Roberto Scarpinato 28 Agosto 2023
Si sta pericolosamente diffondendo l’idea che chi denuncia le collusioni tra la mafia e le componenti neofasciste dello Stato lavori contro di esso. Le recenti dichiarazioni del professor Costantino Visconti rendono necessario un ripasso dei fatti accertati da più di mezzo secolo di atti giudiziari che ricostruiscono la rete e la portata dei rapporti Stato-mafia, andando ad osservare anche le strane simpatie di questo governo per personaggi legati al passato stragista di matrice fascista e mafiosa
“Vi sono due storie: la storia ufficiale, menzognera, che ci viene insegnata e la storia segreta, dove si trovano le vere cause degli avvenimenti, una storia vergognosa”.
Honorè de Balzac
In una intervista pubblicata sul Foglio il 20 luglio 2023 Costantino Visconti, docente di diritto Penale all’Università di Palermo, ha auspicato che nelle scuole non vengano più invitati il magistrato Nino Di Matteo e il giornalista Saverio Lodato in quanto esponenti di una antimafia nichilista (ribattezzata “della fuffa” nella titolazione dell’intervista) che afferma che “lo stato è marcio”, “mette permanentemente in discussione i risultati che ottengono i corpi professionali dello stato nel contrasto a Cosa Nostra in nome di un inafferrabile oltre, di un sistema mafioso superiore e supremo che rimarrebbe sempre impunito” e “non dà mai soddisfazione a chi lavora sul campo”. “Questo modo di intendere la mafia” – spiega Visconti – “nega la storia alle nuove generazioni… confonde le acque, punta inesorabilmente a celebrare l’invincibilità della mafia e dei suoi registi occulti”, mentre invece “bisogna insegnare bene la storia” raccontando che oggi “siamo arrivati al punto in cui le mafie sono sotto pressione permanentemente. In questo modo dai la sensazione che qui l’identità forte è lo Stato, che nulla ha che vedere con la mafia”.
L’invito rivolto dal prof. Visconti è stato respinto al mittente da circa cento studenti di università e scuole di tutto il paese, sottoscrittori di una lunga lettera aperta che nel rivendicare il diritto di ascoltare e confrontarsi con magistrati come Di Matteo e giornalisti come Lodato, argomentano come e perché la rappresentazione della mafia e dei suoi rapporti con il potere proposta dal professore sia “totalmente fuorviante e antistorica”, assicurandogli “che i giovani e gli studenti conoscono la storia, ma quella vera, scomoda e fastidiosa: non la storia che ci viene propinata con concetti retorici ed astratti di legalità, o con passerelle istituzionali all’interno delle nostre scuole e università”.
Al di là delle considerazioni di merito formulate dagli studenti, la fatwa lanciata dal professor Visconti merita riflessione sotto altri profili.
Il primo è quello del metodo utilizzato per tentare di delegittimare coloro che intende criticare, consistente nell’attribuire ad essi pensieri ed affermazioni squalificanti per la loro rozzezza culturale ed il loro estremismo.
Ne parlo con cognizione di causa essendo stato bersaglio di questo metodo. Dopo la cattura in data 16 gennaio 2023 di Matteo Messina Denaro, pur ribadendo la professionalità e la trasparenza dell’operato della Procura di Palermo e degli organi di polizia nel conseguire quell’importante risultato, avevo espresso l’opinione che meritassero di essere approfondite alcune palesi anomalie del comportamento del latitante nei mesi precedenti la cattura quali, ad esempio, la noncuranza nel farsi fotografare da terzi ignari della sua reale identità, rimasti in possesso della sua immagine nella memoria del proprio cellulare con la conseguente impossibilità di controllarne la successiva diffusione ad un numero indeterminato di persone, l’utilizzo del proprio cellulare anche per l’inoltro di messaggi vocali registrati, la sua indifferenza nel circolare all’interno di Campobello di Mazzara nonostante persino il sindaco fosse a conoscenza che tutto il piccolo paese era disseminato di microspie e telecamere, e nonostante che suoi fedelissimi fossero stati tratti in arresto poco tempo prima anche grazie alle riprese effettuate da telecamere piazzate dalle Forze di Polizia in luoghi prossimi al suo covo.
Anomalie peculiari sia in considerazione della pregressa pluriennale maniacale cura del latitante nel non lasciare alcuna traccia di sé, che della pubblica anticipazione in televisione nel novembre 2022 da parte di Salvatore Baiardo, uomo del capo mafia stragista Giuseppe Graviano, sull’imminenza della cattura di Messina Denaro come epilogo di una lunga trattativa segreta. Circostanza di cui il Baiardo si mostrava così certo da invitare il conduttore a rivedersi di lì a poco per verificare se quanto da lui affermato fosse veritiero o fandonia.
A seguito della formulazione di tali perplessità, il successivo 29 gennaio, il prof. Visconti pubblicava un articolo con mia fotografia e richiamo in prima pagina intitolato “L’eterno ritorno dell’antimafia nichilista”, qualificandomi come esponente di spicco di tale antimafia composta da “nichilisti di professione”, “un plotone che si incarica di sparare a raffica dubbi, complotti, trame oscure, in ogni dove” e che mette “permanentemente in dubbio i risultati che ottengono i corpi professionali dello stato nel contrasto a Cosa Nostra in nome di un inafferrabile oltre” e che “presume di capire e sapere più di tutti come stanno realmente le cose”.
Di tale mio asserito atteggiamento nichilista estrinsecantesi nel non dare mai merito ai corpi professionali dello Stato, il professore offriva al pubblico una prova documentale inconfutabile, affermando: “Perché, a ben vedere, Scarpinato è coerente: anche quando con una fulgida operazione investigativa fu catturato Bernardo Provenzano, il vero capo dei capi rimasto in carica sino al 2006 da incallito latitante, lui definì l’arresto più o meno una colossale arma di distrazione di massa volta ad oscurare i veri padroni del sistema politico mafioso”. Si trattava di una grossolana falsità. Mai pensato o affermato nulla di simile. L’articolo intitolato Bernardo Provenzano e le armi di distrazioni di massa era stato pubblicato su MicroMega il 23 maggio 2005 cioè quasi un anno prima dell’arresto di Provenzano avvenuto l’11 aprile 2006, e riguardava tutt’altro argomento che l’arresto di latitanti, avendo per tema la critica della costruzione sociale del sapere sulla mafia incentrata pressoché esclusivamente sulle gesta di personaggi come Provenzano e Riina, di estrazione popolare e di modesta cultura, rimuovendo il ruolo centrale svolto nel sistema di potere mafioso dai colletti bianchi esponenti della cosiddetta borghesia mafiosa.
