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Vittima rompe l’omertà sulla faida, i pm: “Azione paramilitare per sottomettere lo Zen”

Vittima rompe l’omertà sulla faida, i pm: “Azione paramilitare per sottomettere lo Zen”

Dal provvedimento con cui sono state fermate altre 4 persone per la sparatoria di martedì in via Patti, emerge la versione fornita da Giuseppe Colombo. Un racconto che combacia pienamente con quello della testimone chiave. Ha riconosciuto almeno 9 uomini che avrebbero fatto parte del commando: “Mi sembrava di essere in ‘Gomorra’”

Sandra Figliuolo

29 marzo 2021 15:01

Un’operazione “paramilitare” che avrebbe avuto lo scopo di dimostrare non solo alle vittime dell’agguato, ma anche a tutto lo Zen, la potenza di chi avrebbe voluto regnare sul territorio e la sua capacità di eliminare qualasiasi tentativo di ribellione o di minaccia al proprio controllo. E’ in questo modo che, secondo la Procura, andrebbe inquadrata la sparatoria in cui, martedì scorso, tra le vie Patti e de Gobbis, sono rimasti feriti Giuseppe Colombo e suo figlio Antonino da un “commando” composto da parecchie persone e capeggiato dai Maranzano.

Due di loro, i fratelli Litterio e Pietro, sono già in carcere, ma stamattina – su disposizione del procuratore aggiunto Salvatore De Luca e dei sostituti Amelia Luise ed Eugenio Faletra – sono state fermate altre quattro persone, tra cui un loro cugino, Vincenzo Maranzano, un cognato di quest’ultimo, di Ballarò, Attanasio Fava, e Giovanni e Nicolò Cefali, padre e figlio, che secondo l’accusa sarebbero vicinissimi ai Maranzano. Mancano certamente ancora delle persone all’appello. In questo secondo pezzo dell’inchiesta della squadra mobile, però, emerge che una delle vittime, Giuseppe Colombo, dopo un momento di reticenza ha poi deciso di raccontare quanto accaduto martedì e anche di fare nomi e cognomi dei suoi aggressori. La sua testimonianza – che rompe un terribile muro di omertà – non solo troverebbe riscontro nelle dichiarazioni inizialmente rese da una donna, ma anche nelle immagini riprese dalle telecamere di un bar.

La testimonianza di una delle vittime

Giuseppe Colombo, subito dopo essere stato ricoverato a Villa Sofia, avrebbe prima indicato i Maranzano e poi si sarebbe rifiutato di firmare il verbale “trincerandosi dietro il muro della reticenza e confessando la paura di ritorsioni e rappresaglie”, si legge nel provvedimento di fermo. Dopo 24 ore, quando nel frattempo una donna aveva raccontato le varie fasi che avrebbero portato all’agguato ai poliziotti, Colombo si sarebbe deciso a cambiare rotta: non solo ha confermato le dichiarazioni precedenti, ma ne ha fatte altre, “atte ad una completa e quasi totalizzante ricostruzione dei fatti”. Ha deciso così di affidarsi alla giustizia dello Stato e non a quella dell’arroganza e della prevaricazione che infestano non solo i quartieri periferici della città.

“C’è stato uno screzio animato”

“L’attentato che abbiamo subito – afferma Colombo – è avvenuto davanti a una taverna, accanto a un chiosco che vende pane e panelle. C’è stato uno screzio animato tra mio figlio Antonino e Pietro Maranzano, suo fratello Litterio, Nicolò Cefali ed un ragazzo, bassino, di circa 30 anni, figlio di un detenuto per mafia”. La questione sembrava appianata, ma “appena arrivati sotto casa di mio figlio Fabrizio, in via Girardengo, è arrivato questo Cefali che inveendo si è avventato contro mio figlio, gli ha dato uno schiaffo e mio figlio ha reagito. Io sono intervenuto per dividerli e Cefali è scappato a piedi, lasciando la macchina con cui era venuto sul posto. Dopo qualche minuto sono arrivate due persone a recuperare l’auto, una era il fratello di… (fa il nome di una persona già coinvolta in un omicidio, ndr). A questo punto siamo andati a casa di mio figlio Antonino, in via Marciano”.

“Tutti i Colombo se ne devono andare dallo Zen”

Come già raccontato dalla donna testimone chiave dell’inchiesta, Colombo riferisce che lei sarebbe andata davanti alla macelleria di Cefali, che si trova accanto al negozio di frutta e verdura del padre dei Maranzano per capire le loro intenzioni. “Lei mi ha riferito che lì c’erano una trentina di persone, che erano molto agitate, che aveva provato a calmare le acque, ma che Litterio per tutta risposta le aveva detto che tutti i Colombo se ne dovevano andare dallo Zen. Lei mi ha anche detto che aveva allertato le forze dell’ordine temendo che potesse succedere qualcosa di brutto”.

