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Via d’Amelio, l’Antimafia: “Regia del depistaggio inizia prima della strage. Sapevano in anticipo il modello dell’autobomba”

Il Fatto Quotidiano, MERCOLEDÌ 19 DICEMBRE 2018

Via d’Amelio, l’Antimafia: “Regia del depistaggio inizia prima della strage. Sapevano in anticipo il modello dell’autobomba”

La commissione dell’Assemblea regionale siciliana di Claudio Fava deposita la relazione alla fine della sua inchiesta sull’inquinamento delle indagini sull’eccidio di Paolo Borsellino. “Il falso pentito Scarantino serviva a escludere ogni possibile sospetto che mandanti potessero essere anche soggetti estranei all’associazione mafiosa”, scrive l’organo parlamentare in un dossier che va oltre le responsabilità penali, mettendo in fila errori, anomalie, manomissioni e inerzie investigative. Dal ruolo dei servizi, a quello di La Barbera, a due strane incurisioni nell’ufficio e nella casa di campagna del magistrato assassinato

di Giuseppe Pipitone

Il depistaggio delle indagini sulla strage di via d’Amelio comincia prima che lo stesso Paolo Borsellino venga assassinato. E quel depistaggio entra nel vivo subito, mentre ancora sull’asfalto ci sono i corpi carbonizzati del magistrato e dei cinque agenti di scorta. E la comparsa del falso pentito Vincenzo Scarantino poteva servive a escludere ogni pista su mandanti esterni a Cosa nostra. Ne è convinta la commissione Antimafia dell’Assemblea regionale siciliana. Il presidente, Claudio Fava, ha aperto un’indagine dedicata alla strage del 19 luglio del 1992. Una decisione successiva al deposito delle motivazioni dell’ultimo processo, il Borsellino Quater, nata proprio per focalizzare l’attenzione dei commissari siciliani sul depistaggio della prima inchiesta su via d’Amelio. Alla sbarra ci sono attualmente i poliziotti Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei: accusati di calunnia in concorso, per la pubblica accusa sono gli agenti che “indottrinarono” il falso pentito Vincenzo Scarantino. “Ciò che veramente inquieta non è tanto la riconosciuta falsità delle dichiarazioni dello Scarantino, sul piano processuale, come si è constatato, suscettibili di essere difficoltà disvelate bensì l’apparizione del personaggio in quanto tale. La sua improvvisa e immediata irruzione nello scenario processuale probabilmente doveva servire, con le sue propalazioni, ad escludere ogni possibile sospetto che mandanti della strage potessero essere anche soggetti estranei all’associazione mafiosa“, annota Fava nella sua relazione finale.

Menti raffinatissime dietro strage e depistaggio” – I risultati ai quali arriva il presidente della commissione, infatti, vanno oltre le responsabilità penali. In un dossier lunga 76 pagine il deputato mette in fila errori, depistaggi, manomissioni e inerzie investigative. Partendo dalle domande avanzate nei confronti dello Stato da Fiammetta Borsellino, la commissione ricostruisce tutti i punti oscuri della strage più misteriosa della storia recente : anomalie e forzature che per la prima volta finiscono in un documento ufficiale. Se la corte d’Assise nissena aveva definito via d’Amelio tra “i più gravi depistaggidella storia”, la commissione di Fava scrive: “Lasciando al processo di Caltanissetta il compito di dirci se vi furono – e a carico di chi – responsabilità penali, si può ragionevolmente concludere che la regia del depistaggio comincia ben prima che l’autobomba esploda in via D’Amelio. Questo induce a pensare che ‘menti raffinatissime‘, volendo mutuare un’espressione di Giovanni Falcone, si affiancarono alla manovalanza di Cosa Nostra sia nell’organizzazione della strage, sia contribuendo al successivo depistaggio”. Tradotto: in via d’Amelio c’è una mano esterna alla mafia sia per ammazzare Borsellino sia per deviare l’inchiesta che doveva trovarne gli assassini. E il falso pentito Scarantino serviva per allontanare i sospetti sui soggetti estranei alla mafia. “In tal modo – scrive Fava –  venivano appagate le ansie e le aspettative di verità della pubblica opinione per la pronta scoperta di mandanti ed esecutori, tutti mafiosi, ed al tempo stesso si esorcizzava l’incubo di indicibili partecipazioni diverse ed occulte“.


