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Stragi, omicidi e collaboratori: la storia di Filippo Barreca

AMDuemila 

14 Ottobre 2023

Riproponiamo questo importante articolo di Simona Zecchi sul pentito di ‘Ndrangheta Filippo Barreca. L’ex boss reggino iniziò a collaborare con lo Stato nel 1992, “senza mai essere stato smentito” e da oltre trent’anni racconta ai magistrati quello che è il dominio della ‘Ndrangheta in Italia e le impronte che ha lasciato in una buona parte dei misteri di questo Paese.


Stragi, omicidi e collaboratori: la storia di Filippo Barreca

Pasolini, Moro, Pecorelli e le stragi degli anni ’70-’80-’90. Come spegnere le luci fin qui accese e stritolare chi cerca di dare un contributo

di Simona Zecchi

Le verità mancanti. Si dice, si scrive che trattare di fatti relativamente lontani nel tempo non interessi a nessuno. Si mormora e poi si finisce col sottolineare che le stragi e gli omicidi rimasti impuniti, quelli fatti passare per suicidi e le operazioni che hanno indicato le vesti di esecutori altri non valgano nemmeno lo sforzo di poche centinaia di battute. Lo si afferma ancora di più in questo tempo straordinario che stiamo vivendo bloccato da una pandemia le cui cause e soprattutto i cui rimedi ancora non si conoscono. Tutto questo forse è vero. C’è però un dato di fatto, che non si può non vedere, come l’ombra del virus che ci accompagna in questi giorni: se non c’è verità non può esistere un Paese pienamente democratico; se non si persegue come è andata e perché sia andata così non si può dire di fare fino in fondo il dovere di giornalista. Perché quello che è avvenuto anni addietro, pochi o tanti che siano, è il prodotto di ciò che siamo oggi, di ciò che la giustizia, con tutti gli scandali che l’hanno resa protagonista nell’ultimo anno, è oggi (vedi il Caso Palamara). Soprattutto, senza la verità, quella reale, e non facendosi irretire dalle versioni comode a una parte o all’altra, è difficile che si faccia luce su molti fatti che hanno invece influenza sull’attualità. Lo testimoniano i processi e inchieste in corso che riguardano fatti accaduti 20 30 o 40 anni fa e che appunto sono materia quotidiana. È lì che il tempo si ferma davvero, è quello il vulnus per il quale subiamo la maggiore perdita di libertà. Gli italiani vogliono sapere perché” scriveva Pasolini nell’ottobre del 1975. E ancora è così.
I collaboratori di giustizia e la lezione di Falcone. C’è un problema democratico inserito nei gangli di quelle parti di istituzioni preposte alla protezione di persone, le quali, dopo una vita spesa da una parte della barricata, decidono di fare un salto dall’altra parte mettendosi nelle mani dello Stato. Per varie ragioni: per sfuggire alle vendette, per tornaconto personale o per pura volontà di cambiare vita anche per le proprie famiglie; tutte ragioni che sono indipendenti dalla veridicità o meno di ciò che affermano e non devono influenzare la opinione sul loro contributo nel bene e nel male). Sono i collaboratori di giustizia, quelli che grazie al metodo Falcone – purtroppo negli anni svilito e trasformato spesso in altro: i pentiti non sono tutti uguali – sono assurti a strumenti di lotta alla criminalità organizzata insieme ad altre modalità investigative. Talvolta sono proprio i collaboratori ad aver permesso in maniera dirimente alla magistratura di arrivare al cuore di certi avvenimenti. Soprattutto da quando si è compreso che non esiste evento tragico e strategico, che colpisce la nostra Repubblica da oltre 70 anni a questa parte, senza che un ruolo della criminalità organizzata, i suoi vertici, spesso indicati come mera manovalanza, non abbia avuto un peso. Si è piuttosto scelto di trattare ognuno di questi eventi, e quindi trasmettendone l’assunto all’opinione pubblica, come sezione a parte, soggetto a sé stante di dinamiche altre. E lo si è fatto strumentalizzando lo stesso Falcone sul famoso concetto del “terzo livello” che il magistrato, fatto a pezzi da tritolo terroristico-mafioso, aveva ben chiarito in una sua audizione al CSM nel 1991. Il metodo e le verità dimostrabili sono una cosa, asseriva in quell’audizione, dire che non si è voluto indagare oltre un certo livello di coinvolgimento (queste le accuse di 
Leoluca Orlando e di alcuni legali di parte civile dei processi allora in corso) è altra, e per giunta falsa e infamante. Proprio lui che aveva indagato su Gladio e altre componenti coinvolte negli omicidi politico-mafiosi avvenuti in Sicilia fra il 1979 e il 1980-82, proprio lui che aveva scoperto la loggia massonica Camea a Palermo durante le sue indagini sul finto sequestro di Sindona ben 10 anni prima. Scoperta avvenuta poco prima di quella più famosa e mediaticamente roboante sulla P2 avvenuta ad Arezzo. Non sono pochi i collaboratori, come mostrano anche le cronache più recenti, a subire la vendetta amara anche dopo molto tempo nei loro confronti (Orazio Sciortino giugno 2020; Marcello Bruzzese dicembre 2018; ma anche andando più indietro nel tempo Luigi Ilardo maggio 1996, che stava per divenire pentito ufficiale e per far catturare il boss Provenzano, oltre ad aver parlato con il colonnello Michele Riccio di struttura riservata sicula-calabrese già attiva dagli anni 70; e di molti altri le cui morti si sono in fretta rubricate come naturali). O anche nelle vicende più strettamente di sangue, diversi sono i collaboratori che hanno deciso di cambiare vita e che sono in balia di situazioni al limite della sopravvivenza economica e di protezione nonostante il servizio di protezione”. Ed è anche per questo che importa andare a ritroso degli anni mentre si affronta il presente.