L’incontro e la pacificazione fallita

Poi – anche questo aveva raccontato la donna – “mio figlio Fabrizio mi riferiva di aver ricevuto una telefonata nella quale gli dicevano che ci saremmo dovuti recare vicino alla taverna dove dopo abbiamo subito l’attentato, per incontrare Giovanni Cefali, padre di Nicolò. Questi mi riferiva che Litterio voleva litigare con mio figlio Antonino, mentre suo fratello Pietro con mio figlio Fabrizio con le mani, chiusi in una stanza. Mi sembrava fuori luogo e dicevo a Giovanni di riferire a Litterio Maranzano di incontrarci al bar Cheri per mettere la pace e concludere questa inutile discussione. Dopo aver atteso lì 10 minuti si presentava di nuovo Giovanni Cefali dicendomi che Litterio non aveva alcuna intenzione di fare pace”.

“Mi sembrava un film come Gomorra”

A quel punto, tornato alla taverna, “vedevo arrivare almeno tre auto completamente piene di persone e qualche motore che mi sembrava un film tipo ‘Gomorra’ – afferma Colombo – e ho riconosciuto subito l’auto di Nicolò Cefali, che scendeva dalla macchina con Litterio e Pietro Maranzano. Io sono andato incontro a loro, ma Litterio senza farmi parlare mi dava subito una testata, ho cercato di difendermi ma mi è saltato addosso anche il fratello Pietro. I miei figli hanno attraversato la strada per raggiungermi e ho cominciato a sentire diverse esplosioni di colpi di pistola ed ho visto di sicuro la pistola in mano a Pietro Maranzano, Nicola Cefali, Vincenzo Maranzano, quello che è stato arrestato per il tentato omicidio di Gabriele Alì, cioè Lausgi Kemais. Non ho visto se anche Litterio aveva una pistola. Oltre a questi c’erano sicuro altri due (di cui fa il nome, ndr) e il cognato di Vincenzo Maranzano, Fava di Ballarò. C’era anche Giovanni Cefali, è stato lui che ha portato tutti gli altri da noi. Noi abbiamo cercato di fuggire, sentendo i colpi ci siamo infilati nella Panda di mio figlio Antonino e insieme a Fabrizio siamo andati a Villa Sofia, perché ci siamo accorti che io e Antonino eravamo feriti”.

Riconosciuti almeno 9 membri del commando

Il giorno ancora dopo, Giuseppe Colombo ha indicato i suoi presunti aggressori da un album fotografico che gli è stato mostrato dagli inquirenti. Riconosceva così diversi presunti membri del “commando”: Nicolò Cefali, suo padre Giovanni, Letterio Maranzano, che definisce come “capobranco”, il fratello Pietro, il cugino Vincenzo Maranzano e Fava, nonché altre tre persone che avrebbero partecipato alla sparatoria.

Le immagini riprese dalle telecamere di un bar

“Le dichiarazioni di Giuseppe Colombo appaiono tanto munite di una attendibilità intrinseca quanto supportate da congrui riscontri di natura estrinseca”, dicono i pm e “il suo è un narrato coerente e puntuale, nello sviluppo diacronico dei fatti” che, secondo l’accusa, non potrebbe essere tacciato di “tendenziosità” perché Colombo sarebbe una vittima “trasverale dell’agguato e non ha una posizione, a differenza quasi certamente dei figli Fabrizio e Antonino, caratterizzata da un accumulo di animosità e acredine nei rapporti con i Maranzano”. Inoltre tutto troverebbe conferma nelle immagini riprese martedì scorso dalle telecamere di sorveglianza del bar Cheri di via Ignazio Mormino. Che hanno anche inquadrato un’altra persona coinvolta nella vicenda e di cui Colombo non sapeva però il nome.

Tra le altre cose, intorno a mezzogiorno, si vedrebbe nitidamente Antonino Colombo uscire dal bar ed urtare con il fianco Nicolò Cefali. Ovvero l’episodio che la testimone (e poi anche Giuseppe Colombo) hanno indicato come il primo passo verso la sparatoria del pomeriggio. Inoltre, dalle immagini, si può verificare che effettivamente Colombo sarebbe tornato al bar intorno alle 14.20, con “un atteggiamento di attesa”, a conferma del nuovo incontro con Giovanni Cefali per cercare di fare pace con i Maranzano. Alle 14.57 la donna aveva chiamato il 113 e aveva dato l’allarme per la sparatoria appena avvenuta.