A fronte della mia richiesta di rettifica alla direzione del giornale e del mio annuncio di adire altrimenti le vie legali, il prof. Visconti era costretto ad ammettere di avere preso una sonora cantonata, concludendo: “Sarebbe bello e opportuno promuovere una discussione su questa diversità di interpretazioni in un pacato e costruttivo dibattito pubblico”.
Buon proposito tuttavia subito abbandonato, perché poco tempo dopo il professore ha ripetuto lo stesso metodo e la stessa fraseologia per tentare di screditare Di Matteo e Lodato attribuendo loro affermazioni squalificanti mai fatte e distorcendone il pensiero. Nessuno dei due, infatti, ha mai affermato che “lo Stato è marcio” né tantomeno ha messo “permanentemente in discussione i risultati che ottengono i corpi professionali dello stato nel contrasto a Cosa Nostra”.
Entrambi nella diversità dei propri ruoli hanno messo in luce una verità storica ormai consolidata a seguito di una messe significativa di sentenze e di acquisizioni documentali.
E cioè che all’interno dello Stato accanto a componenti fedeli alla legalità costituzionale e alla democrazia, hanno operato anche componenti infedeli, terminali di complesse reti istituzionali collegate a poteri extraistituzionali, che hanno depistato le indagini, hanno garantito protezioni e impunità ad esecutori di delitti, tenuto al riparo complici eccellenti, talora anche fornito supporto logistico alla consumazione dei reati.
Una fenomenologia che si è declinata soprattutto sui terreni che hanno intersecato la criminalità del potere – stragismo della destra eversiva, progetti di colpi di stato, delitti politici, omicidi e stragi di mafia – e che per la sua ininterrotta continuità nel tempo, per la rilevanza dei ruoli ricoperti dai suoi protagonisti negli apparati istituzionali, non può essere derubricata a mera sommatoria aritmetica di cadute e deviazioni individuali, disconnesse l’una dall’altra, ma appare piuttosto indicativa della perpetuazione nel tempo di tali componenti infedeli e della loro nefasta ed occulta azione illegale e antidemocratica.
Si tratta di una casistica così vasta da non potere essere neppure sommariamente inventariata nel breve spazio di un articolo. Basti ricordare i depistaggi che caratterizzarono la strage politico-mafiosa di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947 che tenne a battesimo la nascita della Repubblica, cui fecero seguito gli omicidi degli esecutori depositari di segreti scottanti che minacciavano di rivelare i nomi dei mandanti, come Gaspare Pisciotta avvelenato all’interno del carcere dell’Ucciardone. Una strage che segna nel laboratorio politico siciliano l’anno zero della strategia della tensione che si svilupperà nel Paese nel corso dei successivi anni Settanta e Ottanta con una sequenza di stragi, di progetti di colpi di stato, di omicidi politici che non ha uguali in nessun altro paese europeo di democrazia avanzata. Una sequenza che vede interagire – come accertato in plurime sentenze definitive – un articolato sistema criminale che assembla al suo interno neofascisti, circoli massonici (di cui la P2 è solo il paradigma più noto) che operano come cabina di regia delle componenti più reazionarie della classe dirigente del paese, ivi compresa l’alta mafia, nonché alcuni vertici dei servizi, dell’esercito e dei corpi di polizia.
Da qui l’ininterrotto coinvolgimento di talune componenti dello Stato nelle stragi, che si è esplicata con depistaggi per impedire di risalire ai mandanti, con favoreggiamenti per taluni esecutori per garantirne l’impunità, con una azione di intossicazione informativa. Condotte giudiziariamente accertate in più casi anche con sentenze definitive di condanna come quelle nei confronti di vertici dei servizi e di esponenti delle forze di polizia per depistaggi e favoreggiamenti nelle stragi di Milano a Piazza Fontana del 1969, di Peteano nel 1972, di Bologna nel 1980.
La Corte di Assise di Bologna con la sentenza depositata il 5 aprile 2023 ha aggiunto un ulteriore drammatico tassello, ritenendo accertato che la strage del 1980, eseguita dai neofascisti, fu organizzata da Federico Umberto D’Amato, capo dell’Ufficio riservati del Ministero dell’Interno, unitamente a Licio Gelli, vertice della P2, entrambi già coinvolti nel progetto di colpo di stato del dicembre 1970, al quale avevano preso parte neofascisti ed esponenti della mafia siciliana e della ‘Ndrangheta.
Tale occulta lotta politica condotta con stragi e omicidi, variamente definita dagli storici come “guerra non ortodossa”, “guerra a bassa intensità”, “guerra per procura”, si è avvalsa nel continente di esecutori neofascisti e di altri specialisti della violenza, mentre in Sicilia e in Calabria si è avvalsa della mafia che ha offerto non solo esecutori, ma anche la causale mafiosa quale copertura di causali politiche che dovevano restare occulte, come aveva compreso Giovanni Falcone quando seguendo in tutto il mondo il filo di Arianna del riciclaggio del denaro sporco, si era ritrovato, insieme ai colleghi milanesi Giuliano Turone e Gherardo Colombo che indagavano sulla P2, al centro di quella mostruosa connection di potere che annoverava al suo interno i vertici dei sevizi segreti, delle gerarchie militari e altri personaggi chiave della nomenclatura del potere del tempo.
