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Una confederazione sul territorio: così le cosche controllano il reggino

LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA – I giudici fotografano il controllo esercitato dai clan De Stefano, Tegano e Condello di Archi e della cosca Libri di Cannavò: 53 inflitte a boss e luogotenenti

DI LUCIO MUSOLINO – Il Fatto Quotidiano

Le risultanze processuali documentano l’esistenza di un’ampia confederazione di cosche sul territorio reggino”. È la novità che emerge dalle motivazioni della sentenza “Epicentro”, emessa lo scorso luglio dal gup Francesco Campagna al termine di un processo celebrato in primo grado con il rito abbreviato e concluso con una pioggia di condanne. In totale sono state 53 inflitte a boss e luogotenenti delle principali famiglie mafiose di Reggio Calabria: dai De Stefano-Tegano-Molinetti ai Libri, passando per i Condello, i Barreca, i Rugolino, i Ficara, i Latella e gli Zito.

Tutti sono stati portati alla sbarra dalla Dda guidata dal procuratore Giovanni Bombardieri e dall’aggiunto Giuseppe Lombardo. Per il giudice, facevano parte di “una realtà criminale confederativa, basata su un sistema consuetudinario di regole vincolanti, radicatosi a partire dalla conclusione della seconda guerra di mafia, nei primi anni ‘90, e da lì via via stratificatosi attraverso la crescente adesione a quel sistema delle varie cosche operanti sul territorio reggino”.

Rappresentata in aula dai pm Stefano Musolino, Walter Ignazitto, Nicola De Caria e Giovanni Calamita, l’accusa ha retto su tutta la linea. Associazione a delinquere di stampo mafioso, estorsioni e danneggiamenti: il maxi-processo “Epicentro” ha riguardato gli imputati coinvolti nelle inchieste “Malefix”, “Nuovo corso” e Metameria” che hanno chiuso la trilogia di indagini iniziate negli anni novanta con l’inchiesta “Olimpia” e proseguite con i processi “Meta” e “Gotha”.

Vent’anni di carcere è la condanna che, se confermata in appello e in Cassazione, rischia quasi di seppellire boss come Carmine De Stefano, suo zio Orazio De Stefano, ma anche Filippo Barreca (già ergastolano), Demetrio Condello, Antonio Libri e Luigi Molinetti. Da sempre al servizio degli arcoti, prima di essere arrestato quest’ultimo scalpitava per avere il “locale” di Gallico. Le sue spinte scissioniste sono state fotografate dalle intercettazioni finite agli atti del processo. Negli ultimi anni, assieme a figli, infatti, Molinetti è stato il ventre molle di Archi, teatro tra il 1985 e il 1991 della seconda guerra di mafia che ha lasciato a terra quasi mille morti ammazzati.

Io di questa storia… del paese non è rimasto nulla… i ragazzi non sanno nulla… Sono passati trentasette anni”. Le parole di “Gino La Belva” rievocano la vecchia mattanza e trovano il sostegno di suo fratello, Alfonso Molinetti, condannato a 12 anni e 2 mesi di carcere: “È passato tanto tempo Gino… A chi gli hanno ammazzato il padre, a chi gli hanno ammazzato un fratello ed ogni tanto se lo ricordano… chi cerca una perdita… ma se no le cose…”.

Reggio è maledetta… – è sempre Alfonso Molinetti – e per niente ci fanno fare trent’anni di galera”. Non proprio per niente, visti i consigli che lo stesso ha dato al fratello Luigi quando suo nipote, Paolo Caponera, si era fatto portavoce di Orazio e Paolo Rosario De Stefano per un incontro chiarificatore con i Molinetti che, “dopo tanti anni di fedele militanza” nelle file degli arcoti, si stavano trasformando in “nemici interni”: “Hai fatto bene a maltrattarlo. Ma gliel’hai detto che non ti ammazzo perché sei il nipote di mio fratello? No… glielo potevi dire!… Se non fosse stato per mio fratello ti avrei tagliato la testa qua ti avrei sotterrato… a te e a chi ti viene dietro…”.

