. Un’ossessione per chi ha trascorso 26 anni in carcere osservando il mondo cambiare da dietro le sbarre. E quando nel 2019 Boiocchi è tornato in curva lo ha fatto con i metodi di allora, quando negli anni Ottanta e Novanta guidava lo storico gruppo ultras Boys San. La verità è che quando in quell’Inter-Udinese del settembre di tre anni fa all’improvviso, e senza che i «capi» avessero dato l’ordine, s’è alzato il coro «Vittorio uno di noi, Vittorio uno di noi», molti in Curva Nord hanno capito che le cose sarebbero andate a finire male.

Perché anche in un mondo sul filo criminale come quello del tifo organizzato, uno come il 69enne Vittorio Boiocchi è un personaggio difficile da digerire, da sopportare e soprattutto da contrastare. Uscito di galera con i gradi di chi ha frequentato il gotha criminale degli anni Novanta (dal clan di Cosa nostra dei Fidanzati, fino ai Mannino e ai calabresi) s’è trovato una strada spianata davanti. Gli ultrà nerazzurri si stavano ancora leccando le ferite per quello sciagurato assalto ai tifosi napoletani della sera del 26 dicembre 2018 costato la vita a Daniele «Dede» Belardinelli. Gli arresti della Digos sono stati il pretesto per ribaltare gli equilibri in Curva. Il nuovo direttivo aveva visto la restaurazione dei «vecchi». Sull’operazione l’ombra del Re Boiocchi. E il coro dedicato da alcuni ragazzi durante quell’Inter-Udinese ne aveva certificato il ritorno. Chi non aveva accettato d’essere stato messo all’angolo, lo storico portavoce della Curva Franchino Caravita, quel giorno aveva affrontato Boiocchi sugli spalti. E gli era andata male, finendo vittima di un pestaggio. In realtà in ospedale c’era finito Boiocchi, colpito da un attacco di cuore la notte stessa. I medici del Monzino lo hanno salvato per miracolo, e chi sperava invece in un bel funerale, fu costretto a farsi da parte. Il giorno successivo alla diffusione della notizia dello scontro in curva, una foto postata sui social con Boiocchi e Caravita abbracciati e un bel dito medio rivolto ai giornalisti. Doveva essere il segnale di una pace, è stata invece l’immagine di una resa. Caravita ridimensionato e costretto a farsi da parte.

Sabato sera, fonti interne alla Nord raccontano di un certo imbarazzo nella gestione della notizia. Prima la decisione di togliere gli striscioni appena rimbalzano le voci sull’agguato, poi quella di uscire dagli spalti a metà match. Con molti costretti a uscire loro malgrado con i metodi non proprio ortodossi degli ultrà. Ma anche di lunghe discussioni. Perché Boiocchi era il capo, ma era anche molto altro, e tutti lo sapevano benissimo sugli spalti. Ora probabilmente partirà il processo di beatificazione per farne un feticcio come i laziali hanno fatto con Diabolik. Ma potrebbe non essere così. E sarebbe un segnale importante. Tra i primi a postare un ricordo, l’amico Nino Ciccarelli, altro membro del direttivo, e altro frequentatore delle patrie galere a lungo: tre cuori neri su uno sfondo grigio scuro, postati sui social. Nessuna parola. Solo il lutto. Ma dicono che più d’uno in Curva sia rimasto sollevato alla notizia della sua morte mezz’ora dopo al San Carlo. Basta per farne un movente? Per niente. E forse il legame con la Curva in questa storia finisce qui.

