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Vent’anni senza giustizia, dieci mesi senza sentenza.NON PUO’ CONTINUARE AD ANDARE AVANTI COSI’ .LA GIUSTIZIA DEVE ESSERE GIUSTIZIA  !!!!

Vent’anni senza giustizia, dieci mesi senza sentenza

La storia dell’omicidio di Gennaro Ventura. Dalla scomparsa a Lamezia nel 1996 al ritrovamento del corpo fino alla confessione del pentito Pulice. L’attesa e la rabbia della famiglia. Il legale: «Sconcerto per il ritardo nel depositare le motivazioni della condanna»

Lunedì, 19 Marzo 2018

LAMEZIA TERME Sono trascorsi 10 mesi dalla sentenza di condanna di Gennaro Pulice, 40 anni, collaboratore di giustizia reo confesso dell’omicidio del fotografo, e carabiniere in congedo, Gennaro Ventura scomparso nel nulla il 16 dicembre 1996. Quasi un anno da quando l’autore materiale del delitto – colui che nel 1996 portò la vittima in un casolare abbandonato per ucciderla con un colpo alla testa – è stato condannato in primo grado con rito abbreviato a 10 anni di reclusione dal gup Carlo Saverio Ferraro. Dieci mesi, per una sentenza a carico di un reo confesso, e ancora si è fermi al primo grado di giudizio perché il gup non ha scritto le motivazioni della sentenza. La prassi vuole che che le motivazioni vengano depositate entro 90 giorni, salvo proroga di altri novanta. Ma qui i giorni trascorsi sono oltre 200 e tutto resta ancora appeso, immobile, come negli anni in cui di Gennaro Ventura non si sapeva più niente se non che era uscito per una commissione di lavoro ed era scomparso nel nulla.

LO STRAZIO DI UNA FAMIGLIA Per 12 anni la morte del giovane lametino rimase avvolta nel mistero lasciando una famiglia schiantata dal dolore e senza alcun appiglio, una speranza alla quale fare riferimento. Quella tragica scomparsa, che sempre di più prende i connotati di una macabra fine, per oltre 10 anni rimane preda di congetture e pettegolezzi che altro non portarono se non un ispessimento del dolore, un solco in una ferita difficile da rimarginare. Solo nel 2008 i poveri resti del fotografo, per un caso fortuito, vengono trovati in un casolare abbandonato, insieme all’attrezzatura da lavoro e a quella fede nuziale che ancora brillava tra la terra e le foglie marce. Il caso viene riaperto, l’esame autoptico rivela la morte per un colpo di pistola alla testa. Ma niente altro emerge dalle indagini per altri sette anni, quando con l’operazione “Andromeda”, contro la consorteria Iannazzo-Canizzaro-Daponte, viene arrestato anche il killer della cosca Cannizzaro, Gennaro Pulice, che nel giro di poche settimane si pente e comincia a parlare. Pulice ha una lunga storia di omicidi alle spalle, la maggior parte dei quali commessi su mandato della su ‘ndrina di riferimento. Tra gli altri confessa il delitto Ventura, commesso quando aveva appena 18 anni. Confessa di avere convinto il fotografo a salire sulla sua macchina, con la scusa di dovergli commissionare un lavoro, portandolo poi in un luogo isolato poco fuori Lamezia per sparargli un colpo di pistola in fronte. Da solo occulta anche il cadavere. E tutto resterà avvolto nel buio per 20 anni.

IL MANDANTE Con le confessioni di Pulice e il lavoro della Squadra mobile di Catanzaro e del commissariato di Lamezia Terme, coordinati dalla Dda del capoluogo, il 23 giugno 2016 viene arrestato, quale mandante del delitto, Domenico Cannizzaro, boss dell’omonimo casato. Le ragioni di quella esecuzione lasciano sbigottiti: Ventura doveva morire perché quando prestava servizio a Tivoli come carabiniere aveva contribuito all’arresto di Raffaele Rao, parente di Cannizzaro, responsabile di una rapina avvenuta nel 1991, durante la quale era stato sottratto un ingente quantitativo di sostanza stupefacente dagli uffici del perito chimico del tribunale. I Cannizzaro, secondo Pulice, «non se la tengono, come non se la sono tenuta per il fatto di Ventura che era un ex carabiniere». «Il Ventura – dice Pulice – aveva arrestato una persona dei Cannizzaro quando era carabiniere». Così, quando Gennaro Ventura si era congedato ed era tornato a Lamezia per proseguire insieme al padre e al fratello Raffaele l’attività di fotografo, la voce del suo ritorno era giunta alle orecchie della cosca, in particolar modo di Domenico Cannizzaro, il quale arma la mano di Gennaro Pulice.

PROCESSI E CONDANNE L’otto maggio del 2017 Gennaro Pulice è stato condannato a 10 anni di reclusione. Il gup riconosce tutte le attenuanti e lo status di collaboratore. La stessa pena era stata invocata dal pubblico ministero Elio Romano. Alla famiglia della vittima, assistita dall’avvocato Italo Reale è stato riconosciuto il risarcimento danni con una provvisionale di 80mila euro che sarà valutata in sede civile. Il 16 maggio, dopo un processo con rito abbreviato condizionato, viene condannato a 30 anni di reclusione Domenico Cannizzaro. Ma se per Cannizzaro a breve avrà inizio il processo d’Appello, per Pulice tutto resta fermo, nonostante un sollecito fatto all’ufficio gip dall’avvocato Italo Reale.

L’ATTESA E LA RABBIA «Non ci risultano dopo 230 giorni, il deposito della sentenza né richieste di proroga», scrive il legale in un sollecito inviato all’ufficio gip il 2 febbraio scorso. Duecentotrenta giorni, calcolando i 180 giorni che ha avuto a disposizione il giudice per scrivere la sentenza. «La vittima – aggiunge Reale – era stata soppressa per vendetta dai parenti del delinquente che aveva fatto arrestare e condannare per una attività di istituto compiuta nell’adempimento del proprio dovere». Si ricorda lo strazio di una famiglia, per 12 anni «combattuta tra la speranza di una scomparsa volontaria e la certezza della morte» e, infine, si aggiunge «il grande sconcerto dei congiunti che trova incredibile tale ritardo». E i giorni, quando si cerca requie attraverso la giustizia, non passano mai.

 

Alessia Truzzolillo

a.truzzolillo@corrierecal.it

 

fonte:http://www.corrieredellacalabria.it