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Una deriva pericolosa per la democrazia nel nostro Paese

Il culto della polizia e la governance integrale
Le vicende di Stefano Cucchi, Gabriele Sandri  e Gabriele Aldrovandi. E non da meno il caso Marrazzo che coinvolge quattro, forse cinque, carabinieri e, ancora, le violenze poliziesche di Genova, i reati dei depistaggi messi in opera per coprirle: esempi della concezione autoritaria che lo stato propone e impone senza che i cittadini se ne rendano conto, perché l’azione di polizia resta sempre al riparo da qualunque critica o sospetto. Siamo entrati in un’ottica di repressione vista come una missione risolutiva, “antisociologica” delle frange pericolose, intese lombrosianamente inclini al crimine

Le vicende di Stefano Cucchi, 31 anni, morto dopo l’arresto (perchè trovato in possesso di una dose minima di “erba”), portava evidenti sul corpo i segni della violenza subita. Prima di lui Gabriele Sandri, e Gabriele Aldrovandi morto a Ferrara dopo essere stato massacrato da una pattuglia di poliziotti, che hanno poi avuto una condanna mite, che ha sanzionato un comportamento intollerabile in uno stato di diritto. E non da meno il caso Marrazzo che coinvolge quattro, forse cinque, carabinieri che hanno taglieggiato l’oramai ex governatore del Lazio. Per una settimana in una caserma dell’ Arma un gruppo di carabinieri ha ordito e portato a termine con precisione certosina una serie di reati gravissimi. Via Gradoli è stata teatro di soprusi ai danni dei trans, sono state fatte irruzioni studiate per rapinare denaro e droga, probabilmente con episodi di ricatto a danni di altri clienti. Una banda di criminali in divisa che ha agito indisturbata, nonostante si sapesse che la loro attività era nota negli ambienti della malavita e della prostituzione, come mai nessun collega o superiore si è accorto di nulla?

Che dire invece delle morti in carcere? Dai dati del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, elaborati dall’ Associazione contro tutte le mafie, risulta che negli ultimi 9 mesi ci sono stati 138 morti nelle carceri italiane, di 56 per suicidio. I dati ministeriali indicano ben 64.595 detenuti per una capienza su 205 istituti di 43.186 unità. Cioè 21.409 detenuti in più, stipati uno sull’altro. Ma il dato più grave è che di questi 48,5% hanno subito una condanna solo 31,363. Il resto è formato da persone presunte innocenti: 33,232!
Dal 1945 al 1995, in cella si sono stati 4 milioni di innocenti, dal 1980 al 1994 vi è stata assoluzione per metà dei reclusi vittime di detenzioni ingiuste. Più di un milione e mezzo di cittadini è stato giudicato non colpevole, degli oltre 3,5 milioni finiti di fronte ad un giudice. E di questo milione e mezzo sono 313.000 quelli prosciolti con formula piena. Cifre che dovrebbero far rabbrividire tutti i benpensanti e giustizialisti a senso unico.

Le violenze poliziesche di Genova, i reati dei depistaggi messi in opera per coprirle è assolutamente exemplum virtutis della concezione autoritaria che lo stato propone e impone senza che i cittadini se ne rendano conto, perchè se nel parlare corrente della gente comune il marcio del mondo politico è ben rappresentato e messo alla berlina, l’azione di polizia resta sempre al riparo da qualunque critica o sospetto.
In una rappresentazione pubblica e politica della sicurezza come valore assoluto, da tutelare soprattutto rispetto ai problemi dell’immigrazione che a detta di alcuni, renderebbero le nostre città delle giungle, si induce la pubblica opinione a reclamare una idea di sicurezza intesa come protezione e volta esclusivamente come ordine pubblico. E’ un clivage che induce il cittadino a considerarsi in primo luogo “potenziale vittima del crimine” e quindi ragionevolmente disposto a rinunciare progressivamente ai “diritti”, pur di essere protetto dalla minaccia che incombe. Mai che venga in mente che la sicurezza possa essere, debba essere, intesa anche come l’essere al riparo dall’arbitrio di chi esercita un pubblico potere, declinata in diritti, garanzie, e prerogative individuali, no, questo significato è metodicamente bandito dal discorso dominante.