Il 21 luglio 1979 era stato assassinato a Palermo Boris Giuliano, straordinario capo della Squadra mobile di Palermo che indagando sul riciclaggio dei capitali mafiosi si era tra l’altro imbattuto in un libretto al portatore appartenente a Michele Sindona, il quale in quel periodo si trovava in Sicilia sotto falsa identità. Dopo l’omicidio di Giuliano era stato nominato capo della Mobile Giuseppe Impallomeni, titolare della tessera P2 n. 2213, mentre contemporaneamente Questore del capoluogo palermitano era Giuseppe Nicolicchia, iscritto alla loggia segreta Ompan, fondata da Gelli a Rio de Janeiro. Dieci giorni prima, l’11 luglio, era stato assassinato l’avvocato Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della sindoniana Banca Privata Italiana, il quale aveva incontrato poco tempo prima Giuliano e non si era voluto piegare alle richieste di insabbiamento nonché alle minacce di morte che gli erano state fatte pervenire dal capo mafia Stefano Bontate, grado 33 della massoneria. Si tratta di quello stesso Stefano Bontate che nel 1980 partecipò a Palermo ad un summit con Giulio Andreotti, Salvo Lima, i cugini Salvo e altri per discutere del nuovo corso impresso alla politica regionale da Piersanti Mattarella. Lo stesso Bontate che aveva gestito il falso rapimento di Sindona e che lo custodiva in Sicilia, aderendo entusiasticamente ai progetti di colpo di Stato che il finanziere coltivava unitamente ad alcuni esponenti dell’ala oltranzista dell’amministrazione americana, fermamente ostile alle aperture politiche al partito comunista in Italia, progetti che furono discussi in riunioni congiunte con Licio Gelli. Su incarico di Bontate, il cognato di questi, Stefano Vitale, mafioso e massone, aveva detto ad Ambrosoli – il quale aveva registrato segretamente quelle minacce consegnando le bobine alla magistratura – che doveva salvare le banche di Sindona perché questa era l’indicazione che veniva da Giulio Andreotti. Miglior sorte fu destinata al governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi e al suo vice Mario Sarcinelli, i quali pure si erano opposti al salvataggio delle banche sindoniane con il denaro pubblico. Il primo venne incriminato per favoreggiamento e interesse privato in atti d’ufficio, il secondo fu addirittura tratto agli arresti nell’ambito di inchieste promosse da quella parte della magistratura che a Roma come a Palermo, annoverava tra i propri esponenti molti che avevano assidue frequentazioni con “Il Palazzo” e taluni che erano ospiti a Palermo dei potenti cugini Salvo, mafiosi organici (anche questo processualmente accertato). Il 17 luglio 1982 Roberto Calvi veniva impiccato sotto il ponte dei Frati neri a Londra, simulando un suicidio che solo dopo molti anni si scoprirà essere una messinscena. Il 22 marzo 1986 Michele Sindona, depositario di scottanti segreti, sarà trovato morto avvelenato nella sua cella nel carcere di Voghera.
Sulla base di queste ed altre consapevolezze, Falcone aveva compreso la complessa e occulta lotta di potere che, con proiezioni nazionali, si celava dietro le vicende di mafia ed alcuni delitti, nonché la convergenza di interessi che animava gli attacchi incessanti contro il pool antimafia provenienti da settori del mondo politico e dall’intellighenzia organica al sistema di potere del tempo con le accuse di essersi costituito in “autonomo centro di potere” e di avere snaturato la terzietà del ruolo del giudice istruttore dando vita a una aberrante figura di giudice sceriffo.
Non è un caso che nei suoi interventi difensivi su tali temi, egli coniughi le argomentazioni giuridiche con il riferimento alla lotta di potere che si celava dietro alcuni delitti mafiosi di uomini politici. Come, per esempio, nello scritto dal titolo “Controllo sociale nel Mezzogiorno” di cui qui si riportano alcuni brani emblematici: “Sono fioccate, quindi, critiche e perplessità sull’operato della magistratura: sempre più frequentemente, si è parlato dello stravolgimento del ruolo istituzionale della magistratura a opera di magistrati che hanno violato il principio della «terzietà» del giudice, improvvisandosi investigatori e usurpando le funzioni specifiche della polizia giudiziaria. Da taluni settori si è affermato anche che l’eccessivo impegno degli inquirenti nella repressione delle varie forme di criminalità organizzata ha distolto l’attenzione dalla delinquenza comune, la cosiddetta microcriminalità, con la conseguente recrudescenza di reati contro il patrimonio, come le rapine e gli scippi, che destano tanto allarme nella società. E la stessa instaurazione dei maxiprocessi è spesso attribuita a colpa del protagonismo dei giudici e a un’asserita volontà di conculcare e sopprimere il diritto di difesa degli imputati. Non si è mancato, poi, di sottolineare che iniziative della magistratura nel settore economico hanno determinato gravi guasti all’economia meridionale, e siciliana in particolare, provocando il peggioramento del fenomeno, di per sé gravissimo, della disoccupazione. […] Ma spesso si dimentica che, per quanto concerne la criminalità organizzata, l’intervento della magistratura riguarda l’individuazione dei responsabili di gravissimi crimini, e che l’esercizio dell’azione penale, nel nostro ordinamento giuridico, è costituzionalmente previsto come obbligatorio (art. 112 della Costituzione). Sarebbe, dunque, responsabile di colpevole inerzia quel magistrato che si astenesse dal tentare di accertare gli autori di reati sol perché la mafia e le altre organizzazioni similari costituiscono un problema che non è risolvibile, come spesso stancamente si ripete, con l’intervento repressivo statuale.
Non credo che qualcuno voglia sostenere che le centinaia di assassini provocati, negli anni ’81-83, dalla cosiddetta guerra di mafia debbano essere archiviati per essere rimasti a opera di ignoti senza nessun serio tentativo per scoprire i colpevoli. E quando, di fronte a omicidi gravissimi di uomini politici e di pubblici funzionari, si intuisce che le causali e i mandanti sono, le prime, particolarmente complesse e, i secondi, annidati all’interno delle pubbliche strutture, non credo che qualcuno voglia sostenere una sostanziale impunità per tali crimini, che sono obiettivamente destabilizzanti e minano le basi della società e dell’ordine democratico”.
La consapevolezza di Falcone del “gioco grande” del potere che si celava dietro talune vicende di mafia, si affinò ulteriormente nel corso delle indagini sui delitti politici mafiosi e, in particolare, su quello di Piersanti Mattarella, Presidente della Regione Sicilia, allievo di Aldo Moro, assassinato il 6 gennaio 1980 poco prima che si accingesse a rilanciare la linea del compromesso storico al congresso della Democrazia cristiana del febbraio del 1980, dove la coalizione di correnti di cui egli era uno dei capi fila era data per vincente, e che invece, dopo il suo omicidio, fu sconfitta aprendo la stagione del c.d. Preambolo.
Sia Falcone che Loris D’Ambrosio, uno dei magistrati più esperti nel paese in materia di destra eversiva (divenuto poi consigliere giuridico del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano), concordarono nel ritenere che la causale mafiosa di quell’omicidio fosse di copertura di causali politiche complesse che dovevano restare segrete.
Nella relazione dell’8 settembre 1989 trasmessa a Falcone, D’Ambrosio nel compiere una accurata disamina delle risultanze investigative acquisite, scriveva: “Non si tratta, allora, di un omicidio di mafia, ma di un omicidio di politica – mafiosa: nel quale cioè la riferibilità alla mafia come organizzazione deve necessariamente stemperarsi attraverso una serie di passaggi mediati, di confluenze operative ed ideative apparentemente disomogenee ma in grado di dare nel loro complesso, il senso compiuto dell’antistato”.
