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Un’avanguardia della guerra alla mafia

Un’avanguardia della guerra alla mafia

di Leonardo Agueci

Non è semplice oggi comprendere fino in fondo il ruolo di precursore, ricoperto da Cesare Terranova nella storia della lotta alla mafia, e l’importanza della traccia da lui lasciata.
E per poterlo farlo ritengo indispensabile collocarsi mentalmente nella realtà della Palermo – e dell’Italia – degli anni 60/70; una realtà che appare inimmaginabile agli occhi di chi oggi ha acquisito consapevolezza del fenomeno mafioso ed è abituato a manifestazioni di conclamata contrapposizione (peraltro, in molti casi, strumentali ed ingannevoli), tipiche dei nostri tempi.
All’epoca la concezione predominante che si aveva della mafia, non solo in Sicilia ma nella totalità del paese, era quella di un fenomeno certamente criminale, ma localmente circoscritto e per certi versi anche pittoresco, riguardante una limitata sfera di persone, con le quali però si poteva tranquillamente convivere, rispettandosi reciprocamente e “facendosi i fatti propri”.
Un atteggiamento del genere era prevalente anche negli ambienti medio ed alto borghesi, che comunque sapevano, all’occorrenza, trarre vantaggio dai rapporti intrattenuti con uomini d’onore, per utilizzarne “i servizi” e risolvere beghe personali.
Totalmente assente era l’idea che la mafia potesse costituire un pericolo per il futuro della società e che fosse necessaria una educazione ai valori che ad essa si contrapponevano, ritenuti anzi totalmente estranei alle tradizioni locali.
Al contrario, alla mafia venivano perfino attribuite benemerenze non di poco conto, come quella (diffusa in molti ambienti, anche influenti) di avere impedito che in Sicilia attecchisse il terrorismo politico, negli stessi anni in cui imperversava in molte altre parti d’Italia.
Gli aspetti più violenti ed i fatti più eclatanti (come la strage di Viale Lazio del dicembre 1969) venivano sempre ricondotti nell’ambito esclusivo di conflitti interni (si diceva sempre: “..s’ammazzanu tra iddi…”) che non interessavano minimamente le persone per bene; si trattava di un’interpretazione utilizzata anche in occasione dei primi delitto “eccellenti” contro valorosi servitori dello Stato, la cui memoria veniva sistematicamente infangata, con insinuazioni del tipo “…chissà cosa c’è sotto…!”
Le poche voci che si levavano per denunciare la reale pericolosità della mafia, ed i gravi rischi della sua costante espansione, venivano confinati nelle categorie degli scrittori in cerca di pubblico, degli intellettuali fantasiosi e soprattutto degli ispiratori di strumentalizzazioni politiche (quasi esclusivamente di sinistra).
Ma invece era proprio attraverso il canale degli accordi con vasta parte del mondo della politica che si veniva a realizzare, proprio in quegli anni, la completa occupazione di ogni centro di potere da parte della mafia e la sua capacità di inquinare e condizionare tutti i settori di crescita economica, di sviluppo sociale, di prospettive di vita della popolazione siciliana.
Tutto ciò avveniva nel silenzio, nell’indifferenza e talvolta nella connivenza di tanti, soprattutto di quelli che istituzionalmente avrebbero dovuto reagire contro questa grave deriva e contrapporvisi energicamente.
Nei Palazzi di Giustizia, in particolare, quasi non si parlava di mafia e – quando era necessario occuparsene – veniva trattata in termini di semplice criminalità comune.
Nelle relazioni inaugurali dell’Anno Giudiziario la stessa parola era sistematicamente ignorato, anche perché circolava un generale scetticismo sulla utilità – e persino sulla stessa opportunità – di svolgere indagini dirette ad individuare reati associativi.
Nell’ambiente giudiziario quindi un magistrato come Cesare Terranova – che, fin dal suo insediamento all’Ufficio Istruzione, si era messo in luce per la forte determinazione nel volere conoscere, approfondire e contrastare il fenomeno mafioso, come mai avvenuto in passato – costituiva una figura assolutamente eccezionale ed isolata, oggetto di insinuazioni e malevolenze di ogni genere, e di scarse manifestazioni autentiche di sostegno ed incoraggiamento.
Nel trattare poi, quale Giudice Istruttore, i rari procedimenti avviati a carico di imputati di associazione a delinquere (all’epoca non esisteva l’art. 416 bis Codice Penale), oltre che dei vari – e spesso efferati – delitti che ne manifestavano l’esistenza, aveva saputo individuare con lucidità i connotati di violenza, tracotanza e pervasività dell’organizzazione mafiosa, in termini analoghi a quelli tratteggiati, negli anni successivi, da chi avrebbe raccolto la sua eredità.
Aveva così compreso perfettamente che la mafia era soprattutto un fenomeno unitario, da trattare come tale anche sul piano giudiziario, e che occorrevano massimo impegno e determinazione per fronteggiarla efficacemente ed arrestarne la progressiva espansione,