“I servizi manomisero le indagini” –
 Una conclusione alla quale la commissione arriva mettendo in fila fatti, ascoltando testimoni, inquirenti dell’epoca, magistrati. “È certo – scrive l’Antimafia – il ruolo che il Sisde ebbe nell’immediata manomissione del luogo dell’esplosione e nell’altrettanto immediata incursione nelle indagini della Procura di Caltanissetta, procurando le prime note investigative che contribuiranno a orientare le ricerche della verità in una direzione sbagliata. Un depistaggio che era in un certo senso garantito dal “contributo di reticenza che offrirono non pochi soggetti tra i ranghi della magistratura, delle forze di polizia e delle istituzioni nelle loro funzioni apicali. Ben oltre i nomi noti dei tre poliziotti, imputati nel processo in corso a Caltanissetta, e dei due domini dell’indagine (oggi scomparsi), e cioè il procuratore capo Tinebra e il capo del gruppo d’indagine Falcone-Borsellino, Arnaldo La Barbera.

Indagini singolari” – Già, La Barbera, il superpoliziotto sul quale post mortem (è deceduto nel 2002) si sono condensate la maggior parte delle ombre sinistre di via d’Amelio. Nella ricostruzione di Fava è lui l’uomo che contribuisce a dare alle indagini un avvio “alquanto singolare. Il suo ufficio, infatti, “dispone un sopralluogo – delegato alla Polizia Scientifica di Palermo – presso la carrozzeria di Giuseppe Orofinogià alle 11 del lunedì 20 luglio 1992, perché quest’ultimo aveva denunciato, appena un paio d’ore prima, il furto delle targhe (ed altro) da una Fiat 126 di una sua cliente all’interno della sua autofficina”. Orofino è l’uomo che Scarantino accuserà di essere il meccanico custode dell’autobomba: verra assolto nel processo di revisione solo nel 2017, dopo il pentimento di Gaspare Spatuzza. In quel 20 luglio del 1992, però, è ancora un uomo come gli altri: le false accuse di Scarantino lo tireranno in ballo solo un anno e mezzo dopo. Come mai gli investigatori sono già così interessati dalla sua autofficina, appena 18 ore dopo il botto di via d’Amelio? “Perché quel sopralluogo, di fronte al semplice furto di una targa?”, si chiede la commissione.

La Barbera predisse lo sviluppo delle indagini” – Anche perché la mattina del 20 luglio nessuno in Italia sa ancora che l’autobomba usata per uccidere Borsellino è una Fiat 126. E quando si dice nessuno, si intente neanche gli investigatori più discreti: in quel momento nell’inferno di via d’Amelio non sono stati rinvenuti né la targa dell’utilitaria né il blocco motore dell’auto caricata con l’esplosivo e la conferma sul modello di auto arriverà solo il giorno dopo. “Eppure a poche ore dall’esplosione si individua – senza alcuna plausibile giustificazione – nell’Orofino e nel suo garage una probabile pista investigativa. E dalla squadra mobile di Palermo si ipotizza (così come rilanciato da un’Ansa) che per l’autobomba sia stata utilizzata un’utilitaria di piccole dimensioni, probabilmente proprio una 126. Come faceva La Barbera a conoscere il modello di auto prima ancora che in via D’Amelio si recuperasse il bocco motore della 126? Perché mandare la polizia scientifica in un garage per un banale furto di targhe?”, sono le domande che si pone la relazione Fava. È come se gli investigatori sapessero in anticipo gli sviluppi delle loro stesse indagini. “Solo il 13 agosto arriverà la nota del Centro Sisde di Palermo sugli autori del furto della 126 e si legittimerà la pista che porterà rapidamente a Candura e Valenti: dopodiché  Scarantino avrà i giorni contati. Come faceva La Barbera a predire questi sviluppi a poche ore dalla strage? Qualcuno informò il capo della squadra mobile di Palermo e quegli elementi (l’auto, la targa, il furto…) erano, come dire, già noti per altre vie agli investigatori?”