Si tratta di riduzione dell’idea di sicurezza resa efficace solo attraverso una dicotomia tra il “mondo dei devianti” e il “mondo dei normali”. Dei primi è previsto che se ne occupi la polizia, ovviamente a beneficio dei secondi. Ma il fatto importante è che l’elemento decisivo di tale dicotomizzazione, è una sorta di idea, di ragionamento che, proviene da oltreatlantico, e che è ben radicato anche da noi, in base al quale, non si può perder tempo e denaro su “teorie sociologiche” sulle radici sociali e ambientali del crimine, che sono accusate di aver troppo a lungo sostenuto politiche tolleranti e velleitarie quanto romantiche idee di integrazione, al fine di tornare al sano principio “fascista” secondo cui “non è la società a creare la devianza, ma sono i devianti ad essere responsabili del crimine”.

Questo oltre che essere un concetto di matrice fascistoide, è pure un incrollabile principio puritano, è la riedizione collettivizzata della predestinazione calvinista. Il crimine come risultato del libero arbitrio individuale, il prodotto della singola soggettività votata al male e quindi “predestinata” alla dannazione, infligge un danno che è di natura sociale. Ad esserne colpita non è solo la vittima di quello specifico atto criminale, bensì tutta la società nel suo complesso. Sempre quella società che scomparsa tra i fattori che codeterminano la devianza, si ripresenta però, come sua principale vittima. Insomma, la società è sempre buona e giusta, sono i singoli ad essere malvagi.
Questo è il continuo ritorno alla “responsabilità individuale”, che viene poi sempre inteso come reiterata difesa dell’ordine costituito, anche se questo conduce ad una
“irresponsabilità sociale”. E’ la morte della tradizione liberale, che apre le porte alle funzioni repressive dello stato, che diventa minimo nella funzione di “stato sociale”, e massimo nella funzione di “stato di polizia”.
La repressione ha la centralità assoluta, immune da ogni condizionamento o dubbio, rende infallibile e certo di immunità chi la esercita, ossia le forze dell’ordine.
La massima degenerazione a cui stiamo assistendo in tale ambito, è la nascita delle ronde, laddove era difficile educare gli operatori di polizia ad un comportamento razionale e rispettoso dei diritti umani, figurarsi come può essere fattibile questo in riferimento a persone che non hanno alcun tipo di formazione e controllo sulle operazioni di ordine pubblico.

Quello a cui si assiste quotidianamente, è una altalenante gara tra destra e sinistra a creare “domanda di sicurezza”, attraverso una retorica ufficiale sulle forze dell’ordine, che spesso cade in una inaccettabile copertura di abusi e vessazioni. Vi è la pretesa che i cittadini ammirino e accettino incondizionatamente i tutori dell’ordine pubblico, invocandone la protezione salvo poi far passare come del tutto normale lo sconfino nell’abuso, e la rinuncia a strumenti di controllo e garanzia che ne sorveglino l’operato.
Per non parlare dell’enfasi apologetica che viene fuori in tutte le occasioni ufficiali e le sedi istituzionali, al punto da bacchettare Andrea Camilleri quando ha osato far dire qualche contrarietà al bravissimo Montalbano (avercene commissari così) in merito allo scempio di Genova!
I politici poi, fanno a gara nell’esprimere la propria solidarietà e approvazione per le forze dell’ordine, che sono sempre esenti da ogni sospetto di eccesso o di devianza, anzi, ogni contrarietà d’opinione viene accolta come un affronto, una bestemmia, un tradimento, questo anche da parte di chi, interno a tali “corpi armati”, osa mettere in dubbio la giustezza di determinati fatti (e questo lo sostengo in quanto ho avuto esperienza lavorativa in tale settore, quindi parlo con cognizione di causa), stigmatizzando e isolando i dissenzienti, che verranno in tal modo precipitati nella “spirale del silenzio”. E se qualche volta il marcio viene a galla, la stampa si guarda bene dal darvi eccessiva importanza, perchè la polizia non giudica, agisce, e dunque non può sbagliare . Se l’errore giudiziario è contemplato nel dibattito pubblico, l’arbitrio di polizia non lo è, l’accusa più ricorrente è fatta normalmente alla magistratura, colpevole di metter fuori i delinquenti che le forze dell’ordine tanto faticosamente catturano. Ma attenzione che se il giudizio sulla magistratura può divergere a seconda delle stagioni e convenienze, quello sull’infallibilità della polizia è assolutamente unanime. L’esempio della mattanza di Genova è peculiare, pur di assolvere gli esecutori materiali nella scuola Diaz, nonché per le vie della città e nella caserma Bolzaneto, si è arrivati alla distruzione delle prove, assolto e riammesso in servizio il carabiniere che uccise Carlo Giuliani.

