Cerca

Tirana connection: così la mafia albanese mette le mani su Roma e sui porti d’Europa

Da picchiatori e killer a disposizione della criminalità organizzata a boss del narcotraffico

FRANCESCA FAGNANI – La Stampa

24 Dicembre 2023 alle 01:00

In principio era carne da macello, solo manovalanza, poi sono saliti di rango e sono diventati per tutti i “pugilatori”, dopo si sono fatti “banda”, fino a dare la scalata a tutte le altre organizzazioni criminali, tranne che alla ’ndrangheta: oggi quella albanese è una mafia potente, feroce e abile che ha fatto fortuna nelle periferie di Roma e da qui si è espansa in tutti i porti che contano in nord Italia, ma soprattutto in nord Europa.

Subordinati solo ai calabresi, gli albanesi in poco più di dieci anni sono cresciuti in modo esponenziale, da semplice agenzia del crimine che forniva alle altre consorterie armi e uomini per i lavori sporchi, picchiatori e killer soprattutto, sono diventati in poco tempo i grandi manovratori del narcotraffico italiano ed europeo, trattando direttamente con i più importanti cartelli della droga, specializzandosi nella logistica del trasporto dello stupefacente, garantendone la consegna dai container delle navi direttamente alle piazze di spaccio e arrivando, addirittura, a farsi produttori diretti di piantagioni di coca in Ecuador e Perù. La marijuana invece la coltivano già da tempo. Qual è la loro forza criminale, in cosa consiste la loro diversità? La ferocia e l’uso spregiudicato della violenza associati ad una grande affidabilità, che a Roma non è scontata nemmeno tra i delinquenti. Per capire come hanno conquistato in poco tempo la Spagna, l’Olanda e l’Inghilterra bisogna però fare un salto indietro di qualche anno, ad Acilia, una zona popolare a sud Roma, in direzione del mare, dove si è insediato un gruppo di albanesi, i quali hanno capito subito come si sta al mondo in certi ambienti e soprattutto in questa città: la guerra non conviene mai, ci si deve alleare senza pestare i piedi a nessuno, tanto c’è il tempo per crescere e lo spazio per mangiare tutti e bene; gli albanesi da subito infatti si sono messi al servizio dei pezzi da novanta della mala romana e delle grandi famiglie mafiose: i Guarnera di Acilia, legati ai casalesi, il clan camorristico dei Senese e le famiglie di ‘ndragheta, i Bellocco su tutti. Del resto, l’élite criminale fa sì che le mani se le sporchino gli altri e gli albanesi a far questo erano bravissimi, gli si poteva chiedere infatti veramente di tutto: far arrivare armi dai Balcani, così tante da fare una guerra, trasportare carichi di droga dall’Olanda a Roma nel doppiofondo delle macchine così come massacrare di botte qualcuno o sparargli in testa, senza mai sbagliare un colpo, sempre pronti ad esporsi a rischi che per molti altri criminali non era conveniente correre e nemmeno serviva farlo perché c’era già chi pagando lo faceva per loro. Per di più, il loro status di apolidi a Roma gli consentiva di non avere legami particolari con il territorio e dunque di poter stare con tutti, senza appartenere a nessuno.