Dopo la strage ladri in casa Borsellino” – È lì, in quella strada di una Palermo che sembra Beirut , coi palazzi squarciati dall’esplosivo, che comincia il più grande inquinamento probatorio della storia italiana. “Il depistaggio sulla strage di via D’Amelio comincia pochi istanti dopo l’esplosione in cui perdono la vita il dottor Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta”, rileva la commissione mettendo in fila “tre diversi episodi di un’azione coordinata, destinati a manipolare la scena della strage, a trafugare documenti, a sottrarre prove. Il depistaggio compiuto in tre mosse. A spiegare quali siano quelle mosse è Nico Gozzo, ex procuratore aggiunto di Caltanissetta che ha coordinato le ultime indagini sulla strage. Non si tratta soltanto della scomparsa dalla scena del crimine dell’agenda rossadove Borsellino annotava sempre tutto. Davanti alla commissione, infatti, Gozzo cita due fatti finora mai abbastanza valorizzati: due interventi esterni nella casa di campagna di Borsellino e nel suo ufficioalla Procura di Palermo. Ha spiegato il pm all’organo parlamentare: “Sapevano tutti che Borsellino, prima di morire va nella casa di campagna, a Villagrazia di Carini e in effetti dopo qualche settimana viene trovato un portacenere pieno di sigarette. Fatto è che quando (i familiari) vanno là per la prima volta, la porta era stata aperta perché lo studio era a soqquadro (mentre) tutto il resto era perfettamente a posto. Quindi, un ladro ‘anomaloperché non aveva toccato nulla delle cose che c’erano all’interno della casa”. Una curiosa incursione in casa del giudice appena ammazzato. L’altro intervento avviene nello studio di  Borsellino al palazzo di giustizia: “(I figli) hanno verificato immediatamente che qualcosa non andava – continua Gozzo – Sebbene il padre avesse lavorato moltissimo in ufficio e di meno a casa, sopra la scrivania non c’era quasi niente. Tutto sembrava perfettamente messo in ordine. I familiari avevano pensato: ‘Qualcun altro ha ripulito tutto…’”.

L’agenda rossa la fecero sparire i servizi. Non la mafia”- Quindi, la terza e più importante azione coordinata è quella in via d’Amelio con la scomparsa dell’agenda rossa. “La cosiddetta sparizione dell’agenda rossa, sul teatro della strage di via d’Amelio, non può averla compiuta la mafia. Questa è un’ovvietà che dicono tutti, ma è un’ovvietà vera. E, quindi è chiaro ed evidente che se questa cosa è successa, ed è successa, deve essere stata compiuta da qualcun altro”, dice Gozzo. La commissione, però, ricorda come “per molto tempo (almeno fino alla primavera 2005, data in cui ha avvio l’inchiesta della procura di Caltanissetta sulla sottrazione dell’agenda, conclusasi poi con il proscioglimento in udienza preliminare del colonnello dei Carabinieri Giovanni Arcangioli) questa “ovvietà” viene negata da tutti: dai pubblici ministeri di Caltanissetta che indagano sulla strage, dagli investigatori del cosiddetto gruppo Falcone-Borsellino che detengono la cabina di regia di quelle prime indagini, dai loro referenti e protettori politici. La sparizione dell’agenda rossa di Borsellino non sarà mai motivo di indagine. Almeno fino all’apertura dell’inchiesta che poi porterà al Borsellino quater.  “L’intento (processuale) era quello di trovare questo ‘qualcun altro’, magari di vedere se c’erano collegamenti tra questo “qualcun altro’ e quel soggetto che viene descritto da Spatuzza come presente allimbottitura della macchina per l’esplosivo, in via Villasevaglios, poco prima della strage del 19 luglio…”. Di sicuro c’è solo che già in via d’Amelio si registra la presenza “di appartenenti a Servizi di sicurezza intenti a cercare la borsa del magistrato attorno all’auto, ha detto Pietro Grasso all’organo parlamentare. “Sono le testimonianze del sovrintendente Maggi e di un vice sovrintendente, Giuseppe Garofalo, che danno l’idea di questo attivismo di persone tutte vestite allo stesso modo che avevano già visto presso gli uffici di La Barbera, nel corso delle indagini di Capaci e che si aggiravano lì”.  “Riepilogando – conclude la commissione – appare chiaro che attorno alla scomparsa dell’agenda rossa del dottor Borsellino si registrano molte coincidenze negative sul piano investigativo e processuale: reticenza di taluni testimoni, presenze non giustificate dei servizi di sicurezza sul luogo della strage, incomprensibili omissioni, ingiustificati ritardi d’indagine”.