In esito ad una complessa e rigorosa indagine, Falcone individuò nei neofascisti Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini gli esecutori dell’omicidio Mattarella, gli stessi che pochi mesi dopo eseguirono il 2 agosto la strage di Bologna. I risultati della sua indagine sono stati convalidati – anche sulla base di nuove acquisizioni probatorie sopravvenute – dalla Corte di Assise di Bologna che nella sentenza di condanna all’ergastolo di Cavallini come esecutore della strage di Bologna, unitamente a Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, già condannati in separati giudizi, ha dedicato quasi cento pagine al riesame delle risultanze probatorie sull’omicidio, premettendo che la rivisitazione dell’omicidio Mattarella costituisce un passaggio obbligato del percorso argomentativo nell’accertamento delle responsabilità penali per la strage di Bologna, e aggiungendo: “Si vedrà che quanto Gilberto Cavallini scriveva nella lettera al ‘Caro camerata’ a proposito dell’uccisione di Mangiameli conferma in toto le intuizioni che ebbe a suo tempo il giudice istruttore Giovanni Falcone e che furono trasfuse nella sentenza-ordinanza del G.I. di Palermo del 9.6.1991, circa le possibili connessioni fra l’omicidio Mattarella, la strage di Bologna e l’omicidio Mangiameli (in particolare, l’opportunità di uccidere la moglie e la figlia del Mangiameli per quanto esse sapevano)”.
La Corte di Assise ha concluso tale parte della motivazione ricordando significativamente le dichiarazioni di Falcone alla Commissione Parlamentare Antimafia: “Questa Corte ha acquisito il verbale di audizione di Giovanni Falcone, dal resoconto stenografico della seduta del 3 novembre 1988 della Commissione Parlamentare Antimafia. Disse Falcone in quell’occasione:
‘Il problema di maggiore complessità per quanto riguarda l’omicidio Mattarella deriva dall’esistenza di indizi a carico anche di esponenti della destra eversiva quali Valerio Fioravanti. Posso dirlo con estrema chiarezza perché risulta anche da dichiarazioni dibattimentali da parte di Cristiano Fioravanti che ha accusato il fratello, di avergli detto di essere stato lui stesso, insieme con Gilberto Cavallini, l’esecutore materiale dell’omicidio di Piersanti Mattarella. È quindi un’indagine estremamente complessa perché sì tratta di capire se e in quale misura ‘la pista nera’ sia alternativa rispetto a quella mafiosa, oppure si compenetri con quella mafiosa. Il che potrebbe significare saldature e soprattutto la necessità di rifare la storia di certe vicende del nostro Paese, anche da tempi assai lontani.
Ci sono stati grossi problemi di prudenza in relazione a procedimenti in corso presso altre giurisdizioni, quale ad esempio il processo per la strage di Bologna in cui per parecchi punti la materia è coincidente. Ci sono collegamenti e coincidenze anche con il processo per la strage del treno Napoli- Firenze-Bologna che è attualmente al dibattimento, collegamenti che risalgono a certi passaggi del ‘golpe Borghese’, dì cui possiamo parlare perché se ne è già parlato nel dibattimento, in cui sicuramente era coinvolta la mafia siciliana. Ciò risulta dalle dichiarazioni convergenti, anche se inconsapevoli, di Buscetta, di Liggio, di Calderone. Ci sono inoltre collegamenti con la presenza di Sindona, sono tutti fatti noti. Questi elementi comportano per l’omicidio Mattarella, se non si vorrà gestire burocraticamente questo processo, la necessità dì una indagine molto approfondita che peraltro stiamo svolgendo e che prevediamo non si possa esaurire in tempi brevi”. Quella sull’omicidio Mattarella fu l’ultima indagine di rilievo condotta da Giovanni Falcone. Poco dopo fu delegittimato. Poi venne ucciso.
Fu proprio a seguito delle indagini su delitti politici mafiosi che intrecciavano le vicende mafiose siciliane a quelle stragiste nazionali, che contro Falcone scesero in campo, accanto ai tradizionali nemici di sempre, “le menti raffinatissime” con gli esposti anonimi del c.d. corvo e l’attentato all’Addaura del 21 giugno 1989. E fu su questo incandescente terreno che Falcone si scontrò duramente, arrivando alla rottura finale, con il procuratore capo di Palermo Piero Giammanco, come risulta dai brani del suo diario:
“Dicembre 1990: (Giammanco, ndr) ha preteso che Rosario Priore (giudice istruttore di Roma, ndr) gli telefonasse per incontrarsi con me e gli ha chiesto di venire a Palermo anziché andare io da lui. Si è rifiutato di telefonare a Giudiceandrea (Ugo Giudiceandrea, procuratore di Roma, ndr) per la Gladio (struttura paramilitare clandestina, ndr) prendendo pretesto dal fatto che il procedimento non era stato assegnato ancora ad alcun sostituto.
13 dicembre 1990: nella riunione del pool per la requisitoria Mattarella (Piersanti Mattarella, presidente della Regione siciliana ucciso il 6 gennaio 1980 a Palermo, ndr) mi invita in maniera inurbana a non interrompere i colleghi infastidito per il fatto che io e Lo Forte (Guido Lo Forte, pm di Palermo, ndr) ci eravamo alzati per andare a fumare una sigaretta, rimprovera aspramente il Lo Forte.
18 dicembre 1990: “Dopo che ieri pomeriggio (Giammanco, ndr) si è deciso di riunire i processi Reina (Michele Reina, segretario provinciale della DC, ndr), Mattarella e La Torre (Pio La Torre, segretario regionale del Pci, ndr), stamattina gli ho ricordato che vi è l’istanza della parte civile nel processo La Torre (Pci) di svolgere indagini sulla Gladio. Ho suggerito, quindi, di richiedere al G.I (giudice istruttore, ndr) di compiere noi le indagini in questione, incompatibile col vecchio rito, acquisendo copia dell’istanza in questione. Invece sia egli sia Pignatone (Giuseppe Pignatone, allora pm di Palermo, ndr) insistono per richiedere al G.I. soltanto la riunione riservandosi di adottare una decisione soltanto in sede di requisitoria finale. Un modo come un altro per prendere tempo.