Sandro Guarnera, esponente dell’omonimo clan di Acilia, intercettato mentre parlava con un suo sodale – nell’ambito dell’operazione del Gico della Guardia di Finanza denominata Criminal Games – faceva il confronto tra due albanesi che lavoravano per lui, Orial Kolaj e Elvis Demce, interrogandosi su quale dei due fosse il più pericoloso: «Elvis ha portato via un occhio ad una persona, non lo so se Orial riesce», dice e l’altro risponde, «Orial è una macchina da guerra! Orial davvero gli devi sparare per fermarlo». Orial Kolaj è un pugile albanese che ha ottenuto la cittadinanza italiana dal 2012, più volte campione italiano e della Comunità europea nella categoria dei pesi mediomassimi, attivo nella batteria degli albanesi di Acilia, ma anche in quella di Ponte Milvio, guidata da Fabrizio Piscitelli, per tutti Diabolik, il leader degli ultrà della Lazio, ucciso il 7 agosto del 2019 in un parco pubblico. Elvis Demce, sebbene in grado di cavare a mani nude un occhio ad un rivale, non era ancora un capo, ma lo sarebbe diventato presto e tra i più spietati; Demce che si autodefinisce Spartaco, ora è in carcere, arrestato dal Nucleo investigativo dei Carabinieri di via In Selci mentre progettava insieme al suo alleato Alessandro Corvesi, ex giocatore nella Primavera della SS Lazio, un attentato – da realizzare eventualmente con un fucile da guerra per arginare l’ostacolo rappresentato dalla scorta – ad un magistrato, il pm Francesco Cascini, colpevole di aver condotto alcune indagini che li riguardavano. I carabinieri del Nucleo riescono ad arrestarlo in tempo e alla vigilia di una sanguinosa faida, iniziata con il ritrovamento del cadavere bruciato in macchina di Cristian di Lauro, uomo di Ermal Arapaj, un altro albanese rivale di Demce e che aveva preso il suo posto nelle piazze di spaccio, mentre lui era detenuto. Poi quando era uscito aveva proclamato: “È uscito l’Isis”, dichiarando guerra a chiunque ostacolasse le sue megalomani mire espansionistiche, ambizioni che però ultimamente in carcere qualcuno deve avergli fatto ridimensionare, in un modo o nell’altro, ma comunque senza andare troppo per il sottile, secondo quanto riferiscono alcune voci da dentro il carcere, che spiegherebbero anche il suo trasferimento in un altro istituto penitenziario.

Il pioniere della mafia albanese a Roma però è Arben Zogu, detto Riccardino, considerato oggi una figura apicale del crimine transnazionale, la cui ascesa parte, come si diceva, da Acilia, insieme al clan Guarnera, di cui era il braccio violento, utilizzato per imporre nel mercato romano le slot machines, per poi allargarsi progressivamente al recupero crediti e al narcotraffico, in tutta la città, intessendo legami con la mala che contava, tra cui ovviamente i Senese e Fabrizio Piscitelli, per cui anche Zogu lavorava, frequentando, come molti altri albanesi, la curva nord della Lazio. Ma i veri gradi criminali, Riccardino li prende in carcere ad Avellino, dove ottiene la stima e il rispetto di Rocco Bellocco, dell’omonimo potentissimo clan di Rosarno, che lo fa sedere ai tavoli giusti e lo accredita presso le altre famiglie della Piana di Gioia Tauro. Per Zogu e per i suoi è il salto definitivo nella serie A del crimine.

Gli albanesi non sono più “i pugilatori” chiamati a sparare o a spezzare ossa, quando va meglio alla vittima, ma sono diventati affidabili broker della droga, fornitori di cocaina, hashish e marijuana, che importano direttamente e senza alcuna mediazione. Con la ’ndrangheta del resto l’incastro è perfetto: i calabresi garantiscono l’arrivo del narcotico nei porti e gli albanesi lo fanno uscire in sicurezza e ne assicurano la consegna, i primi controllano i redditizi porti del sud d’Italia, i secondi si sono presi quelli nel nord Europa, Amburgo, Rotterdam, Anversa, Valencia, ma con un piede anche in quelli di Civitavecchia, Livorno e Genova. In più, gli albanesi possono contare su una squadra di abilissimi “esfiltratori”, dei veri e propri acrobati che scavalcano muri, entrano nei porti e con l’aiuto dei basisti fanno uscire la droga dai container per portarla a destinazione. Il legame della mafia albanese con la ’ndrangheta è prioritariamente legato ad interessi economici, ma non è solo questo, entrambi rispondono infatti ad un codice che ha regole comuni, a partire dal legame di sangue e dall’omertà, infatti non esistono pentiti. Gli albanesi lo chiamano “besa” e significa “onore” ed è considerato un contratto indissolubile che si scioglie solo con la morte.

Nel 2015 Arben Zogu viene arrestato, sebbene oggi sia libero di muoversi e trafficare in tutta Europa, con il solo divieto di entrare in Italia per dieci anni, che non è poi un gran limite agli affari, visto che gli albanesi possono contare su raffinatissimi sistemi criptati di comunicazione che gli investigatori non riescono a bucare in nessun modo, come per esempio la piattaforma K-line.