Nel depistaggio anche elementi veri da fonti rimaste segrete” –Il depistaggio viene compiuto attraverso elementi veri che la squadra investigativa Falcone e Borsellino ha da fonti che non rivelerà mai, ha sostenuto sempre Grasso davanti alla commissione. Una valutazione, quella dell’ex procuratore nazionale antimafia, legata alla “creazione” del falso pentito Scarantino. “La domanda è se Scarantino possa essere stato anche imbeccato nel fornire alcuni elementi di verità, ha chiesto Fava a Carmelo Petralia, pm a Caltanissetta all’epoca delle prime indagini su via d’Amelio. “Questo è il cuore del problema. È chiaro che, mi permetta un se, se Scarantino veramente non c’entra niente, il fatto che luiabbia reso vari elementi di verità, ci deve fare pensare che ovviamente gli sono stati forniti. Il punto è chi li ha forniti, li ha forniti perché a sua volta li aveva, questo è quello che adombra la sentenza. Come si dice a Palermo: ‘Vesto il pupo”.

Così vestirono il “pupo” –Vestire il pupovuol dire rendere presentabile il balordo della Guadagna: provare a costruirgli una credibilità da mafioso. Spiega sempre Grasso: “Dalla ricostruzione che si è fatta Scarantino viene arrestato il 24 settembre 1992. Pochi giorni prima avevano acquisito le dichiarazioni di Luciano Valenti e di Candura Salvatore, secondo le quali avevano rubato la macchina su commissione di Scarantino ed era stata consegnata la macchina a Scarantino. Poi Scarantino viene trasferito nel carcere di Busto Arsizio e nella cella accanto gli mettono Andriotta (l’altro falso pentito). Lì nasce la costruzione specifica del depistaggio con una dichiarazione di Andriotta che riferisce delle cose come dette dal vicino di cella Scarantino. Se si esaminano tutti i colloqui investigativi in carcere di Arnaldo La Barbera e di alcuni funzionari, si può ricostruire che ogni volta che Andriotta dichiara qualche cosa, c’è nello stesso giorno o nel giorno precedente un colloquio investigativo”. Una testimonianza che porta la commissione a scrivere: “Alla luce di ciò che si rivelerà essere la collaborazione di Scarantino, ovvero una collezione di suggestive menzogne, non si può non immaginare che quei colloqui – sia prima che dopo il cosiddetto “pentimento” – siano serviti anche a istruire il falso pentito”.