Occorreva soprattutto, però, fare chiarezza sui rapporti tra la mafia e la classe dirigente siciliana e quindi stroncare ogni forma di convergenza di interessi con la politica e di compenetrazione nelle Istituzioni.
Ciò che affermava, a questo proposito, nelle sue sentenze di rinvio a giudizio, (all’epoca si chiamavano così), pronunziate nella seconda metà degli anni ’60, appare ancora oggi particolarmente significativo.
Egli infatti scriveva: “… (la mafia) costituisce …una forza corrosiva e disgregatrice delle istituzioni, un potere occulto in antagonismo con quello dello Stato, un vero e proprio cancro sociale, le cui profonde infiltrazioni nei più diversi settori della vita pubblica e sociale sono solo in minima parte documentati dalle risultanze processuali…”; ed ancora: “… la mafia, con i suoi tenebrosi tentacoli, spesso utilizzando l’attiva collaborazione di persone qualificate e insospettabili, si inserisce in tutti i settori della vita sociale, nel campo commerciale e industriale, nel mondo degli affari e delle speculazioni, nelle competizioni politiche, portando in essi i propri sistemi violenti ed intimidatori ed inquinando così profondamente la nostra società…”.
Colpisce profondamente la constatazione che tali analisi, riportate in provvedimenti di oltre cinquanta anni fa, risultino quanto mai pertinenti ed attuali ancora oggi, alla luce delle montagne di informazioni acquisite nei decenni successivi.
Cesare Terranova aveva dunque chiaramente compreso, con largo anticipo, come la mafia costituisse, per la sua profonda natura oppressiva, il principale ostacolo al benessere della società siciliana e come, di conseguenza, nessuna forma di tolleranza o compromesso potesse essere consentita nei suoi confronti,
Ed aveva parimenti ben chiaro che le numerose compiacenze e complicità pubbliche e private, delle quali la mafia godeva in vasti settori delle politica, avrebbero di fatto frenato – come l’esperienza successiva ha ampiamente confermato – qualsiasi efficace attività di contrasto.
Con lo stesso impegno e determinazione destinati alle indagini, si dedicò quindi a denunziare pubblicamente la necessità che tutte le Istituzioni, a cominciare da quelle politiche, si assumessero le loro responsabilità, a fronte della gravità del fenomeno mafioso, in modo da potere effettivamente attrezzarsi a contrastarlo sul piano normativo, operativo e funzionale
Non va infatti dimenticato che, all’epoca, le risorse a disposizione degli inquirenti erano antiche ed inadeguate, sia sul piano delle acquisizioni investigative (fondate esclusivamente su scarne informazioni acquisite forzando il muro granitico dell’omertà) sia su quello dei mezzi e delle metodologie d’indagine (non si parlava nemmeno di indagini patrimoniali) sia infine su quelli processuali ed ordinamentali (non vi era la minima differenza tra il trattamento dei delitti di mafia e quello di ogni altra figura di reato); per non parlare poi della totale assenza di norme e regolamenti, nell’ambito della pubblica amministrazione, che potessero fungere da ostacolo alle infiltrazioni mafiose.
Il suo impegno in tal senso sarebbe poi proseguito, con altrettanta determinazione, durante la sua attività parlamentare, soprattutto nell’ambito della Commissione Parlamentare Antimafia, di cui ha fatto parte tra il 1972 ed il 1976.
Su tale esperienza certamente contava di fare grande affidamento nel momento in cui decideva di porre termine all’attività parlamentare e rientrare tra i ranghi della magistratura attiva.
Il suo ritorno però non poteva certo essere gradito né accettato da coloro che proprio sulle compiacenze alla mafia avevano fondato posizioni di potere ormai acquisite, da coloro che avevano trovato più comodo adagiarsi sui predominanti atteggiamenti di sottovalutazione e tolleranza, da coloro che guardavano alla sua risolutezza con diffidenza, attribuendovi recondite ambizioni personali.
Senza dimenticare infine proprio le famiglie mafiose, e soprattutto quella corleonese, che da tempo lo avevano bene individuato tra i (pochi) avversari veramente pericolosi, all’epoca presenti nelle Istituzioni.
Le iniziative in suo ricordo, nel 40° anniversario della sua uccisione, ce lo hanno presentato come un uomo estroverso, cordiale, esuberante, amante della vita, desideroso di comunicare con gli altri.
Viene allora da pensare come abbia subito con grande sofferenza la condizione di isolamento morale cui dovette rassegnarsi in tutti gli ambienti che frequentava – giudiziari e non – ogni volta che constatava come le sue convinzioni ed il suo impegno in materia di mafia ricevessero ben poco apprezzamento e considerazione tra i suoi interlocutori, al di là di quelli manifestamente ipocriti e “di maniera”.
Anche per questa esperienza di isolamento dobbiamo allora ricordarlo come uno straordinario precursore dell’opera delle grandi figure venute dopo di lui.

12 Ottobre 2019

Fonte:http://mafie.blogautore.repubblica.it/