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Una lontana estate di fuochi  

Una lontana estate di fuochi

16 DICEMBRE 2017

di Giovanni Tizian

Il capannone avvolto dalle fiamme. Un rogo spaventoso che in quella notte di luglio del 1988 illuminava tutta la contrada Sandrechi, sulla strada che collega Bovalino a Platì. Il mobilificio di mio nonno bruciava così, mentre noi lo guardavamo attoniti. Gli anni Ottanta e Novanta furono anni di piombo per la Calabria e per il paese nel quale sono nato.

L’Aspromonte e le famiglie di ‘Ndrangheta, le loro regole, l’Anonima sequestri, i lobi delle orecchie mozzati e inviati ai familiari per convincerli a pagare i miliardi richiesti. Ma i clamorosi sequestri di persona, gli ostaggi nascosti nelle grotte di quei monti impenetrabili erano solo la vetta visibile, quella che più catturava l’attenzione dei media e dell’Italia tutta.

Il resto però, quello che non veniva raccontato, ha ferito a morte la mia terra e tantissimi cittadini onesti che hanno pagato con la vita il prezzo della loro dignità. La ‘Ndrangheta stava completando la sua evoluzione iniziata con la costituzione de “La Santa”, struttura nata a metà degli Anni Settanta per consentire ai più importanti capi di conferire con massoneria, forze dell’Ordine e uomini politici. Serviva a gestire meglio gli affari illeciti e avere accesso al potere.

Erano gli anni della seconda guerra di mafia a Reggio Calabria. Quasi mille morti. Mafiosi contro mafiosi. E poi il massacro degli innocenti. Gente onesta ammazzata senza scrupolo per affermare il loro potere criminale.

Questo era lo scenario della mia infanzia nella Locride. Terra antica, con le impronte della gloriosa Magna Grecia ancora visibili in alcuni luoghi, saccheggiata da uomini che si definiscono d’onore: gli ‘ndranghetisti.

All’epoca la mafia calabrese era considerata un gruppo disordinato di pastori feroci, sanguinari e ignoranti. Per l’Italia, la Calabria era una regione periferica e pericolosa da cui stare lontani. Anche per i politici. Salvo le doverose e fruttuose processioni pre-elettorali. Così nessuno capì il dramma che si stava consumando nella punta dello stivale. E che stava già guastando tutta la nazione. Oggi paghiamo le conseguenze di quella cecità.

Il mobilificio di mio nonno Ciccio moriva quella notte di luglio. E con esso la speranza di riscatto. Avevano resistito alle estorsioni, ai camion fatti saltare durante la notte. Ci avevano creduto. I miei familiari e i quindici operai che lavoravano in quel capannone non vollero arrendersi. Continuarono. Follemente, senza alcuna certezza, forse per disperazione, non fermarono l’attività. Nei garage di ognuno di loro si tagliava, s’incollava, si assemblava.

Ma quell’incendio anonimo aveva bruciato il futuro. E non era che l’inizio della guerra.

( 1 – continua)

fonte:http://mafie.blogautore.repubblica.it