Il servizi e Contrada indagavano – Il cuore dell’indagine dell’Antimafia è rappresentato da “un’anomala, significativa e determinante (negli esiti) collaborazione tra la procura di Caltanissettae i vertici dell’allora Sisde“. Cioè la richiesta di partecipare alle indagini che l’allora procuratore Giovanni Tinebra fa a Bruno Contrada, all’epoca numero due dei servizi: in quel momento è già indagato dalla procura di Palermo per concorso esterno a Cosa nostra e sarà arrestato nel Natale di quello stesso anno. “Il giorno dopo la strage – annota l’organo parlamentare –  Tinebra convoca nel proprio ufficio il dottor Bruno Contrada e gli chiede di collaborare direttamente alle indagini con la procura di Caltanissetta”. Ma le procure non possono chiedere ai servizi di intelligence di occuparsi di indagini. E infatti quella di Tinebra per Fava è “una forzatura investigativa, normativa e procedurale di cui molti (i livelli apicali delle forze di polizia e di sicurezza) sono perfettamente consapevoli”. “La negazione di quello che normalmente è il lavoro di intelligence, e che rimane sempre dietro le quinte”, la definisce Gozzo. Ma come è possibile che Contrada aiuti la procura di Caltanissetta a indagare sulla strage Borsellino mentre a Palermo nutrono già sospetti sulla sua contiguità ai clan? Francesco Paolo Giordano, procuratore aggiunto di Tinebra a Caltanissetta, ha raccontato alla commissione: “Io all’epoca non fui a conoscenza di questa richiesta da parte del dottor Tinebra di compulsare i servizi. Sapevo che il procuratore Tinebra aveva una consuetudine, diciamo, di frequentazione col Sisde. So che aveva la possibilità di disporre del volo Cai, tuttora credo gestito dai Servizi, poi ricordo che periodicamente lo veniva a trovare una persona dei Servizi di Palermo o di Caltanissetta, e io lo vedevo nell’anticamera, noi avevamo un anticamera comune… Poi veniva Piraneo che fu nominato referente (del Sisde) di Caltanissetta… quindi diciamo lui aveva questo rapporto così”.

Dentro il Sisde, fuori Borsellino” – Insomma per indagare sulla strage Borsellino si decise di chiedere l’aiuto dei servizi segreti di Contrada, che era già sospettato di vicinanza ai clan (la sua condanna sarà annullata dalla Cedu nel 2015). Si decise di dare fiducia al Sisde, che nell’ottobre del ’92 fornì la sua relazione per accreditare a Scarantino un curriculum criminale di rango. “Si decise una scorciatoia investigativa che produrrà – due anni più tardi – il finto pentimento di Scarantino e il definitivo travisamento della realtà dei fatti”, scrive la commissione. Tutto questo mentre nessuno chiese mai di interrogare Paolo Borsellino sulla strage di Capaci. Sì, perché era sempre la procura di Caltanissetta a indagare sull’omicidio Falcone. Ed è noto come su quel tema Borsellino si considerasse “un testimone“. Ma in quei 57 giorni nessuno decise d’interrogarlo. E quando ci sarà da investigare sulla sua morte si affideranno le indagini a un agente dei servizi che sarà poi condannato per concorso esterno a Cosa nostra. “Va sottolineato che quella scelta (dentro il Sisde, fuori Borsellino) resta una pagina oscura e una gravissima responsabilità che sarebbe riduttivo attribuire solo all’allora capo della procura di Caltanissetta. Del ruolo improprio del Sisde, a fianco di quella procura, molti seppero. E tutti tacquero. Come tacquero in quei 57 giorni in cui si ridusse il contributo di Paolo Borsellino a qualche chiacchiera informale a pranzo tra lui e un giovane sostituto applicato a Palermo”. Per capire cosa avesse da dire Borsellino sulla strage di Capaci, tra il 23 maggio e il 19 luglio del 1992 la procura di Caltanissetta decise di mandare un giovane magistrato “a Palermo per fare da ufficiale di collegamento”. Ma perché non interrogare direttamente Borsellino? È solo la prima domanda di una serie di quesiti successivi. Che si moltiplicano dopo il botto di via d’Amelio. Interrogativi che dopo 26 anni, dieci processi e una serie di indagini archiviate, sono in gran parte senza risposta. La conclusione di Fava è amara: “Resta un vuoto di verità su chi ebbe la regia complessiva della strage e del suo successivo depistaggio. E quale sia stato – nel comportamento di molti – il labilissimo confine fra colpa e dolo, svogliatezza e intenzione, distrazione e complicità”.