Se da una parte il gup scrive che “non vi possono essere dubbi in ordine all’esistenza di un forte e radicato dissidio esistente tra Carmine De Stefano e Luigi Molinetti”, dall’altra basta sentire le parole del figlio della “Belva” per avere la conferma. Parlando del boss Carmine De Stefano, detto “Occhialino” infatti, Giuseppe Molinetti (cl. 1989) dice: “In mezzo alla strada gli buttavo la benzina di sopra, accendevamo e poi scappavamo… gli dovevi dire… perché io in una settimana ti sistemo, schifoso di merda digli… sennò prenditi i bagattelli (le valigie, ndr) e vattene… perché vi brucio a tutti, parto dal Mercatello (storico quartiere dei De Stefano, ndr) e arrivo… a tutti vi brucio a casa”.

Le fibrillazioni per i “fatti di Gallico” hanno rischiato di provocare una faida, bloccata nell’estate 2020 dalla Dda con gli arresti dell’operazione “Malefix”. È il soprannome di Giorgino De Stefano, rampollo ormai quarantaduenne dell’omonimo clan, trapiantato a Milano (dove gestiva un ristorante frequentato da personaggi famosi) e compagno di Silvia Provvedi, influencer ed ex concorrente del Grande Fratello. Figlio di don Paolino De Stefano, il mammasantissima ucciso negli anni Ottanta all’inizio della seconda guerra di mafia, Giorgino è il fratello di Carmine e Giuseppe. La linea di sangue non mente: sfruttando la frase del giornalista Luigi Malafarina, sono tutti boss dalle “scarpe lucide” che, a un certo punto, per sistemare le frizioni con i Molinetti, hanno fatto rispettare le “regole che governano la ‘ndrangheta”.

Quali erano lo ha spiegato il gup nelle motivazioni della sentenza “Epicentro”: si trattava di un “sistema di regole” che “si estrinseca in una gestione degli affari criminali condivisa tra le cosche e consistente in un’opera di costante dialogo e mediazione tra le varie articolazioni”.

In altre parole, a Reggio Calabria c’era e c’è quella che la Dda ha definito una “’ndrangheta destefanocentrica”: “Custode e arbitro dell’ordine confederativo ‘ndranghetistico – si legge nella sentenza – è la cosca De Stefano, capeggiata da Carmine De Stefano, in ragione del proprio prestigio criminale e della forza attrattiva esercitata nei confronti di esponenti di famiglie un tempo rivali”.

Gli inquirenti – scrive il gup – hanno compiutamente dimostrato che il controllo delle attività estorsive sul centro di Reggio Calabria fosse appannaggio delle quattro cosche di ‘ndrangheta con maggiore peso specifico criminale, nello specifico si tratta delle cosche De Stefano, Tegano e Condello di Archi e della cosca Libri di Cannavò”.

In sostanza, una “dimensione unitaria della gestione del territorio”. Il risultato è un “sistema congegnato” che “non consentisse vuoti di potere così favorendo la stabilità della gestione degli affari criminali dell’organizzazione nel suo complesso”.

Regole che governano la ‘ndrangheta”, “continuità dell’operare delle cosche” e “un controllo asfissiante” degli imprenditori e dei commercianti a cui venivano imposte “le percentuali di spettanza della cosca”. Per il gip, si tratta di “una macchina ben rodata e organizzata, che in maniera corale soffoca qualsivoglia afflato di normalità dell’iniziativa economica su tutto il territorio reggino”.

Nonostante gli arresti, le operazioni antimafia e “la continua ed efficace attività repressiva posta in essere dallo Stato”, le quattro cosche “continuano a mantenere il dominio sul territorio del Mandamento di Reggio Centro”.

Su tutti ci sono gli “arcoti” che sono riusciti a mantenere “intatti forza e potere criminali”: “il gruppo De Stefano-Tegano costituisce un caso paradigmatico del ‘modello mafioso’, divenendo altissimo il livello dei mezzi utilizzati e delle finalità perseguite di controllo di ogni attività economica, istituzionale e sociale nel territorio calabrese”.

Fonte:https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2023/03/16/una-confederazione-sul-territorio-cosi-le-cosche-controllano-il-reggino/7097437/