Se si respinge a priori qualsiasi influenza degli squilibri sociali sui comportamenti dei devianti, si avrà l’esclusione di qualsiasi efficacia delle politiche sociali; se la centralità assoluta sarà ancora sulla repressione, sollevata dalla responsabilità, dal condizionamento del dubbio o dell’insufficienza, l’infallibilità di chi esercita la violenza di stato essa non avrà contenimento alcuno. A questo punto il ricorso alle forze di polizia per risolvere qualsiasi problema nelle varie sfere della vita civile, non avrà più limiti, con conseguenze molto pericolose per i cittadini di uno “stato di diritto”.
Esiste un problema di consumo di spinelli nelle scuole superiori? Si chiederà ai carabinieri di compiere azioni improvvise di controllo, con cani ed eventuali manganelli. E questo era stato proposto nel 2007 non da un governatore del Texas, ma da un ministro della salute di un governo di centrosinistra in Italia!

Siamo entrati in un’ottica di repressione vista come una missione risolutiva, “antisociologica” delle frange pericolose, intese lombrosianamente inclini al crimine.
Nonostante questi gruppi sociali siano interni alle società sviluppate, ne riflettano ideologie e comportamenti, abitudini e atteggiamenti, vengono considerati “corpi estranei”, o peggio come nemici, configurando l’azione di polizia come azione di guerra (si pensi al reato di clandestinità).
Le forze dell’ordine non appaiono più come una articolazione dell’ordine sociale, con vincoli e limiti volti a garantire la tutela del soggetto, ma come un esercito schierato a difesa della nazione, dove le necessità di sicurezza e ordine assolvono da soprusi e prevaricazioni dei più deboli. Si mettono in atto mezzi sempre più razionali per raggiungere obiettivi sempre più irrazionali.
Il 1984 di George Orwell, spauracchio del liberalismo, ci ricorda in quella significativa frase del libro “se il fascismo fosse tornato, non avrebbe indossato la camicia nera, ma la giacca di tweed”.
Forse l’obiettivo desiderato è quello di una governance integrale? Francamente preferirei uno stato in cui non dover avere paura che se disgraziatamente un ragazzo (magari mio figlio, i nostri figli) fermato per possesso di droga venga massacrato dai tutori dell’ordine costituito. Un invito ai governanti, che non può essere declinato in virtù del culto della polizia.
Loredana Biffo

Le vicende di Stefano Cucchi, 31 anni, morto dopo l’arresto (perchè trovato in possesso di una dose minima di “erba”), portava evidenti sul corpo i segni della violenza subita. Prima di lui Gabriele Sandri, e Gabriele Aldrovandi morto a Ferrara dopo essere stato massacrato da una pattuglia di poliziotti, che hanno poi avuto una condanna mite, che ha sanzionato un comportamento intollerabile in uno stato di diritto. E non da meno il caso Marrazzo che coinvolge quattro, forse cinque, carabinieri che hanno taglieggiato l’oramai ex governatore del Lazio. Per una settimana in una caserma dell’ Arma un gruppo di carabinieri ha ordito e portato a termine con precisione certosina una serie di reati gravissimi. Via Gradoli è stata teatro di soprusi ai danni dei trans, sono state fatte irruzioni studiate per rapinare denaro e droga, probabilmente con episodi di ricatto a danni di altri clienti. Una banda di criminali in divisa che ha agito indisturbata, nonostante si sapesse che la loro attività era nota negli ambienti della malavita e della prostituzione, come mai nessun collega o superiore si è accorto di nulla?

Che dire invece delle morti in carcere? Dai dati del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, elaborati dall’ Associazione contro tutte le mafie, risulta che negli ultimi 9 mesi ci sono stati 138 morti nelle carceri italiane, di 56 per suicidio. I dati ministeriali indicano ben 64.595 detenuti per una capienza su 205 istituti di 43.186 unità. Cioè 21.409 detenuti in più, stipati uno sull’altro. Ma il dato più grave è che di questi 48,5% hanno subito una condanna solo 31,363. Il resto è formato da persone presunte innocenti: 33,232!
Dal 1945 al 1995, in cella si sono stati 4 milioni di innocenti, dal 1980 al 1994 vi è stata assoluzione per metà dei reclusi vittime di detenzioni ingiuste. Più di un milione e mezzo di cittadini è stato giudicato non colpevole, degli oltre 3,5 milioni finiti di fronte ad un giudice. E di questo milione e mezzo sono 313.000 quelli prosciolti con formula piena. Cifre che dovrebbero far rabbrividire tutti i benpensanti e giustizialisti a senso unico.