L’arresto di Zogu aveva spalancato le porte ai suoi successori, a cominciare dal luogotenente più fidato, suo cugino Dorian Petoku, inserito anche lui nel gruppo di Diabolik con il quale, a dimostrazione del valore criminale e del peso acquisito, partecipa ad un pranzo a Grottaferrata, insieme ad un altro boss, Salvatore Casamonica per organizzare un trasporto di quasi 7 tonnellate di coca purissima dalla Colombia. In quell’incontro Casamonica e Piscitelli suggellano una pax mafiosa che riguarda lo scacchiere di Ostia, facendosi garanti ognuno di una parte e Dorian Petoku è lì ad assistere, al pari degli altri boss. Peccato che seduto a quel tavolo ci fosse pure “il francese”, un infiltrato sotto copertura del Gico, che registra tutto con un microfono nascosto nel tacco della scarpa. Dorian Petoku, coinvolto in diverse inchieste tra cui “Grande Raccordo criminale”, viene arrestato in Albania nel 2019, ma le autorità italiane riescono ad ottenere la sua estradizione solo dopo due anni di tira e molla con quelle albanesi. Arrivato finalmente qui, dopo un anno di carcere, il tribunale decide di credere ai suoi certificati medici che ne consigliano il trasferimento in una comunità terapeutica, nonostante il netto parere contrario della Procura di Roma. Petoku viene così trasferito prima a Morlupo e poi a Nola, da dove non solo ha continuato ad impartire ordini e direttive, circondato da vecchie conoscenze anche loro casualmente presenti nella stessa comunità, ma l’8 dicembre scorso è evaso, togliendosi il braccialetto elettronico. Voilà.

Una fuga significativa, che forse trova la sua spiegazione in un evento che sta terremotando la mala romana e non solo: dopo anni di silenzio e di clima omertoso, infatti, un pescecane del narcotraffico ha deciso di collaborare, riempiendo pagine di verbali. Si tratta di Fabrizio Capogna, che sta raccontando ai magistrati e alle forze dell’ordine il sistema ai vertici del narcotraffico, gestito da pesi da novanta della criminalità romana come Peppe Molisso e Leandro Piscitelli e da altre figure apicali della mafia albanese, come Lolli da una parte e Renato e Aldo dall’altra, che non si trovano più in Italia (ovviamente), ma che comunque sarebbero stati identificati dagli investigatori.

Fabrizio Capogna dai primi di novembre non ha più smesso di parlare e di fare nomi, le trascrizioni dei suoi interrogatori sono piene di omissis, ma per quello che è dato sapere acquistava dall’albanese Lolli fino 120 kg di coca al mese, in un giro vorticoso di denaro, milioni di euro, finché qualcuno più forte di lui e di Lolli ha deciso che gli equilibri dovevano essere rivisti, magari con una k-47 puntata in faccia: «Guarda non ce l’abbiamo con te – gli dice l’albanese Aldo, presenti Renato e Leandro Bennato – ma ce l’abbiamo con chi te la dà la roba…con chi ci ha fatto lo scavalco». Roma trema e Petoku intanto scappa.

Dei Casamonica si è presa coscienza quando il funerale del capostipite Vittorio, con il corteo scortato dai vigili, i cavalli neri, l’elicottero che lanciava petali con la colonna sonora del Padrino ha indignato il Paese; per renderci conto della pericolosità e pervasività della mafia albanese, invece, cosa serve ancora? A quante altre false e compiacenti perizie mediche (prassi molto in voga a Roma) si dovrà credere per poi veder fuggire chi è stato arrestato dopo complicate e delicate inchieste? «Questi sono cresciuti nella guerra – diceva intercettato Franco Crispoldi, un malavitoso di Acilia, parlando degli albanesi – sono una bomba atomica, sono capaci di fare tutto, non c’hanno paura di niente». Sono passati dieci anni da allora, Crispoldi aveva capito prima di altri quello che sarebbe accaduto dopo.

Fonte:https://www.lastampa.it/esteri/2023/12/24/news/tirana_connection_inchiesta_mafia_albanese_roma_europa-13953218/?ref=LSHAT-BH-P1-S5-T1