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Trent’anni di sangue e violenza: Foggia è rimasta un “banco di prova”

Il Fatto Quotidiano

Trent’anni di sangue e violenza: Foggia è rimasta un “banco di prova”

La “Società foggiana” nacque come articolazione della Sacra Corona Unita, ma divenne presto un’organizzazione indipendente. Nonostante inchieste e atti parlamentari, lo Stato non è riuscito a porre fine alla striscia di sangue che ancora oggi intimidisce tutta la provincia

di Francesco Casula | 5 NOVEMBRE 2020

Non bastano le pur importanti visite di esponenti delle istituzioni per stroncare quel che si è lasciato crescere negli anni”, ma “occorre invece, per riuscirvi, un impegno corale e sistematico, ormai necessariamente di lungo periodo. Foggia non è solo una metafora, Foggia è un banco di prova”. Così la commissione parlamentare antimafia presieduta da Rosy Bindi ha chiuso a febbraio 2018 il capitolo dedicato alla “Società foggiana” la federazione di clan che opera nella provincia a nord della Puglia. Omicidi, attentati, estorsioni. I clan foggiani rappresentano in Italia l’ultimo esempio di mafia predatoria: violenza e omertà sono gli elementi su cui basano il proliferare degli affari. Una battaglia nella quale, come dimostra l’operazione “Grande Carro” messa a segno a ottobre scorso dai carabinieri del Ros di Bari, lo Stato italiano continua a combattere. Una guerra iniziata sul finire degli anni 70 ed evidentemente non è ancora conclusa.

La storia criminale, infatti, racconta che la Società foggiana nasce come articolazione della Sacra Corona Unita, la quarta mafia fondata dal mesagnese Pino Rogoli per contrapporsi alla colonizzazione della Puglia avviata dalla Nuova Camorra organizzata di Raffaele Cutolo. Nella cella di Rogoli, gli investigatori ritrovano lo statuto manoscritto della Scu “fondata da G.R. il 1° maggio 1983 e con l’aiuto dei compari diritti”. Tra questi ultimi cofondatori c’è anche Giosuè Rizzi, il “papa di Foggia”. È a lui che Rogoli affida la conduzione del foggiano, con piena autonomia e senza alcun obbligo verso lo stesso fondatore. Ma quel legame durerà poco. Questa è infatti la principale differenza delle mafie pugliesi rispetto alle organizzazioni siciliane e campane: ogni clan opera in un territorio circoscritto senza alcuna struttura superiore. Una sorta di federazione pugliese che pur tenendo in contatto alcuni gruppi, prevede che le associazioni mafiose gestiscano liberamente gli affari. E anche nella stessa provincia di Foggia, storicamente, è nota l’esistenza di tre principali gruppi criminali.

Il primo, come si legge negli atti parlamentari, opera a Foggia e nei comuni del centro-nord della provincia ed è indicata proprio con il nome di “società”. È strutturata in “batterie” e ciascuna fa riferimento a un suo boss. La seconda organizzazione, “Piarulli-Mastrangelo-Ferraro”, opera principalmente a Cerignola e nei comuni a sud della Daunia ed è indicata come una struttura verticistica e organizzata su due livelli: “i grandi” e “i piccoli”. Al suo interno, infine, è ulteriormente suddivisa in “squadre”, stanziate principalmente a Cerignola, che gestiscono le attività illecite, in particolare il traffico di sostanze stupefacenti. La terza e ultima organizzazione foggiana è conosciuta come il “clan dei Montanari” che domina l’area del Gargano. Tra le principali batterie dei montanari la storia giudiziaria ha individuato le famiglie Li Bergolis di Monte Sant’Angelo, e Romito egemoni sui territori di Monte Sant’Angelo e Manfredonia, e poi la famiglia Ciavarrella che opera sulla zona di Sannicandro Garganico.

La storia della mafia foggiana è un continuo susseguirsi di omicidi e violenze. Una striscia di sangue che a seconda dei rapporti tra gruppi diventa più o meno robusta, ma non si interrompe mai. Una “conflittualità endemica”, scrive la magistratura in una delle numerose inchieste che hanno colpito la criminalità dauna, che è diventata “una delle specifiche peculiarità del modo di essere di questo sodalizio mafioso”. Insomma, se nel resto d’Italia la mafia diventa sempre più silente, a Foggia continua a farsi sentire a suon di agguati e attentati. E anche se nel corso degli anni le inchieste hanno dimostrato il salto verso un livello “criminal-imprenditoriale”, i boss e i picciotti foggiani non hanno mai abbandonato la strada dell’intimidazione e della violenza. Lo sanno bene commercianti e imprenditori costretti a pagare il pizzo ogni mese. Lo pagano tutti a Foggia perché le bombe e gli incendi non smettono di ricordare qual è la posta in gioco. Lo ricorda l’omicidio brutale di Giovanni Panunzio, imprenditore che rifiutò le richieste del clan e fu tragicamente ucciso nel 1991. Una ferocia che si manifesta con “vendette e punizioni – scrive la commissione – mutuate dalle più arcaiche comunità agricolo-pastorali e dal modello della camorra cutoliana”. Come la strage del Bacardi del 1986 o la strage di San Marco in Lamis del 2017. Oltre 30 anni di sangue, a riprova del fatto che Foggia continua a essere un banco di prova.