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Un’importante analisi di Antonio Fico su Rassegna. it sulla fine che fanno i beni confiscati alle mafie. Così, aggiungiamo noi, lo Stato, questo Stato, favorisce oggettivamente le mafie. Si vergognino!

Normative in ritardo, banche e Comuni indifferenti. Gran parte delle aziende sottratte dallo Stato ai clan costrette a chiudere. Un segnale di debolezza e insieme un danno per i lavoratori e l’economia

Il terreno su cui lo Stato rischia di perdere la battaglia contro le mafie passa per la bonifica e il recupero delle imprese sottratte ai clan, il motore intorno a cui si muove l’intera economia criminale. Aziende edili, alberghi, ristoranti, società di noleggio e di informatica, supermercati, cave, cementifici, impianti sportivi, perfino cooperative di assistenza ai disabili che, secondo le stime del sindacato, danno lavoro ad almeno 50mila persone e quasi sempre chiudono i battenti dopo il sequestro e la confisca. Secondo i dati dell’Agenzia nazionale beni sequestrati e confiscati, dal 1983 ad oggi appena 45 imprese (su 431) passate per le mani dello Stato, e poi uscite dalla gestione pubblica, sono tornate dopo un certo numero di anni nel mercato legale, con nuovi proprietari. Le altre sono tutte fallite. Delle 973 imprese ora nella gestione dell’Agenzia nazionale, solo 232 sono ancora attive (molte in condizioni estremamente precarie e con poche possibilità di sopravvivere) e da collocare, mentre per tutte le altre sono state avviate le pratiche per la liquidazione o per la cancellazione dal registro delle imprese. Uno smacco, per lo Stato, incapace di rilanciare attività economiche che, a prezzo di duri sacrifici e una grande dispiegamento di forze e risorse, è riuscito a strappare alle organizzazioni criminali.

Le confische. Magistrati e polizia, senza sosta, portano a segno successi straordinari: al 1° maggio erano 11.360 gli immobili, beni mobili e aziende riconquistati nella lotta alle famiglie malavitose. Se poi si considerano anche le proprietà poste sotto sequestro, saliamo a oltre 50mila beni. Risultati che consentivano al governo in carica di esultare, appropriandosi propagandisticamente delle grandi inchieste antimafia condotte dalle procure di mezza Italia. Difficile avere stime attendibili sul valore complessivo dei beni. Il governo parla di 17,8 miliardi di euro, che però scendono a tre se si parla di sole confische. Una stima “non attualizzata” dell’Agenzia su 1.916 immobili dei 2.944 che ha in gestione, indica un valore di 362 milioni di euro.Tra gli immobili confiscati, 47 hanno un valore compreso tra 1 e 26 milioni di euro. C’è poi la condizione di questi immobili: su 2.456 proprietà gravano ipoteche (1.457), pignoramenti dei beni aziendali (1.332), procedure giudiziarie in corso (447), che ne rendono difficile il riutilizzo. Passando ai beni mobili, dei 3.691 automezzi posti sotto confisca circa la metà non sono stati rinvenuti o sono stati rottamati. E per quanto riguarda titoli e contanti lo Stato ha incamerato, senza aspettare la confisca, 2,2 miliardi di euro che sono nel fondo Fondo unico della Giustizia.

Le imprese inquinate. Ma è delle aziende che si parla ancora poco. Non esistono stime del valore patrimoniale né si conosce con esattezza quanti occupati hanno. Secondo la Corte dei Conti, nel 2009, i ricavi provenienti dai beni confiscati ammonta a 5 milioni 719mila euro (era il doppio sotto il governo Prodi). Una miseria, alla luce dei numeri. “L’antimafia delle confische – spiega Salvatore Lo Balbo, segretario nazionale della Fillea Cgil – sembra coincidere con gli immobili, che sono facilmente identificabili. Ma la sfida vera è riportare alla legalità le imprese ex mafiose e trasformare il lavoro sommerso in lavoro con i diritti”. Una impegno complicato, in cui il tesoro di tutte le associazioni mafiose riconosciute in Italia potrebbe contribuire a risanare il debito pubblico e invece rischia di essere sprecato. Per i tre quarti queste aziende sono al Sud (517 in Sicilia, la regione che per prima ha conosciuto la stagione dei sequestri, 270 in Campania, 113 in Calabria, più di 100 in Puglia). Altre due regioni con un consistente numero di aziende confiscate sono il Lazio (100) e la Lombardia (199), segno che la criminalità organizzata sta riunificando alla rovescia il paese.

I gioielli. In pochi casi fortunati, amministratori giudiziari più o meno abili riescono a risollevare le attività e a rilanciarle. I gioielli di famiglia si chiamano Villa Azzurra, una residenza sanitaria in provincia di Milano, con 140 posti letto, che è riuscita a ripartire grazie alla cooperativa “Solidarietà”. L’azienda agricola Suvignano a Monteroni d’Arbia, in provincia di Siena, 680 ettari di uliveti e campi di grano, affidati alla società Strasburgo è in riuso come agriturismo, mentre a Catania il Lido dei Ciclopi è diventato negli ultimi anni meta privilegiata della buona società cittadina. Delle imprese ancora nella gestione dell’Agenzia, 286 sono in liquidazione, 360 sono fallite quando erano ancora in amministrazione straordinaria, per 181 è stata avanzata la richiesta di cancellazione dal registro delle imprese, 30 sono in gestione sospesa. Solo 36 sono in affitto o stanno per essere vendute.

