La sentenza parla di «accertati intrecci che negli anni si sono dipanati tra organizzazioni criminali e ambienti massonici e politici»
Pubblicato il: 01/03/2024 – 20:30
REGGIO CALABRIA La ‘ndrangheta e Cosa nostra come un unico corpo, «una cosa sola». Ad unirle «un’evidente convergenza o commistione di interessi che mirava al comune intento di destabilizzare lo Stato e sostituire la vecchia classe dirigente che, agli occhi dei predetti, non aveva soddisfatto i loro “desiderata”». E’ quanto scrivono i giudici della Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria nelle 1400 pagine della sentenza “‘Ndrangheta stragista”, che lo scorso anno ha confermato l’ergastolo per Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, il boss di Brancaccio e l’esponente della cosca Piromalli di Gioia Tauro, già condannati in primo grado per l’uccisione dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, trucidati il 18 gennaio 1994 in un agguato avvenuto sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria nei pressi dello svincolo di Scilla. La sentenza della Corte d’assise d’appello ha confermato le richieste della Dda di Reggio Calabria, guidata dal procuratore Giovanni Bombardieri e, in particolare, le risultanze dell’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo che, insieme all’aggiunto Walter Ignazitto, ha rappresentato l’accusa anche nel processo di secondo grado.
I legami tra ‘ndrangheta e Cosa nostra e il ruolo di Graviano e Filippone
La sentenza parla di «accertati intrecci che negli anni si sono dipanati tra organizzazioni criminali e ambienti massonici e politici». Rapporti tra ‘ndrangheta e Cosa nostra «tema centrale», – per i giudici – necessario per apprezzare il contesto nel quale sono maturati i fatti in esame, che è «costituito dagli accertati, risalenti, numerosissimi rapporti coltivati nell’arco di decenni dalle due organizzazioni criminali, concretizzatisi nello scambio di favori sia in ambito di traffici di armi e droga che in contesti maggiormente espressivi di potere criminale, che hanno definitivamente cementato gli obiettivi comuni delle stesse, tesi a condizionare e piegare la stessa vita dello Stato ai loro desiderata e ad insinuarsi nelle strutture istituzionali, occupando le stesse». «Altro esito indubbio – scrivono i giudici – che il presente giudizio ha consegnato è costituito dagli accertati intrecci che negli anni si sono dipanati tra organizzazioni criminali e ambienti massonici e politici, in una evidente convergenza e commistione di interessi che mirava al comune intento di destabilizzare lo Stato e sostituire la vecchia classe dirigente che, agli occhi dei predetti, non aveva soddisfatto i loro “desiderata”». L’organizzazione criminale calabrese, secondo la Procura reggina, «agì, attraverso le sue componenti apicali, d’intesa con quella siciliana» segnando per sempre la storia d’Italia con la strategia stragista. Secondo l’accusa un doppio filo legava alcuni esponenti di spicco di ‘ndrangheta e Cosa nostra. «Un legame strettissimo con l’organizzazione criminale siciliana di cui Graviano è protagonista» rappresentato anche da quelle che il collaboratore di giustizia Girolamo Bruzzese ha definito «doppie affiliazioni», con riferimento a «Paolo De Stefano, Peppe e Mommo Piromalli, Nino Pesce, Pino Mammoliti, Luigi Mancuso, Pino Piromalli, Nino Molè, Nino Gangemi, qualcuno degli Alvaro». «Questi soggetti – aveva raccontato Bruzzese nel corso della sua testimonianza – avevano un ruolo di vertice apicale anche nella mafia». «La forza dei Piromalli e dei De Stefano scaturisce dalla vittoria della prima guerra di ‘ndrangheta, del 1974, a Reggio Calabria, contro il boss Mico Tripodo, e trasformano la ‘ndrangheta in quel mostro criminale che è oggi. In tal senso esistono riscontri non solo fattuali, ma storici e logici», come sottolineato dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo durante la requisitoria. E c’è un momento in cui la strategia organizzativa della ‘ndrangheta cambia «a seguito del summit di Montalto, in Aspromonte, dell’autunno del 1969, nominando persone di strettissima fiducia al posto loro». Entra dunque in gioco, secondo Lombardo, la figura di Rocco Santo Filippone, che diventa «l’anello di congiunzione tra sodalizi ed esecutori materiali, il perno attorno a cui ruota la strategia stragista».
Quello contestato al boss di Brancaccio e all’esponente della cosca Piromalli è un agguato rientrante nelle cosiddette “stragi continentali” che hanno insanguinato l’Italia all’inizio degli anni Novanta.
Gli intrecci con la politica
A proposito di politica, nella sentenza i giudici scrivono anche che «con tutta evidenza Cosa Nostra e la ‘ndrangheta si interessarono al nuovo partito di Forza Italia, per come dichiarato da numerosi collaboratori. «La strategia stragista serviva per andare a soddisfare una serie di esigenze», aveva spiegato ancora il procuratore Lombardo riferendosi agli intrecci emersi secondo l’accusa, nel corso delle indagini e del processo in primo grado, tra associazione criminale e politica. Per i giudici «emerge come Cosa Nostra avesse deciso di creare un movimento autonomista, al pari di quanto accadeva nel resto del Sud Italia, ma che in seguito tale progetto era stato abbandonato in favore dell’appoggio al nascente partito di Forza Italia, con alcuni dei cui esponenti i siciliani avevano avviato contatti, tant’è che le stragi cessarono nel corso dell’anno 1994, sussistendo l’aspettativa che il nuovo soggetto politico avrebbe “aiutato” le organizzazioni criminali che l’avevano elettoralmente sostenuto». (m.r.)