18 dicembre 1990: “(Giammanco) non ha più telefonato a Giudiceandrea e così viene meno la possibilità di incontrare i colleghi romani che si occupano della Gladio”. […]
26 gennaio 1991: Apprendo oggi da Pignatone, alla presenza del capo (Giammanco, ndr), che egli e Lo Forte si erano recati dal cardinale Pappalardo per sentirlo in ordine a quanto riferito, nel processo Mattarella, da Lazzarini Nara (segretaria di Licio Gelli, capo della loggia massonica P2, ndr). Protesto per non essere stato previamente informato sia con Pignatone sia con il capo, al quale faccio presente che sono prontissimo a qualsiasi diverso mio impiego ma che, se si vuole mantenermi il coordinamento delle indagini antimafia, questo coordinamento deve essere effettivo. Grandi promesse di collaborazione e di lealtà per risposta”.
Dell’emarginazione e dell’angoscia di Falcone in quegli anni sono stato diretto e partecipe testimone. Mi confidò che doveva andar via perché restando in quella Procura il suo nome rischiava di perdere credibilità giorno dopo giorno. Così alla fine decise di accettare l’offerta di trasferirsi a Roma assumendo l’incarico di direttore generale presso il ministero di Grazia e Giustizia. Ero presente quando congedandosi dall’imperterrito Procuratore capo, gli disse: “È penoso quello che ho dovuto ascoltare nei corridoi di questo palazzo, constatare che, tranne pochi, tutti sono contenti per il fatto che me ne sto andando”.
Ancora una volta, così come era accaduto in passato all‘Ufficio Istruzione, il vero punctum dolens non era il Falcone che indagava sulla mafia militare. Il punto di rottura, il trasformarsi dell’insofferenza in aperta crisi di rigetto, si verificava quando ci si rendeva conto che, nonostante gli inequivocabili segnali che gli erano stati dati, Falcone non era disponibile a fermarsi solo a quel versante del pianeta mafioso.
Sulle causali dei contrasti di Falcone con Giammanco, resi puntuale testimonianza il 29 luglio 1992 al Consiglio superiore della Magistratura, dove fui convocato per dare spiegazione dei motivi che mi avevano indotto, dopo la strage di via D’Amelio, a redigere un documento, sottoscritto da altri sette sostituti procuratori, nel quale minacciavamo le dimissioni dal pool antimafia se Giammanco non fosse stato allontanato dalla Procura.
Come ho riferito anche nelle sedi istituzionali, in occasione di uno dei nostri ultimi incontri a Roma poco prima della strage di Capaci, Falcone nel confidarmi di essere sicuro di essere nominato procuratore nazionale antimafia, mi disse che finalmente avremmo potuto riprendere le indagini sui delitti politici che ci era stato impedito di svolgere in precedenza.
Non gliene diedero il tempo, massacrandolo il 23 maggio 1992 a Capaci con modalità eclatanti decise da Riina dopo che, come dichiarato dal collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi, componente della Commissione di Cosa Nostra, aveva incontrato personaggi importanti che gli avevano chiesto di uccidere Falcone con le bombe. A seguito di tale incontro Riina cambiò i piani ordinando che il 5 marzo 1992 rientrasse da Roma il commando capitanato da Messina Denaro che si apprestava ad uccidere Falcone nella capitale con modalità tradizionali. Mentre, come ha dichiarato il collaboratore di giustizia Francesco Onorato, Salvatore Biondino, braccio destro di Riina rassicurava altri uomini di onore che l’organizzazione aveva le spalle coperte, perché c’erano altri, oltre ai mafiosi, che volevano Falcone morto.
Stessa sorte riservarono a Paolo Borsellino affrettandosi prima che avesse il tempo di dichiarare alla Procura di Caltanissetta e di formalizzare a verbale per quanto di sua competenza, quanto aveva appreso da Falcone e quanto gli era stato confidato da alcune fonti (Gaspare Mutolo, Leonardo Messina ed altri) che oltre a rivelargli le collusioni con la mafia di Bruno Contrada, vertice dei servizi segreti, nonché di alti vertici dell’arma dei carabinieri (vedi deposizione dibattimentale di Agnese Piraino Leto, moglie di Borsellino), lo avevano informato di riunioni svoltesi nella provincia di Enna nelle quali un gruppo di selezionati capi di Cosa Nostra avevano messo a punto un complesso piano stragista e di destabilizzazione politica il cui primo atto era stato la strage di Capaci, e che vedeva la compartecipazione di altre potenti forze criminali, le stesse che avevano animato la strategia della tensione nei decenni precedenti: cioè esponenti della massoneria come Gelli, esponenti della destra eversiva ed alcuni uomini politici, interessati a pilotare con il linguaggio delle bombe la transizione politica dalla prima alla seconda repubblica, preparando il terreno per la discesa in campo di un nuovo soggetto politico in fase di formazione, che avrebbe garantito impunità per i crimini del passato e la perpetuazione di affari sporchi per il futuro.
Circostanze di tale rilevanza da prenderne nota nella sua agenda rossa. Una agenda che dunque doveva sparire prima che finisse nelle mani dei magistrati, i quali, seguendo il filo di Arianna tracciato in quelle pagine, potevano risalire dai livelli esecutivi mafiosi ai complici eccellenti, facendo così uscire dagli armadi tanti scheletri della prima repubblica che invece sono transitati nella seconda, contribuendo a sostenerne le fondamenta.
La compartecipazione alle stragi di complici eccellenti integrati in un complesso aggregato di forze criminali fu rilevata dalla Direzione Investigativa Antimafia già in un’informativa del 1993 nella quale si evidenziava che dietro le stragi si muoveva una “aggregazione di tipo orizzontale, in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari perseguibili nell’ambito di un progetto più complesso in cui convergono finalità diverse” e che dietro gli esecutori mafiosi c’erano menti che avevano “dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e con i meccanismi della comunicazione di massa nonché una capacità di sondare gli ambienti della politica e di interpretarne i segnali”.
In questi complessi scenari va inserita e decodificata la perniciosa attività svolta in Sicilia e in Calabria da vari esponenti dei servizi segreti e delle forze di polizia, taluni condannati per concorso esterno con la mafia ed altri coinvolti nei depistaggi nelle indagini per le stragi del 1992 e del 1993.
Ancora una volta non casi di deviazioni individuali disconnesse dal sistema, ma piuttosto punti di emersione e di disvelamento di complesse reti relazionali perduranti nel tempo.
