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Trent’anni dopo l’omicidio di Antonino Scopelliti: verità ancora in attesa

Trent’anni dopo l’omicidio di Antonino Scopelliti: verità ancora in attesa

Luca Grossi 09 Agosto 2021

Il pentito Ubaldo Lauro: “Nell’omicidio c’era la mafia Calabrese e Siciliana”

Un omicidio senza volti, senza colpevoli, esecutori o mandanti. Il 9 agosto 1991, ore 17.20, il giudice calabrese Antonino Scopelliti, all’epoca sostituto procuratore generale della Cassazione, stava tornando a casa dopo aver trascorso qualche ora al Lido Gabbiano di Favazzina. Viaggiava da solo, senza scorta. Ad un tratto, tra Campo Calabro e Villa San Giovanni, la sua Bmw è stata affiancata di una moto. I killer (almeno due) hanno sparato con fucili calibro 12, caricati a pallettoni. Due colpi hanno raggiunto il giudice alla testa e l’auto ormai fuori controllo finisce fuori strada, in un vigneto.
Dopo l’agguato una telefonata anonima avverte la polizia di Villa San Giovanni, la quale arrivata sul posto, ha creduto in un primo momento di trovarsi di fronte ad un classico incidente stradale, ma dopo aver scoperto i fori sul corpo senza vita del magistrato tutto diventa più chiaro: Scopelliti è stato ucciso.
Del suo omicidio ne aveva parlato anche il magistrato
Giovanni Falcone, in un articolo su “La Stampa”, spiegando che: “L’eliminazione di Scopelliti è avvenuta quando ormai la suprema corte di Cassazione era stata investita dalla trattazione del maxiprocesso alla mafia palermitana e ciò non può essere senza significato”. “Anche se, infatti, l’uccisione del magistrato non fosse stata direttamente collegata alla celebrazione del maxiprocesso davanti alla suprema corte – scriveva sempre in quell’articolo – non ne avrebbe comunque potuto prescindere, nel senso che non poteva non essere evidente che l’uccisione avrebbe pesantemente influenzato il clima dello svolgimento in quella sede”. Per l’assassinio di Scopelliti sono finiti a processo i vertici della “cupola”. Boss del calibro di Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò, Bernardo Brusca, Nitto Santapaola e i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano. Tuttavia sono stati tutti assolti in via definitiva dall’accusa di avere svolto un ruolo nell’assassinio dell’alto magistrato, tanto che ancora oggi il delitto è senza colpevoli. Al di là di ciò, è possibile che l’omicidio – tra l’altro eseguito in terra di ‘Ndrangheta – rientrava in un piano unitario? Ossia che era al centro di una convergenza di interessi tra Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e poteri ad esse collegati?
Possibile.
Giacomo Ubaldo Lauro, uno dei primi collaboratori nella storia della ‘Ndrangheta ha raccontato come quell’omicidio aveva portato ad una “pace che pace non è” grazie ad un intervento “non solo della ‘Ndrangheta calabrese ma anche della mafia siciliana e del crimine organizzato canadese legato ai calabresi”.
Inoltre, le motivazioni della sentenza di primo grado del processo ‘Ndrangheta stragista (attualmente in corso in Appello dal 6 luglio), con cui sono stati condannati all’ergastolo il boss di Brancaccio
 Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, spiegano che durante la stagione stragista l’appoggio della ‘Ndrangheta a Cosa Nostra non era ipotetico, ma concreto. Era effettivamente “cosa” di tutte le mafie. Senza contare che molte ipotesi investigative insistono sul fatto che la stagione stragista non era iniziata con la Strage di Capaci ma proprio con l’omicidio del giudice Scopelliti.
Nel 2019 il Procuratore aggiunto di Reggio Calabria
Giuseppe Lombardo in merito all’omicidio del giudice ha iscritto sul registro degli indagati 17 persone, tra cui anche dei calabresi: Giuseppe Piromalli, Giovanni e Paquale Tegano, Antonino Pesce, Giorgio De Stefano, Vincenzo Zito, Pasquale e Vincenzo Bertuca, Santo Araniti e Gino Molinetti oltre altri due elementi della componente riservata dei clan calabresi, l’unica in grado di discutere con i “cugini siciliani” un affare delicato come l’omicidio di un magistrato. Inoltre sempre nel 2019 il Procuratore Capo di Reggio Calabria aveva fatto fare degli accertamenti su un arma che secondo il chiacchierato collaboratore di giustizia Maurizio Avola, sarebbe quella che ha ucciso il giudice.
Avola, di fronte ai pm aveva puntato il dito anche contro l’europarlamentare democristiano
Salvo Lima, “fu lui a darci le indicazioni sulle abitudini del giudice” e contro il superlatitante di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro, che “era uno dei killer del commando”.
Ma col pentito i magistrati hanno deciso di andarci con i piedi di piombo per via delle numerose falle nei suoi racconti, come quel braccio rotto che rendeva impossibile la sua partecipazione da protagonista alla strage di via d’Amelio.
Avola ha mentito anche su Scopelliti? O, com’è spesso accaduto nella storia dei depistaggi italiani, c’è un po’ di verità mescolata con molta menzogna?
La speranza è che le nuove indagini possano finalmente chiarire, non solo il contesto di quell’omicidio, dando un volto agli esecutori materiali, ma anche stabilire se dietro quell’attentato, come nell’intera strategia stragista, vi potevano essere anche interessi esterni. Una speranza che
Rosanna Scopelliti, figlia del giudice, ha ribadito più volte: “Ucciso dopo aver rifiutato una cifra immensa. Ucciso per aver fatto il suo lavoro con la competenza che lo contraddistingueva. Ucciso lasciando a noi, a me bambina, un insegnamento difficile da comprendere pienamente: il rispetto per la propria dignità. Una dignità che non è in vendita”. E poi ancora: “Sulla morte di mio padre c’è una verità che deve ancora essere raccontata tutta e fino in fondo. Ma noi abbiamo pazienza. Non permetterò mai che si dica che le istituzioni hanno fallito o che i magistrati non fanno il loro lavoro. Io ho fiducia, in questo Stato, in questa magistratura, in queste istituzioni, perché me lo ha insegnato mio padre che non ha mai smesso di crederci. Lui da magistrato sapeva perfettamente che cos’è un’indagine e quanto impegno ci vuole per arrivare ad una verità importante”.

Fonte:https://www.antimafiaduemila.com/home/mafie-news/228-cosa-nostra/85281-trent-anni-dopo-l-omicidio-di-antonino-scopelliti-verita-ancora-in-attesa.html