Il voltafaccia delle banche. “Il momento più difficile – spiega Antonio Cananà, vice prefetto dell’Agenzia nazionale – è quello successivo al sequestro. Le banche, che fino al giorno prima concedevano prestiti, chiedono la liquidazione dei fidi, i creditori si fanno avanti aggressivi e le commesse diventano rare, perché i clienti paradossalmente non si sentono più sicuri”. I tempi di confisca, assegnazione e consegna sono lunghissimi: si calcola dai sette ai dieci anni. E in questo interregno gli amministratori non possono concedere garanzie, se non su apposita richiesta al Tribunale di appartenenza, giocando sul mercato una partita impari.

Governo in ritardo. Come spiega il procuratore di Reggio Calabria Giuseppe Pignatone “l’impresa mafiosa impone prezzi e contratti, piega la concorrenza con minacce e violenze, abbatte i costi con il lavoro nero e i reati ambientali, non ha difficoltà di credito e può riciclare enormi profitti illeciti”. Quando arriva lo Stato, i primi a farsi avanti sono banche e creditori. Con il risultato che quando le pratiche giungono nelle mani degli amministratori dell’Agenzia, le aziende sono già decotte e sommerse di debiti. Si calcola che il 33 per cento delle aziende con dipendenti versano in una situazione debitoria grave con un enorme perdita dei posti di lavoro. Gli amministratori poi, come denuncia la Corte dei Conti, operano in condizioni difficili ma sono spesso inadeguati a svolgere le mansioni a cui vengono chiamati.“Le difficoltà sono superate solitamente – dice la Corte – con il ricorso frettoloso alla gestione indiretta, che riporta l’impresa nelle mani di soggetti vicini agli ambienti criminali”. La nuova normativa contempla un albo di amministratori con esperienze di gestione aziendale, ma a due anni di distanza il ministero della Giustizia non ha ancora varato il decreto istitutivo. Così come è in ritardo il varo da parte del governo dei tre decreti attuativi che dovrebbero dare più poteri all’Agenzia già durante il primo grado di confisca. La legge istitutiva, votata nel febbraio 2010, li aveva previsti entro l’agosto dello stesso anno.

Hotel e ristoranti. L’Hotel San Paolo di Palermo, ad esempio, un’enorme struttura di 354 stanze con piscina al quattordicesimo piano, è attualmente in esercizio, ma registra da anni perdite connesse sia al mercato che “alle insufficienze manageriali”. Ci sono poi le moltissime aziende, in parte svuotate dei mezzi strumentali, che non sono più in condizioni di esercitare un’attività con una qualche prospettiva. In altri casi – nota l’Agenzia – il provvedimento di confisca attacca il patrimonio societario, ma non le azioni della società che gestisce, aprendo un contenzioso infinito. È il caso del Parco dei Templari ad Altamura (Bari), del valore di 17 milioni di euro, dove una famiglia mafiosa continua la gestione di un importante immobile confiscato in un comune vicino: una decisione del 14 gennaio scorso del Consiglio di Stato ha posto, dopo anni, lo Stato in condizione di effettuare lo sgombero della struttura e progettare l’avvio di una nuova attività. A marzo l’Agenzia puntava a mettere mano anche alla situazione dell’hotel a quattro stelle “Sigonella Inn”, in provincia di Catania, ancora gestito da familiari del boss che lo possedeva, mentre la ristorazione del castello di Miasino, un immobile del valore di circa 5 milioni di euro in provincia di Novara, appartenuto ai Galasso, continua a essere amministrata dalla moglie del boss, come hanno segnalato le procure distrettuali di Torino e di Napoli.

I comuni non collaborano. Dove non sono le minacce e le intimidazioni dei mafiosi a fermare tutto,“sono i comuni a non soccorrere le società confiscate – osserva Davide Pati, responsabile dell’Ufficio beni confiscati di Libera – per mancanza di cultura o per connivenza”. A Verbumcaudo, un feudo in Sicilia di 150 ettari coltivati a olivi e foraggio, confiscato nel 1987 al “papa” di Cosa Nostra Michele Greco grazie all’allora giudice istruttore Giovanni Falcone, si è paralizzati dall’ipoteca che Sicilcassa accese per prestare i 363mila euro al boss. C’era un protocollo che avrebbe coinvolto un consorzio di ventuno comuni e la provincia nella recupero del bene, ma alla fine lo hanno firmato solo in tre. È della settimana scorsa la notizia che la Regione ha chiesto il trasferimento del bene sotto la propria competenza.

Antonio Fico

(Tratto da Rassegna.it)