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Una colata di cemento ci seppellirà

D’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda. A raccontare le “meraviglie” delle città toccate dai suoi viaggi, il Marco Polo di Italo Calvino che, attraversato lo sterminato Impero cinese, prova a descriverlo alla corte del sovrano: prende vita, così, tutto un mondo di forme architettoniche ma anche di persone che le animano; le città e gli uomini che le hanno costruite; le stesse relazioni umane che le abitano. Un complesso di particolari che resta invisibile allo sguardo degli altri ma che il viaggiatore percepisce, osserva e disegna con le parole.

Come il protagonista veneziano delle Città invisibili, gli autori del libro La colata — una vera e propria squadra: Ferruccio Sansa, Andrea Garibaldi, Antonio Massari, Marco Preve e Giuseppe Salvaggiulo — hanno interrogato, da Nord a Sud, l’Italia, l’ex “bel paese” di Petrarca e i suoi luoghi dell’anima.

Alla ricerca di cosa? Di una risposta, innanzi tutto: quella che un tempo portava gli uomini a progettare e, dopo, a costruire, a pensare un bisogno e, solo in seguito, ad industriarsi per soddisfarlo. Il viaggio, anzi, i viaggi dei nostri autori, tutti contenuti nelle 506 pagine del libro — scritto per i tipi di Chiarelettere e in libreria dall’11 giugno — ci consegnano paesi, regioni, coste, luoghi che quell’anima rischiano di perderla del tutto: la bellezza del territorio, ambientale ma anche umana, assomiglia sempre più a una fiammella tenue, su cui spira, fortissimo, il vento delle speculazioni edilizie, del degrado e della devastazione. Tutto invaso, coperto, spazzato via da una colata di cemento. Grigia, senza memoria né passato.

Una colata di cemento ci seppellirà, sembrano avvertire gli autori.
Ed è il messaggio-denuncia che ci consegna questo libro che, realmente, ricostruisce tutta la geografia del “pensiero unico del mattone”: regione per regione, pare che nessuno e niente si salvi, un esercito di tesserati a un partito che non teme crisi di rappresentanza, il partito del cemento, nato da una saldatura perversa tra politica e imprenditori senza scrupoli.

Le regole? La scommessa è quella di far apparire tutto legittimo, ogni operazione formalmente ineccepibile: un sistema pensato per mettere in vendita un bene comune, il territorio, allo scopo di accontentare gli interessi di pochi che si arricchiscono e di impoverire tutti noi. Una mappatura completa con nomi e cognomi di “affaristi, banchieri, cardinali, sindaci e deputati”. E di cifre messe nero su bianco: perché, come dice Ferruccio Sansa che del libro è anche il curatore, “siamo partiti da alcuni dati di fatto e ci siamo accorti che le ragioni addotte da coloro che pretendono di collegare lo sviluppo al cemento, sono tutte false”.

Tra il 1990 e il 2005 sono stati divorati 3,5 milioni di ettari, cioè una regione più grande di Lazio e Abruzzo messi insieme (la Liguria tra il 1990 e il 2005 si è mangiata quasi la metà del territorio ancora libero). Nel frattempo, credete che siano diminuiti gli italiani senza casa, le famiglie di sfrattati, il popolo dei senzatetto? Per nulla, visto che nella sola Roma ci sono ben cinquantamila persone senza una casa dove vivere e che l’Italia è il Paese europeo che investe meno nell’edilizia popolare: solo il 4 per cento sul totale, contro il 18 per cento della Francia e il 21 del Regno Unito. Non solo: da noi ci sono 20 milioni di case sfitte. Ma anche ben 5500 comuni su 8000 a rischio di dissesto idrogeologico, “eppure i soldi per il ponte di Messina ci sono e per le frane no”.

E dunque la domanda: ma il cemento conviene davvero? In altre parole: è vero che garantisce lavoro, denaro e investimenti? Ecco la risposta: “In realtà sono investimenti a tempo limitato, che utilizzano manodopera non qualificata e che, nel frattempo, si stanno letteralmente mangiando la nostra risorsa migliore, il patrimonio ambientale, il territorio e, dunque, il turismo”. Concludendo, “è più il denaro che si perde che non quello che si guadagna”.

Il viaggio dei nostri parte dalla Sardegna con l’assalto del cemento alle sue coste e l’affaire dell’ex governatore Renato Soru, sconfitto proprio dalla variegata lobby del mattone, per passare in rassegna il grande progetto della Maddalena, andato a monte dopo il terremoto di Abruzzo e la decisione di spostare il G8 a l’Aquila.

Prosegue con una visita ai non luoghi romani: i nuovi insediamenti sorti intorno al grande raccordo anulare, poveri di servizi essenziali ma che fanno tanto pendant con centri commerciali e shopping center — “satelliti privi di identità e senza storia”, li definisce uno degli autori, Andrea Garibaldi — costruiti dai grandi “capitani del cemento” romani, come i Caltagirone e i Toti, e da un parco di palazzinari a cui la politica capitolina, di volta in volta negli anni, ha strizzato l’occhio.

Intanto, denuncia Mauro Veronesi, l’esperto di territorio di Legambiente, “il Lazio è al sesto posto della classifica delle regioni definite “mangia-suolo”: in 16 anni è stato letteralmente bruciato il 18 per cento del territorio laziale, circa 225 mila ettari che fa due volte la città di Roma”. I milanesi non stanno messi meglio: il capoluogo lombardo mangia dieci ettari di terreno al giorno e la regione rischia di perdere l’ultimo polmone verde rimastole, il Parco Sud, tutta la zona delle cascine su cui ha puntato gli occhi (e non solo) il gruppo Ligresti.

