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Un convegno ieri a Fondi che ha riscosso commenti enstusiastici in tutta Italia. L’antimafia dei fatti contro quella delle parole. Si è entrati nel vivo dei problemi reali della lotta alle mafie

Dentro l’antica sala del Castello Baronale di Fondi, gremita di volontari, uomini delle scorte e gente comune, quattro ore di serrato confronto, ieri, fra alcuni grandi nomi dell’Antimafia nazionale, per l’incontro promosso dall’Associazione Antimafia Antonino Caponnetto e il mensile La Voce delle Voci. Un luogo-simbolo, Fondi – ha detto in apertura il segretario della Caponnetto Elvio Di Cesare – perché è proprio dalle connection malavitose intorno al grande mercato ortofrutticolo che quindici anni fa è partita l’attività di denuncia dell’Associazione, andata avanti nonostante il persistente negazionismo delle istituzioni e le tante intimidazioni, subite anche da parte di chi per primo avrebbe avuto il dovere di accertare le responsabilità e bonificare, prima che fosse troppo tardi, il territorio del Sud Pontino, ormai infestato dalla criminalità organizzata.
Sulla stessa lunghezza d’onda il saluto accorato di Bruno Fiore, militante storico della Caponnetto e dell’antimafia locale, che ricorda lo scontro tuttora in atto fra chi si espone quotidianamente a ritorsioni, per collaborare con gli inquirenti nella indispensabile opera di ripristino della legalità, e i tanti che additano tali iniziative come “discredito” della propria terra, così contribuendo ad innalzare quel muro di omertà diffuse dietro il quale sono andati avanti per vent’anni gli affari delle mafie sul territorio di Fondi e ben oltre.
La storia de La Voce delle Voci, il mensile anticamorra chiuso “per mano di legge” da una assurda sentenza della magistratura civile di Sulmona, è stato al centro dell’appassionato intervento del direttore, Andrea Cinquegrani, vicesegretario della Caponnetto ed autore di inchieste che, nero su bianco, fin dagli anni ’90 avevano indicato con nomi e cognomi i personaggi di elevato spessore criminale responsabili dell’avvelenamento dei suoli e della vita democratica, dalla Campania al Lazio, fino a tutto il resto della penisola. Uomini e intrecci istituzionali che, dopo oltre vent’anni di impunità, solo adesso compaiono alla ribalta delle cronache, mentre su territori come la Terra dei Fuochi si contano ogni giorno i morti, anche tra i bambini.
Subito sotto i riflettori di un parterre attento, ma disincantato, il ruolo della Commissione Parlamentare Antimafia, tema affrontato di petto dal suo vicepresidente Claudio Fava. Saremo presto a Latina, ha annunciato Fava, senza nascondersi le difficoltà di contrastare sistemi mafiosi che arrivano a dare lavoro anche attraverso le istituzioni, come è emerso di recente al Comune di Reggio Calabria, prima amministrazione di città capoluogo sciolta per mafia, dove nei ranghi del personale restano non solo parenti, ma anche affiliati alle cosche locali, “regolarmente” assunti prima dell’arrivo dei commissari. Su oltre 1.200 aziende confiscate alle mafie solo 28 sono tuttora in attività: per questo – ha aggiunto Fava anticipando quello che sta diventando un tema centrale nell’attività della Commissione – lo Stato dovrà d’ora in poi assumere su di sé la gestione dei beni confiscati. Ed ha mostrato come esempio il recentissimo protocollo sottoscritto in tal senso al Tribunale di Roma.