Reti relazionali che alla luce delle più recenti sentenze, offrono nuovi significativi spunti per ricollegare le stragi del 1992 e del 1993 a quelle neofasciste degli anni Settanta e Ottanta, le une e le altre non a caso caratterizzate da gravi depistaggi posti in essere da apparati istituzionali con le medesime finalità di schiacciare le indagini solo sul livello degli esecutori, tenendo al riparo mandanti e complici eccellenti.
La Corte di Assise di Bologna con sentenza depositata il 5 aprile 2023 ha infatti condannato come ulteriore esecutore della strage di Bologna Paolo Bellini, esponente di Avanguardia nazionale, uomo dei servizi segreti, il quale fu in missione in Sicilia nel corso del 1992, nello stesso periodo in cui era presente Stefano delle Chiaie, leader di Avanguardia nazionale già in collegamento con Federico Umberto D’Amato, organizzatore della strage di Bologna.
È stato accertato che Bellini dialogò ripetutamente in quei mesi con Antonino Gioè, esecutore della strage di Capaci, a sua volta uomo cerniera tra la mafia e i servizi segreti, al quale, come ha dichiarato Giovanni Brusca, suggerì di alzare il livello dello scontro con lo Stato effettuando attentati contro i beni artistici nazionali, idea questa maturata già nel 1974 all’interno di Ordine Nuovo, formazione della destra eversiva i cui esponenti sono stati riconosciuti colpevoli delle stragi di Milano del 1969 e di Brescia del 1974 e che, come è stato accertato, hanno goduto di protezioni statali ad altissimo livello.
Della diretta interlocuzione instaurata da Bellini con gli stragisti, il generale Mori fu informato in tempo reale dal maresciallo Tempesta che gli consegnò un manoscritto che il Bellini aveva ricevuto dai mafiosi, ma inspiegabilmente Mori di tale vicenda non solo non informò nessuno, non solo distrusse il manoscritto, ma ordinò a Tempesta di non redigere alcuna relazione scritta. La vicenda – di cui non è contestata da alcuno la verità storica – è ricostruita nella motivazione della sentenza dalla Corte di Appello di Palermo del 23 settembre 2021 nel processo nei confronti di Leoluca Bagarella + sei, della quale si riportano alcuni brani essenziali:
“Ed invero, fosse stato per MORI, nulla si sarebbe saputo della vicenda BELLINI e di alcuni retroscena di quella vicenda, tra cui proprio il particolare rivelato dal M.llo TEMPESTA di avere egli (personalmente) consegnato all’allora Col. MORI un foglietto — che lo stesso TEMPESTA aveva a sua volta ricevuto dal BELLINI – su cui erano scritti i nominativi di cinque boss mafiosi cui procurare la concessione degli arresti domiciliari o almeno ospedalieri; […]
Una vicenda che nonostante lo sforzo dello stesso MORI e della sua difesa di banalizzarne la portata […] presenta aspetti oscuri, anche perché nei colloqui tra GIOE’ e BELLINI sarebbe germinata l’idea di riprendere e intensificare la campagna di attentati e delitti eclatanti, ma con un radicale mutamento di target; un’idea che avrebbe messo radici fino ad essere condivisa e poi varata concretamente dal GOTHA di Cosa Nostra, nel corso delle riunioni seguite alla cattura di RIINA.
Ed era un’idea che aveva radici molto profonde e risalenti agli ambienti dell’eversione neofascista, come è emerso dalla testimonianza del Col. GIRAUDO, che per quasi tutta la sua carriera (a parte la parentesi in cui è stato anche alle dirette dipendenze del Prefetto MORI al SISDE dal 2002 ed è rimasto nei ranghi del Servizio civile fino al 2007) ha svolto indagini sulle trame nere e le stragi di matrice neofascista (la strage di P.zza Fontana, la strage della Questura di Milano del 1973, la strage dell’Italicus, la strage di Bologna, oltre a collaborare all’inchiesta sulla massoneria deviata del Procuratore CORDOVA e all’inchiesta sulla strage di Ustica).
E il Col. GIRAUDO nella sua lunga deposizione (in particolare v. udienza del 20.102016) ha riferito che a seguito dello scioglimento decretato dal Ministro dell’Interno TAVIANI nel novembre del 1973 (per violazione dei divieto di ricostituzione del partito fascista) dell’organizzazione eversiva di destra “Ordine Nuovo”, tale organizzazione si era sostanzialmente ricostituita alcuni mesi dopo, accorpando gli elementi più duri e irriducibili, favorevoli ad una “spiralizzazione della lotta politica”. Si tenne a tal fine una riunione fondativa a Cattolica tra il 27 febbraio e l’1° marzo 1974, riunione alla quale avrebbero partecipato o assistito anche elementi che lavoravano per l’allora SID, il Servizio segreto erede del SIFAR. Tra i quadri più importanti del ricostituito Ordine Nuovo v’era Umberto ZAMBONI (deceduto), del quale lo stesso GIRAUDO ha raccolto le s.i.t. rese il 9 luglio2015 (v. verbale acquisito come atto irripetibile già nel corso del giudizio di primo grado).
E lo ZAMBONI ha dichiarato che uno dei quadri della cellula veneta del ricostituito Ordine Nuovo, Massimiliano FACHINI, già imputato per la strage di Bologna e per la strage di P.zza Fontana, di cui sono stati accertati (grazie a un documento rinvenuto nel corso della perquisizione dell’abitazione del Capitano LA BRUNA) contatti con il SID, aveva esposto, nel quadro delle attività eversive di cui si discuteva all’interno d’Ordine Nuovo, dei progetti di attentati a opere d’arte e beni culturali e infrastrutture. Orbene, MORI non ha potuto negare di avere ricevuto (dal M.llo TEMPESTA) quel foglietto (che a dire di BELLINI era stato redatto di proprio pugno dal GIOE’), ma non ha avuto alcuna remora a sbarazzarsene, senza neanche preoccuparsi di fare una relazione di servizio, di informare l’A.G. delle circostanze e delle ragioni per cui era entrato in possesso e senza neppure fare annotazione per lasciare memoria del fatto.