Ma è l’ex governatore veneto, Galan, attuale ministro dell’Agricoltura, uno dei maggiori cementificatori degli ultimi decenni: sotto il suo governo, infatti, sono stati approvati progetti per 98 milioni di metri cubi mentre, la stessa riviera del Brenta dipinta dal Tiziano, è stata letteralmente violentata. Al degrado ambientale si aggiunge quello urbanistico: con i centri commerciali (l’80 per cento degli edifici) che sono diventati gli unici luoghi di ritrovo per i ragazzi”, racconta Sansa, “possiamo immaginare la qualità della vita sociale, una desertificazione totale”.

E scopriamo intanto che le autostrade sono la vera “passione” del centrosinistra, con il segretario del Pd, Bersani, che “fortissimamente vuole” quella che collega Mestre a Civitavecchia. Una lingua di asfalto da 10 miliardi di euro, che risolverebbe il problema della “sicurezza” ma, si interroga il solito Ferruccio Sansa: “Con quei soldi non si potrebbero mettere in sicurezza tutte le strade italiane?”.

Ed è la Curia, uno dei maggiori speculatori edilizi nelle città liguri: al centro del sistema, ci sono gli imprenditori legati al cardinal Bertone, altrimenti detti i “Tarci boys”. Nessuno sfugge agli autori che snocciolano, anche qui, nomi e cognomi di chi sta tentando di applicare un “modello miope che unisce (una volta tanto) destra e sinistra: un “nuovo corso immobiliarista, applicato con devozione”, da una Chiesa che cerca, così, di “consolarsi della crisi delle vocazioni” e sdogana il business del cemento.

E poi, ancora: la mafia del calcestruzzo siciliano, la lava di case che ha sommerso Napoli, “grottesco presepe di cemento”; i “paesi part-time” delle Alpi, con il resort sul ghiacciaio della Marmolada, la regina delle Dolomiti; l’assalto a Santa Maria di Leuca, (ex) luogo dello spirito, dove terra e mare si incontrano, abbracciati dagli ulivi secolari. E poi, c’è il capitolo dedicato a stadi e autodromi: perché “la mafia dell’oro grigio” si specializza sempre più, affinando una vocazione tutta sua — per dirla alla Camilleri — ad assumere la “forma dell’acqua”, a farsi guidare, ironia della sorte, da quello stesso territorio che finisce col deturpare.

E i cittadini? Stanno a guardare? Proprio no: dove c’è un cantiere, un progetto, una grande o piccola opera, state pur certi che molto vicino ci sarà anche un “gruppo più o meno organizzato di cittadini che protesta”. E, sullo sfondo, un fallimento della politica come capacità di amministrare il territorio e di condividerne le trasformazioni.

Nel frattempo, come biasimare quell’indignazione, quella rivolta civica che altrimenti resterebbe senza voce? Non si tratta di “poveri ambientalisti un po’ sfigati”. E neppure, per dirla con quelli che sanno parlare bene, di semplice sindrome “Nimby” (acronimo inglese per Not In My Back Yard, “Non nel mio cortile”): in tanti centri, grandi e piccoli, in Veneto, in Toscana, a Milano, l’indignazione si organizza, provocata com’è dalle speculazioni edilizie (che, dice Piovene in Viaggio in Italia, “nascono dal poco amore verso il territorio”).

Questi comitati spontanei hanno dalla loro parte anche una legge, quella del 1986 che disciplina in materia di protezione ambientale. Ma rischia di esserlo ancora per poco se passa la proposta presentata dal deputato Pdl, Michele Scandroglio e sottoscritta da ben 136 onorevoli (la lista completa è fedelmente riportata nel libro). Scandroglio ha pensato a una “bella” norma punitiva dell’attivismo civico, per combattere il temuto effetto Nimby che tanto “paralizza” l’Italia dei cantieri: se i cittadini, uniti in associazione e non, perdessero il ricorso al Tar (unica arma in loro possesso), presentato contro un ecomostro che minaccia il paesaggio, il giudice potrebbe condannarli “al risarcimento del danno oltre che alle spese giudiziarie”.

Con la scusa “di sconfiggere l’egoismo territoriale”, si minacciano in questo modo i cittadini che volessero agire in giudizio per la tutela dei propri diritti, privandoli della tutela sancita dall’articolo 24 della nostra Costituzione. Tutela a cui i poteri forti sbarrano il passo, facendo quadrato e armando il braccio di Scandroglio, “l’uomo più amato dai grandi costruttori”, fedelissimo di Claudio Scajola. Intanto, per riposarsi dalle fatiche parlamentari, Scandroglio si diletta con facebook, dove riporta questa riflessione che fa subito il giro del web: lui pensa “ad una bella spiaggia, con sole e tante belle signorine che mi fanno vento e mi illuminano la vista perchè fare il parlamentare è troppo pesante per il mio fisico”. E se i frutti del suo lavoro sono questi, davvero ne faremmo tutti volentieri a meno.

Opzione zero cemento. È questo l’happy end o, meglio, l’indicazione di un orizzonte possibile con cui si conclude il viaggio dei nostri autori: non la morte dell’edilizia ma il recupero del territorio. Che vuol dire basta all’urbanizzazione selvaggia, alla moltiplicazione di nuove costruzioni del tutto slegata da un’istanza di giustizia sociale, ma l’utilizzo intelligente di quello che già esiste e può essere convertito in servizi ai cittadini. Perché, come spiega bene Mauro Veronesi, “la città non può essere un valore di scambio ma è un valore d’uso” e per questo “occorre riscoprirla, anche come luogo della contemplazione”.

(Tratto da Chiarelettere)