Le violenze poliziesche di Genova, i reati dei depistaggi messi in opera per coprirle è assolutamente exemplum virtutis della concezione autoritaria che lo stato propone e impone senza che i cittadini se ne rendano conto, perchè se nel parlare corrente della gente comune il marcio del mondo politico è ben rappresentato e messo alla berlina, l’azione di polizia resta sempre al riparo da qualunque critica o sospetto.
In una rappresentazione pubblica e politica della sicurezza come valore assoluto, da tutelare soprattutto rispetto ai problemi dell’immigrazione che a detta di alcuni, renderebbero le nostre città delle giungle, si induce la pubblica opinione a reclamare una idea di sicurezza intesa come protezione e volta esclusivamente come ordine pubblico. E’ un clivage che induce il cittadino a considerarsi in primo luogo “potenziale vittima del crimine” e quindi ragionevolmente disposto a rinunciare progressivamente ai “diritti”, pur di essere protetto dalla minaccia che incombe. Mai che venga in mente che la sicurezza possa essere, debba essere, intesa anche come l’essere al riparo dall’arbitrio di chi esercita un pubblico potere, declinata in diritti, garanzie, e prerogative individuali, no, questo significato è metodicamente bandito dal discorso dominante.

Si tratta di riduzione dell’idea di sicurezza resa efficace solo attraverso una dicotomia tra il “mondo dei devianti” e il “mondo dei normali”. Dei primi è previsto che se ne occupi la polizia, ovviamente a beneficio dei secondi. Ma il fatto importante è che l’elemento decisivo di tale dicotomizzazione, è una sorta di idea, di ragionamento che, proviene da oltreatlantico, e che è ben radicato anche da noi, in base al quale, non si può perder tempo e denaro su “teorie sociologiche” sulle radici sociali e ambientali del crimine, che sono accusate di aver troppo a lungo sostenuto politiche tolleranti e velleitarie quanto romantiche idee di integrazione, al fine di tornare al sano principio “fascista” secondo cui “non è la società a creare la devianza, ma sono i devianti ad essere responsabili del crimine”.

Questo oltre che essere un concetto di matrice fascistoide, è pure un incrollabile principio puritano, è la riedizione collettivizzata della predestinazione calvinista. Il crimine come risultato del libero arbitrio individuale, il prodotto della singola soggettività votata al male e quindi “predestinata” alla dannazione, infligge un danno che è di natura sociale. Ad esserne colpita non è solo la vittima di quello specifico atto criminale, bensì tutta la società nel suo complesso. Sempre quella società che scomparsa tra i fattori che codeterminano la devianza, si ripresenta però, come sua principale vittima. Insomma, la società è sempre buona e giusta, sono i singoli ad essere malvagi.
Questo è il continuo ritorno alla “responsabilità individuale”, che viene poi sempre inteso come reiterata difesa dell’ordine costituito, anche se questo conduce ad una
“irresponsabilità sociale”. E’ la morte della tradizione liberale, che apre le porte alle funzioni repressive dello stato, che diventa minimo nella funzione di “stato sociale”, e massimo nella funzione di “stato di polizia”.
La repressione ha la centralità assoluta, immune da ogni condizionamento o dubbio, rende infallibile e certo di immunità chi la esercita, ossia le forze dell’ordine.
La massima degenerazione a cui stiamo assistendo in tale ambito, è la nascita delle ronde, laddove era difficile educare gli operatori di polizia ad un comportamento razionale e rispettoso dei diritti umani, figurarsi come può essere fattibile questo in riferimento a persone che non hanno alcun tipo di formazione e controllo sulle operazioni di ordine pubblico.