La verità – ha tuonato il pm della DDA partenopea Cesare Sirignano – è che il nostro Paese, a differenza di qualsiasi altro territorio d’Europa, è caratterizzato da un tasso di criminalità politico-mafiosa che non ha precedenti e non ha uguali in nessuna parte del mondo. Però l’apparato legislativo è lento o indifferente rispetto ai fattori chiave di questa pervasività criminale, che sono la corruzione e l’autoriciclaggio, su cui si annunciano di continuo leggi che puntualmente restano al palo, o monche, prive di reale incisività. Come pretendiamo – ha incalzato Sirignano – di conquistare autorevolezza rispetto ai partner europei, se lasciamo
totalmente sotto il controllo delle mafie quattro regioni del Paese, se impieghiamo anche otto anni per confiscare un bene, se permettiamo che finiscano in prescrizione i processi per reati come la corruzione?
Del resto, ha sottolineato il procuratore aggiunto di Latina Nunzia D’Elia, ci sono voluti vent’anni per concludere in primo grado il processo alla criminalità operante sul territorio fin dagli anni ’90. E che si trattasse di fenomeni tutt’altro che sconosciuti – ha sottolineato – lo dimostrava già la relazione Chiaromonte della Commissione Parlamentare Antimafia nel 1991, che indicava i diversi clan presenti nel Sud Pontino, fino al polo industriale di Aprilia. Eppure – è stata l’amara conclusione del procuratore D’Elia – nemmeno dopo i primi arresti abbiamo registrato la forte reazione della società civile che ci aspettavamo, e l’intero procedimento è andato avanti senza neppure la denuncia di un privato.
Per la Direzione Distrettuale Antimafia competente sul territorio, quella di Roma, è intervenuto il sostituto procuratore Paolo Ielo, secondo il quale la marcata ibridazione delle forme di attività mafiosa, la loro mutevole trasformazione anche di tipo tecnologico, comportano come conseguenza il fatto che talvolta sfuggano all’osservazione degli inquirenti, specialmente nelle Procure locali, dove non esistono sezioni specializzate per questo tipo di insidiosi crimini.
Su tutto, dall’alto della lunga esperienza prima come pretore d’assalto in Calabria, poi da oltre 25 anni in Cassazione, il giudice Bruno Spagna Musso ha posto l’accento sulle complicità diffuse nel rapporto tra mafia e Stato, come dimostra da ultimo la mancata nomina da parte del Csm del Procuratore capo a Palermo, quasi che non si trattasse di un incarico della massima rilevanza ed urgenza per l’intero Paese. Ancora, il giudice Spagna Musso non ha mancato di ricordare i ritardi nel processo sulla trattativa Stato-mafia ed i procedimenti disciplinari cui si è trovato sottoposto qualcuno fra coloro che avevano cercato di portare avanti il procedimento.
Condotti dalla giornalista de La Voce delle Voci Rita Pennarola, volontaria della Caponnetto, e punteggiati dagli interventi del direttore del Quotidiano Latina, Alessandro Panigutti, i lavori sono andati avanti con la relazione di Renato Chicoli, capocentro della Dia di Roma, il quale, dopo aver ricordato la sua precedente esperienza antimafia in un territorio come Padova, fino ad allora non sospetto di criminalità organizzata, poi clamorosamente venuta alla luce, si è soffermato sulle difficoltà nell’azione di indagine e contrasto derivanti, ad esempio, dal vastissimo ambito di competenza della Dia della capitale, che si estende fino a Marche e Sardegna, senza contare fenomeni come le attività dei Tribunali Amministrativi Regionali, che talvolta annullano l’efficacia ostativa delle interdittive antimafia a carico di imprese riconducibili alla criminalità organizzata.
A conclusione dei lavori, l’emozione della testimonianza diretta di un giovane imprenditore del litorale romano che, dopo aver denunciato le estorsioni subite da parte dei clan, sconta oggi i pesanti ritardi del sistema penale, ed attende da tempo che sia fatta giustizia. La sua esperienza è stata raccolta e commentata da Gaetano Pascale, lunghi anni di servizio in Polizia per contrastare l’avanzata del crimine organizzato sulle coste laziali, ed oggi autore del libro dal provocatorio titolo “la camorra non esiste”.