Anzi, fece di più, dissuadendo lo stesso TEMPESTA dal presentare lui una relazione di servizio (come poi il M.llo TEMPESTA si risolse a fare 4 anni dopo), ed omettendo di svolgere qualsiasi indagine volta ad individuare l’autore di quello scritto e i suoi sodali che ne supportavano l’iniziativa volta a favorire alcuni dei mafiosi di maggiore spessore all’epoca detenuti in carcere: indagini che avrebbero potuto puntare al cuore di un territorio e di una famiglia mafiosa, quella di Altofonte, che era stata protagonista della stagione stragista e stava “lavorando” ad altri progetti criminosi”. […] v’è la conferma, anche in questo caso, di una condotta non soltanto “opaca”, ma addirittura contra legem, del Col. Mori, il quale, infatti, pur promettendo o lasciando credere al M.lIo Tempesta che si sarebbe attivato per approfondire l’iniziativa del Bellini, ebbe ad evitare, come nel caso dei contatti con Vito Ciancimino, di lasciare qualsiasi traccia documentale, sia dissuadendo il M.llo Tempesta dal redigere una relazione di servizio, sia, soprattutto, trattenendo per sé un documento che certamente costituiva “corpo di reato”; e che, secondo Bellini, era stato redatto di proprio pugno da Gioé (ovvero il foglietto con i nomi dei detenuti mafiosi da scarcerare in cambio del recupero delle opere d’arte: anche se BELLINI a domanda specifica ha poi precisato che era già scritto) e che il M.llo Tempesta ha riferito di avere consegnato al Col. Mori.
Eppure, il Col. Mori, pur trattenendo a sé quel biglietto manoscritto o, comunque, non conservandolo senza neppure farne copia, ha omesso, oltre che di sequestrare un documento costituente corpo del reato, sia di informare l’Autorità Giudiziaria, sia, comunque, di svolgere qualsiasi indagine, certamente doverosa, diretta a individuare l’autore di quello scritto e, quindi, i soggetti (Gioé e coloro che lo supportavano in quell’iniziativa) partecipi dell’associazione mafiosa Cosa Nostra nel cui interesse quel medesimo biglietto era stato redatto e consegnato al Bellini”.
Una vicenda questa che si somma a tante altre vistose anomalie pure evidenziate nella medesima sentenza, come, per esempio, l’avere consentito che i mafiosi ripulissero accuratamente la casa di Salvatore Riina dopo l’arresto di quest’ultimo, e dopo che alla Procura di Palermo era stato impedito di eseguire una immediata perquisizione con la garanzia che il covo sarebbe stato tenuto sotto assoluta sorveglianza, mentre invece la vigilanza era stata abbandonata subito dopo, senza darne comunicazione ad alcuno.
Si tratta di vicende venute alla luce tra mille difficoltà, reticenze e menzogne eccellenti, a seguito delle indagini svolte, insieme ad altri magistrati, dal sostituto procuratore Antonino Di Matteo, qualificato dal prof. Visconti come esponente dell’antimafia nichilista che “mette permanentemente in discussione i risultati che ottengono i corpi professionali dello stato nel contrasto a Cosa Nostra in nome di un inafferrabile oltre, di un sistema mafioso superiore e supremo che rimarrebbe sempre impunito” e “non dà mai soddisfazione a chi lavora sul campo”.
Se questi sono i motivi che sostanziano l’accusa di nichilismo rivolta a quella componente della magistratura che non si è limitata a svolgere indagini solo sulla mafia militare, forse alla schiera dei “nichilisti” dovrebbero aggiungersi molti altri, tra i quali anche i giudici della sentenza di condanna all’ergastolo di Cavallini per la strage di Bologna, per avere denunciato il medesimo generale Mori per il reato di testimonianza falsa e reticente di cui all’art. 372 c.p. per le dichiarazioni da lui rese in quel processo, disponendo la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica di Bologna.
Dovrebbe essere invece evidente che quei magistrati si sono limitati ad assolvere ai propri compiti nei limiti delle proprie competenze e dei propri ruoli, al di là dell’ulteriore esito dei processi.
Prima di concludere sul tema dei rapporti mafia-potere e sulla sua permanente attualità, va ricordato come la c.d. borghesia mafiosa sia sempre stata sin dalla fondazione dello Stato unitario, uno dei poteri forti della nazione, grazie alla sua capacità catalizzatrice degli interessi di un ampio ed eterogeneo blocco sociale, in grado di condizionare gli equilibri macro politici e di interagire da pari a pari con altri poteri forti di natura antidemocratica, condividendone interessi e finalità.
Una componente del sistema di potere nazionale sempre rimasta baricentrica, che ha fornito illustri rappresentanti a segmenti compromessi dello Stato: per limitarci solo ai tempi più recenti basti ricordare il senatore Marcello Dell’Utri, cofondatore di Forza Italia e mediatore nei rapporti di Berlusconi con la mafia sin dagli anni Settanta, il senatore Antonino D’Alì, nominato al ruolo chiave di sotto segretario agli Interni dove si è attivamente operato a favore dei mafiosi capeggiati da Matteo Messina Denaro, il sottosegretario al ministero dell’economia Nicola Cosentino referente del clan dei casalesi, uno dei più potenti della Camorra, il deputato Amedeo Matacena collegato alla ‘Ndrangheta.
Proprio perché la storia della mafia è inestricabilmente intrecciata con la storia del potere, la costruzione del sapere sociale sulla mafia è sempre stato un terreno privilegiato della manipolazione culturale da parte degli apparati culturali organici al potere.
Dalla fase del negazionismo imperante sino agli anni Sessanta del secolo scorso, siamo passati, dopo la mattanza dei delitti degli anni Ottanta, al riduzionismo che pur ammettendo l’esistenza della mafia, la classificava come delinquenza comune, come galassia anarchica di bande criminali.
Dopo le stragi del biennio 1992/1993 e la sentenza del maxiprocesso, non potendosi più negare l’esistenza della mafia come complessa organizzazione avente struttura unitaria, si è dato avvio ad un nuovo riduzionismo: la mafia esiste e tuttavia è composta solo da personaggi come Riina, Provenzano e altri individui di tal fatta, mostri assetati di sangue e di denaro, che hanno difficoltà ad esprimersi in italiano. Dopo la sequenza dei processi della seconda metà degli anni Novanta che hanno portato sul banco degli imputati una moltitudine di colletti bianchi che hanno rivestito ruoli apicali e strategici nella classe dirigente e negli apparati istituzionali, si è dato corso ad una strategia più complessa: da un lato la demonizzazione della magistratura, rea di avere consumato una sorta di autocannibalismo di classe ed accusata ora di essere strumento di occulti disegni politici, ora di ambire a riscrivere la storia; dall’altro l’enfatizzazione mediatica a senso unico delle res gesta dei componenti della mafia militare e popolare e l’oscuramento mediatico delle condanne dei colletti bianchi.