Moro, Pasolini, Pecorelli e le stragi. Tra i fatti tragici e irrisolti che hanno svilito la vera essenza di democrazia in Italia ne nomino alcuni, ma fondamentali: Piazza Fontana, Pasolini, l’Affaire Moro, Pecorelli, la strage alla stazione di Bologna, l’abbattimento del DC9, le stragi Falcone e Borsellino. Tra tutti questi non è esatto dire, come si fa spesso in un refrain stanco e retorico, che c’è un filo rosso o nero che li accomuna; è più corretto dire che svelare il tassello o i tasselli mancanti di quei fatti, quelli utili a sostenere delle fondamenta malridotte, significa svelare il meccanismo che ha permesso si accumulassero piste fumose verosimili o vere ma «difficili da provare in un’aula di tribunale» (così Pier Luigi Concutelli nel 2014 ha risposto a chi scrive riguardo all’omicidio Pasolini intervista che la Procura di Roma non ha voluto acquisire agli atti delle ultime indagini preliminari allora in corso sulla morte dello scrittore); significa impedire, per molti di questi fatti, agli attori che hanno mosso le fila o magari piegati da un ricatto da parte di altri Stati, la possibilità di farvi luce. Perché a costoro e quindi anche ai loro eredi politici o familiari che detengono eventuali documenti è stata imposta una verità monca o falsa. E questo utilizzando anche elementi che hanno appigli con le verità sostanziali. Altrimenti il fumo non si sarebbe ben sparso.
In questa serie di fatti le cui verità sono rimaste monche va inserito ufficialmente l’omicidio di Pier Paolo Pasolini, intellettuale e negli ultimi periodi della sua vita soprattutto giornalista che cercava quelle verità indicibili – non note allora – su stragi e mandanti e che per questo, non per altro non perché andasse con i prostituti, è stato condotto al massacro. È ora che lo si scriva e che si annoveri lo scrittore tra le vittime dell’eversione e delle mafie. Soprattutto vittima di Stato. Non perché non si sia mai indagato a vari livelli sulla sua morte ma perché, appunto, la verità sul movente quella vera, non quella buona per la fiction, fatica a emergere. Fatica a emergere il perché. Ci ha rinunciato la magistratura, e ci hanno rinunciato le istituzioni che dando vita nel tempo a diversi tentativi di istituire una commissione d’inchiesta parlamentare che indagasse sul movente o i moventi e sulle dinamiche, hanno allo stesso modo per varie ragioni optato per metterlo a tacere in qualche modo e per sempre. Per Pasolini non c’è un collaboratore di giustizia che possa svelare cosa l’abbia condotto alla morte (sebbene qualcuno di loro che aveva raccolto delle confidenze in carcere ci sia stato), né un rappresentante politico che possa dire come stanno le cose, perché lo schema nel quale il poeta-giornalista è stato impigliato quello comodo del contesto omosessuale e di prostituzione è complesso. È lo stesso motivo per cui a esempio non si vuole far emergere la verità sul sequestro e l’omicidio dell’ex presidente della DC Aldo Moro, anche perché il collaboratore che ci ha provato è rimasto stritolato da volontà altrui che impediscono di arrivare alla sostanza di quelle verità, anche da coloro i quali hanno sempre detto di volerla quella verità. E allora anche le iniziali buone intenzioni di una commissione d’inchiesta, l’ultima, che ha indagato su quei 55 giorni, sono naufragate nella logica della ragione di stato, speculare a quella che ha condotto per altre vie alla morte, mancandone la liberazione, dello statista DC. Ed è motivo in parte vero anche per l’omicidio Pecorelli (il cui caso è stato riaperto lo scorso anno e la cui storia nelle sue svariate piste è stata ricostruita di recente nel libro La strage continua di Raffaella Fanelli, Ponte alle Grazie 2020 pagg. 217 Euro 16,00) che per primo aveva individuato il ruolo della mafia calabrese nel sequestro e nell’omicidio.