Quello a cui si assiste quotidianamente, è una altalenante gara tra destra e sinistra a creare “domanda di sicurezza”, attraverso una retorica ufficiale sulle forze dell’ordine, che spesso cade in una inaccettabile copertura di abusi e vessazioni. Vi è la pretesa che i cittadini ammirino e accettino incondizionatamente i tutori dell’ordine pubblico, invocandone la protezione salvo poi far passare come del tutto normale lo sconfino nell’abuso, e la rinuncia a strumenti di controllo e garanzia che ne sorveglino l’operato.
Per non parlare dell’enfasi apologetica che viene fuori in tutte le occasioni ufficiali e le sedi istituzionali, al punto da bacchettare Andrea Camilleri quando ha osato far dire qualche contrarietà al bravissimo Montalbano (avercene commissari così) in merito allo scempio di Genova!
I politici poi, fanno a gara nell’esprimere la propria solidarietà e approvazione per le forze dell’ordine, che sono sempre esenti da ogni sospetto di eccesso o di devianza, anzi, ogni contrarietà d’opinione viene accolta come un affronto, una bestemmia, un tradimento, questo anche da parte di chi, interno a tali “corpi armati”, osa mettere in dubbio la giustezza di determinati fatti (e questo lo sostengo in quanto ho avuto esperienza lavorativa in tale settore, quindi parlo con cognizione di causa), stigmatizzando e isolando i dissenzienti, che verranno in tal modo precipitati nella “spirale del silenzio”. E se qualche volta il marcio viene a galla, la stampa si guarda bene dal darvi eccessiva importanza, perchè la polizia non giudica, agisce, e dunque non può sbagliare . Se l’errore giudiziario è contemplato nel dibattito pubblico, l’arbitrio di polizia non lo è, l’accusa più ricorrente è fatta normalmente alla magistratura, colpevole di metter fuori i delinquenti che le forze dell’ordine tanto faticosamente catturano. Ma attenzione che se il giudizio sulla magistratura può divergere a seconda delle stagioni e convenienze, quello sull’infallibilità della polizia è assolutamente unanime. L’esempio della mattanza di Genova è peculiare, pur di assolvere gli esecutori materiali nella scuola Diaz, nonché per le vie della città e nella caserma Bolzaneto, si è arrivati alla distruzione delle prove, assolto e riammesso in servizio il carabiniere che uccise Carlo Giuliani.

Se si respinge a priori qualsiasi influenza degli squilibri sociali sui comportamenti dei devianti, si avrà l’esclusione di qualsiasi efficacia delle politiche sociali; se la centralità assoluta sarà ancora sulla repressione, sollevata dalla responsabilità, dal condizionamento del dubbio o dell’insufficienza, l’infallibilità di chi esercita la violenza di stato essa non avrà contenimento alcuno. A questo punto il ricorso alle forze di polizia per risolvere qualsiasi problema nelle varie sfere della vita civile, non avrà più limiti, con conseguenze molto pericolose per i cittadini di uno “stato di diritto”.
Esiste un problema di consumo di spinelli nelle scuole superiori? Si chiederà ai carabinieri di compiere azioni improvvise di controllo, con cani ed eventuali manganelli. E questo era stato proposto nel 2007 non da un governatore del Texas, ma da un ministro della salute di un governo di centrosinistra in Italia!

Siamo entrati in un’ottica di repressione vista come una missione risolutiva, “antisociologica” delle frange pericolose, intese lombrosianamente inclini al crimine.
Nonostante questi gruppi sociali siano interni alle società sviluppate, ne riflettano ideologie e comportamenti, abitudini e atteggiamenti, vengono considerati “corpi estranei”, o peggio come nemici, configurando l’azione di polizia come azione di guerra (si pensi al reato di clandestinità).
Le forze dell’ordine non appaiono più come una articolazione dell’ordine sociale, con vincoli e limiti volti a garantire la tutela del soggetto, ma come un esercito schierato a difesa della nazione, dove le necessità di sicurezza e ordine assolvono da soprusi e prevaricazioni dei più deboli. Si mettono in atto mezzi sempre più razionali per raggiungere obiettivi sempre più irrazionali.
Il 1984 di George Orwell, spauracchio del liberalismo, ci ricorda in quella significativa frase del libro “se il fascismo fosse tornato, non avrebbe indossato la camicia nera, ma la giacca di tweed”.
Forse l’obiettivo desiderato è quello di una governance integrale? Francamente preferirei uno stato in cui non dover avere paura che se disgraziatamente un ragazzo (magari mio figlio, i nostri figli) fermato per possesso di droga venga massacrato dai tutori dell’ordine costituito. Un invito ai governanti, che non può essere declinato in virtù del culto della polizia.
Loredana Biffo

(Tratto da AprileOnline)