Si proietta una luce abbagliante solo su una parte del pianeta mafioso, sortendo così l’effetto di oscurare l’atra parte del pianeta che riguarda l’integrazione organica di componenti della classe dirigente nel sistema di potere mafioso.
Nella fase attuale, in perfetto sincronismo temporale con i nuovi equilibri politici che hanno portato al vertice dello stato forze che rivendicano la loro continuità ideale con il neofascismo (si pensi, ad esempio, alla conclamata ammirazione di Giorgia Meloni per Pino Rauti, fondatore di Ordine nuovo) e che hanno eletto a loro spirito guida Silvio Berlusconi, esponente della P2 già entrato nell’orbita dell’interesse investigativo di Falcone e Borsellino per i suoi rapporti con i mafiosi e che con la mafia ha scelto di convivere e stretto intese, si è inaugurata una nuova stagione all’insegna della normalizzazione con l’aperto ritorno in campo di personaggi come Dell’Utri, Cuffaro e altri, abilitati a dettare l’agenda politica e a selezionare i candidati per cariche istituzionali.
Alla normalizzazione che ha raggiunto il suo apice con la proclamazione del lutto nazionale per la morte di Berlusconi, si accompagna l’intolleranza per i non osservanti dei canoni culturali autorizzati dall’antimafia governativa, intolleranza che si è manifestata in modo plateale il 23 maggio di quest’anno quando in occasione delle celebrazioni dell’anniversario della strage di Capaci, è stato impedito a colpi di manganello agli studenti e a tanti rappresentanti dell’antimafia sociale di accedere alla via Notarbartolo e al palchetto d’onore dinanzi all’albero Falcone, nel timore che potessero turbare con le loro manifestazioni di dissenso l’esibizione su quel palco del sindaco La Galla, designato come candidato a quella carica da Dell’Utri.
Alle manganellate si aggiunge la pretesa di silenziare, espellendoli dalle scuole e dalle sedi culturali, coloro che vengono additati come cattivi maestri: Di Matteo, Lodato ed altri.
La normalizzazione prelude al revisionismo sul duplice terreno delle stragi neofasciste e di quelle politico mafiose del biennio 1992/1993.
Gli esponenti della maggioranza hanno proposto una commissione parlamentare sulle stragi neofasciste per addebitarne l’ideazione e l’esecuzione al terrorismo internazionale.
L’On.le Chiara Colosimo neo presidente della Commissione della parlamentare Antimafia – fotografata in una posa “non istituzionale” con Luigi Ciavardini, condannato per la strage di Bologna, lo stesso Ciavardini con il quale Giorgia Meloni ha partecipato a pubbliche manifestazioni di critica nei confronti delle condanne emesse dalla magistratura di Bologna – non ritiene utile dal canto suo proseguire l’attività della Commissione Antimafia sulle stragi del biennio 1992/1993 e sul coinvolgimento in quelle stragi di neofascisti legati ai servizi segreti come Paolo Bellini, nonché di esponenti degli apparati statali artefici di una sequenza impressionante di depistaggi che appaiono la clonazione di quelli posti in essere per le stragi neofasciste degli anni settanta e ottanta e per le medesime finalità.
In piena sintonia con coloro che ritengono che occorre impedire che le giovani generazioni siano fuorviate dalle ricostruzioni dell’antimafia “nichilista”, che venga loro “sottratta la storia” e che perdano fiducia nello stato, la neopresidente ha anticipato che intende occuparsi solo della strage di via D’Amelio, disconnettendola dalla strage di Capaci, da quelle del 1993 e dall’unicità del piano di destabilizzazione politica di cui quelle stragi furono tutte momenti attuativi. Tramite questo spacchettamento sarà così possibile concentrarsi chirurgicamente solo sulla pista secondo cui Borsellino fu ucciso dai soliti noti, Riina e company, e solo per i contingenti interessi economici di quel periodo in materia di appalti, escludendo la solita “fuffa” dei coinvolgimento in quella strage e nelle altre di esponenti di apparati statali autori di depistaggi finalizzati a coprire causali e mandanti politici che travalicavano di molto gli interessi economici contingenti del 1992, mandanti e complici eccellenti che proprio grazie a quelle stragi sono transitati indenni dalla prima alla seconda repubblica perpetuando i loro privilegi, la loro impunità ed il loro potere.
Del resto l’entourage della Colosimo oltre che il particolare afflato nei confronti dei neofascisti condannati per le stragi e omicidi politici, nutre una particolare ammirazione anche per coloro che hanno garantito l’impunità di complici eccellenti, come il Generale Gianadelio Maletti capo del reparto controspionaggio del Sid negli anni ‘70, condannato con sentenza definitiva a 18 mesi di reclusione per favoreggiamento dei responsabili della strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 che causò 17 morti e 88 feriti e che diede avvio al periodo stragista della strategia della tensione. Il 14 aprile del 2022 il deputato di Fratelli di Italia Federico Mollicone ha organizzato nella sala capitolare del Senato un convegno dedicato alla memoria del generale, definendolo un “uomo dello Stato che ha sempre osservato l’appartenenza alla divisa”.
Il “gioco grande” dunque è in pieno svolgimento, e nonostante le apparenze, non riguarda storie del passato, ma attraversa il presente e ha come posta in gioco il controllo del futuro, perché le stragi continuano ad essere tra noi con il loro enorme carico di verità negate e indicibili, magma infuocato che se mai dovesse eruttare dal cratere non spento di qualche processo, potrebbe incenerire tutta la fuffa di regime e – per usare le parole di Falcone – metterci dinanzi alla “necessità di rifare la storia di certe vicende del nostro Paese, anche da tempi assai lontani”.
Tratto da: micromega.net
Foto di copertina © Deb Photo
La rubrica di Saverio Lodato
ARTICOLI CORRELATI
Borrometi: ”Di Matteo nelle scuole? Fondamentale per trasmettere importanza magistratura”
Il professor Visconti e la ”messa al bando” di Di Matteo e Lodato
I giovani contro le censure e la retorica di Stato
Ardita: ”Dai giovani una protesta contro la censura per una vera ricerca della verità”
Luigi de Magistris: ”Censurare chi parla di Stato-mafia brutta pagina del professor Visconti”
Ingroia: ”Nelle parole di Visconti un contenuto censorio inaccettabile”
Paolo Borrometi: i depistaggi dei ‘Traditori’ e la strategia del ”mascariamento’’
Tutti gli interventi ed opinioni sul Caso Visconti