Filippo Barreca stritolato dal caso Moro (ma non solo). L’ultimo che ha provato a fornire il suo contributo al riguardo è stato Filippo Barreca, ai vertici della ‘Ndrangheta – la Santa – fra gli anni fine 70 e 90, grazie alle cui dichiarazioni a partire dal 1992, molti processi sono stati possibili. Ultimo in ordine di tempo quello noto come ‘Ndrangheta stragista. Ad agosto inoltre a seguito di un mio articolo su Fatto Quotidiano, e con importanti conferme arrivate in questi giorni, è emersa la sua collaborazione, nonostante non sia più protetto dallo Stato, per un’altra strage alla cui verità si stenta ad arrivare: l’«incidente» del Moby Prince del 10 aprile 1991 che ha visto morire senza un perché 141 persone. Lo scorso 6 agosto è emerso proprio in relazione al Caso Moro, il contenuto di un verbale che riguarda importanti informazioni fornite dal collaboratore alla Commissione Moro II e che confermava l’avvenuta sostituzione da tempo sospettata, per ordine di un boss calabrese, di un agente di polizia che si salvò dalla strage del 16 marzo 1978 quando rapirono Moro e uccisero i suoi 5 agenti di scorta. A causa della sostituzione dell’agente Rocco Gentiluomo, originario di Sant’Eufemia d’Aspromonte, dove comandava il boss Rocco Musolino della vicina Santo Stefano D’Aspromonte, importante componente allora della ‘Ndrangheta di vertice, è andato incontro alla morte l’agente Francesco Zizzi che lo sostituì come capo scorta (tecnico, quello operativo era il maresciallo Lombardi, l’ombra di Aldo Moro). Il verbale confermava quanto era a conoscenza di Barreca ma era accompagnato da diversi elementi documentali inattaccabili che sostengono il fatto.
Filippo Barreca ha iniziato a collaborare con lo Stato nel 1992, senza mai essere stato smentito, tanto che lo Stato stesso a fronte di questa sua collaborazione andata avanti per molti anni ha corrisposto a lui e alla sua famiglia molto denaro e la possibilità di ricostruirsi una vita sociale ed economica. Fa parte del patto lecito con lo Stato in queste situazioni. Barreca, oltre a decapitare con le sue dichiarazioni, tutte riscontrate, il clan di cui era a capo in provincia di Reggio Calabria (Pellaro), clan che portava il suo nome, ha fornito molti riscontri sia a supporto di dichiarazioni di altri pentiti, sia indipendenti (e fondamentali per la ricostruzione di avvenimenti rimasti oscuri). Barreca, e con lui l’altro pentito Ubaldo Lauro, hanno sfondato per primi la barriera di omertà di molti ex appartenenti alla ‘Ndrangheta che a differenza di Cosa Nostra e Camorra, sino ad allora, non annoverava tra le sue fila molti pentiti. Barreca potrebbe dire ancora molto di più, a esempio su alcuni fatti inerenti Piazza Fontana (fu lui che ospitò Franco Freda coinvolto nella strage e nella strategia della tensione insieme a Giovanni Ventura) e ad altri fatti utili a scoperchiare le dinamiche dei giochi di potere politico-massonico-criminale, locale e nazionale. Il collaboratore nel 2009 ha però cominciato a subire diverse ingiustizie dopo aver parlato di questi rapporti indicibili, tutte volte da un lato a indebolire quanto già riferito e certificato, dall’altro a farlo desistere dal contribuire a fornire altre verità utili alle indagini tuttora in corso o che hanno il crisma di eventi chiave per il nostro Paese. E il Caso Moro, il caso spartiacque di questa Repubblica che insieme ad altri omicidi eccellenti (Mattarella e Lodovico Ligato a esempio) e ad altri casi irrisolti – come quello del giornalista Mino Pecorelli – restano impigliati a doppio filo nelle trame di quelle dinamiche, è il mattone fondante di quello schema a cui abbiamo accennato sopra.
La storia di Barreca, che ho avuto modo di studiare, e le cui traversie non possono essere tutte qui indicate per ragioni di spazio, è rappresentativa di quanto sia potente la volontà di affossare certe verità anche lontane (apparentemente lontane) nel tempo. Di queste tante traversie ne indicheremo qui le più importanti.