La sola circostanza che al momento lega l’agguato di sabato sera in via Fratelli Zanzottera, a Figino, con le questioni di tifo è l’orario in cui è avvenuta l’esecuzione. Un’ora prima della partita Inter-Sampdoria che si giocava a San Siro, stadio nel quale il capo della Nord però non poteva entrare a causa di un divieto di avvicinamento al Meazza. Chi ha sparato lo sapeva benissimo. Ma avrebbe potuto farlo in un altro giorno, in un’altra sera. Boiocchi non ha la patente «revocata da 50 anni», come raccontava lui intercettato. Si muoveva a piedi, frequentava il bar di fronte a casa, era un bersaglio facile e abitudinario. Perché ucciderlo la sera della partita? Per spostare l’attenzione su questioni di tifo? Per far credere che il calcio e lo sport c’entrino qualcosa? La circostanza è indubbiamente anomala anche per gli investigatori. Ma spesso ciò che appare molto suggestivo ha ragioni semplici. Forse, banalmente, con il resto degli amici e dei guardaspalle di Boiocchi allo stadio, i killer si sentivano più liberi di agire. O forse ciò che ha fatto scattare il delitto è maturato solo poche ore prima e gli assassini non badano al calendario del campionato.

Chi lo conosceva bene racconta di una sola ossessione: i soldi. Farli in tutti i modi. Con estorsioni, affari occulti nel controllo di piccole attività, droga e chissà ancora cos’altro. E qui si sta concentrando l’attenzione degli investigatori della squadra Mobile, diretti da Marco Calì e coordinati dal pm della Dda Paolo Storari, che stanno cercando i due killer fuggiti su una moto. Nell’inchiesta che lo ha portato in carcere per estorsione l’anno scorso, in una intercettazione Boiocchi racconta d’avere interessi nel business dei biglietti e dei parcheggi di San Siro: «Sto perdendo un sacco di soldi con il blocco delle partite e dei concerti. Prendo 80 mila euro al mese tra parcheggi e altre cose. Finalmente eravamo riusciti a fare una bella cosa con la gestione dei parcheggi  con 700-800 biglietti in mano, due paninari a cui abbiamo fatto avere il posto che ci danno una somma a partita. In sostanza 10 mila euro a partita». Una vicenda ancora tutta da chiarire ma sulla quale è possibile fossero già in corso gli accertamenti degli inquirenti. Le parole di Boiocchi più che quelle di un capo ultrà somigliano ai proclami di un capomafia. E questo, invece, potrebbe aver avuto un peso notevole nell’epilogo di sabato sera.

Boiocchi è stato condannato dieci volte, come scrive il giudice Fabio Roia nel decreto con cui ha ordinato la sorveglianza speciale con divieto di avvicinamento a 2 chilometri dal Meazza, e ha iniziato con i primi reati nel 1974. Associazione per delinquere finalizzata al traffico internazionale di droga (con il clan Fidanzati), porto d’armi, sequestro di persona, rapina. Ufficialmente non lavora, come sua moglie Giovanna Pisu. Dal ’92 al 2018 ha trascorso in carcere «un periodo totale di 26 anni e tre mesi». Lì, tra Opera e Spoleto, ha accresciuto i suoi contatti criminali. Passando dai siciliani ai calabresi.

Nel suo fascicolo c’è un evento recente considerato dagli investigatori molto importante. Il 27 luglio 2020 viene controllato in un bar di via Correggio a Milano insieme a Vincenzo Facchineri, figlio del boss della ‘ndrangheta Michele detto «il Papa», e con Antonio Canito, detto «Caniggia» ras criminale di via Quarti e da sempre legato al clan pugliese dei Magrini. Nomi di un certo peso negli equilibri milanesi. Anche perché voci raccontano che con Canito, Boiocchi in passato abbia avuto più di un dissapore. Tanto che il fratello Massimiliano Canito fu vittima di un misterioso agguato in un bar: gambizzato a colpi di fucile. Caso mai risolto. Boiocchi, insomma, più che lo stadio frequentava altri ambienti. Dove il potere si costruisce in un solo modo: i soldi. E Boiocchi li chiedeva, li pretendeva da tutti, non c’era affare dove non volesse entrare. I soldi sono l’inizio di questa storia, la trama centrale, e probabilmente anche il finale.

Fonte:https://milano.corriere.it/notizie/22_ottobre_30/cosa-c-e-dietro-la-morte-di-boiocchi-l-ossessione-per-i-soldi-e-i-contatti-criminali-d54e4f16-2c3c-4b8a-a1f3-c1bfd8d96xlk.shtml