La convergenza tra le due testimonianze

Per gli investigatori “le dichiarazioni di Colombo collimano in maniera assolutamente convergente nella ricostruzione delle varie fasi in cui si dipana la vicenda e nell’individuazione dei soggetti presenti nei momenti cruciali” con quella fatta dalla testimone chiave. L’unica discrepanza, per la Procura, è relativa alla collocazione di Nicolò Cefali al momento della sparatoria: Colombo lo mette alla guida dell’Audi Q3 sulla quale sarebbero arrivati i Maranzano, mentre la donna lo colloca su uno scooter. Una “divergenza di poco conto che non mina in alcun modo l’affidabilità delle loro dichiarazioni, soprattutto se si pensa alla concitazione del momento”. E poi, sottolineano i pm, “nessuno dei due era a conoscenza delle dichiarazioni dell’altro né erano nella benché minima condizione di potersi confrontare sulle rispettive versioni dei fatti”.

Il ruolo di Giovanni Cefali: “Agisce per conto dei Maranzano”

Gli investigatori si soffermano poi sulla figura di Giovanni Cefali, che “ha giocato un ruolo fondamentale nella costruzione dell’agguato da parte del commando” e che può quindi essere considerato “complice dei Maranzano e degli altri soggetti, armati e non, che hanno attentato alla vita dei Colombo, condividendone appieno il progetto criminale che per la propria attuazione ha fatto affidamento proprio sul ruolo da lui svolto. Cefali non si fa mai portatore di interessi o opinioni personali, ma parla sempre per conto dei Maranzano. Prima – dice la Procura – serba l’atteggiamento di chi vuole quasi aiutare Giuseppe Colombo a ‘metterci una pezza’ per distendere gli animi, organizzando anche un incontro tra lui e Letterio Maranzano, in tal modo carpendo la fiducia e la buonafede di Colombo e alimentando in lui false aspettative sul buon esito di un incontro che non si sarebbe mai tenuto”.

Inoltre, “Cefali celava abilmente agli occhi di Giuseppe Colombo la preparazione di un pericolo imminente per la sua incolumità e quella dei figli; una preparazione di tipo paramilitare con un rilevante numero di uomini e mezzi”. Non solo: “Giovanni Cefali con la propria macchina fa da apripista al convoglio armato capeggiato dall’Audi Q3 con i Maranzano a bordo e guidata da suo figlio Nicolò, uno dei soggetti parte attiva alla sparatoria” ed è sempre lui che “si adopera nella raccolta dei bossoli e dei proiettili e nella ripulitura sommaria del luogo dalle tracce del delitto”.

Il suo comportamento, per la Procura, ha permesso ai “Maranazano di avere il tempo di organizzare uomini e mezzi per tendere un agguato ai Colombo, mentre questi sono stati colti del tutto impreparati e impossibilitati ad approntare una minima difesa o reazione di fronte ad un pericolo che non potevano in alcun modo prevedere”.

I contorni della sparatoria e il controllo del territorio

“Con la sparatoria – si legge ancora nel fermo di stamattina – è emersa la volontà del gruppo armato di attuare l’eliminazione di qualsiasi velleità di intromissione da parte dei Colombo nel controllo del territorio, ritenuto di loro esclusivo appannaggio, può ritenersi che tale sostrato motivazionale di fondo abbia ugualmente implementato la volontà dei rei di uccidere così come di ferire i loro avversari”. Peraltro viene contestata l’aggravante mafiosa, perché l’agguato sarebbe legato “a logiche di regolamentazione del controllo e del potere facenti capo alle consorterie mafiose nelle loro articolazioni territoriali”.

“L’azione paramilitare per piegare il quartiere”

Inoltre “l’ostentazione dei Maranzano di un solido apparato organizzativo, fatto di risorse umane e materiali, dai connotati paramilitari, è intrinsecamente funzionale alla rappresentazione, nei Colombo così come nella popolazione della zona (l’agguato è avvenuto in pieno giorno e su via pubblica allo Zen 1), del loro potere criminale di fronte al quale non è ammessa alcuna forma di contrapposizione o di collaborazione con parti latu sensu ostili, siano esse fazioni criminali avverse o le forze dell’ordine” e a riprova di tutto questo ci sarebbe il comportamento delle vittime che “si sono inizialmente trincerate dietro il muro dell’omertà e del silenzio alimentati dalla linfa della paura e del terrore, arrivando persino a fare ostruzionismo” sulla testimone chiave.

fonte: https://www.palermotoday.it/cronaca/mafia/arresti-sparatoria-zen-retroscena-29-marzo-2021.html