È nel 2009 che d’un tratto si comincia a incrinare il patto fra il collaboratore e lo Stato quando, nella località nella quale era stato assegnato sotto altra identità durante il periodo di protezione terminato ufficialmente nel 2015, vengono comunicati i precedenti penali del collaboratore riferiti però alla sua nuova identità. A quel punto tutte le attività commerciali del Barreca, così come il suo status di cittadino, con tutti i diritti e i doveri, decadono e vengono bloccate. I crediti che sino ad allora gli istituti bancari elargivano vengono sospesi, la documentazione antimafia non concessa. E nella piccola località nella quale risiede tuttora l’ex collaboratore (che senza protezione tuttavia continua a fornire il suo contributo a inquirenti e magistratura) la voce si sparge presto. La sua vita e quella dei suoi familiari, che secondo la procura di Reggio Calabria necessitavano ancora di protezione almeno fino al 2015, sono ora alla mercé di chi vorrebbe vendicarsi e soprattutto di chi negli scranni alti della politica e delle istituzioni-vecchia guardia, e indipendentemente dall’appartenenza politica, potrebbe rischiare molto se continuasse a parlare di certi fatti che in molti vorrebbero non si parlasse o scrivesse più. Nel 2009, dunque, il Servizio Centrale di Protezione informava il pentito che aveva proceduto a comunicare le situazioni soggettive relative alla sua precedente identità di mafioso, riferendole alle nuove generalità, nonché a comunicare le risultanze del Casellario giudiziale all’Ufficio del Casellario presso il Tribunale di Roma, sempre in riferimento alle nuove generalità. Cosa che è stata possibile applicando in modo retroattivo alcune norme dell’articolo 17 del Decreto del Ministero dell’Interno n. 161/2004 – un decreto Berlusconi. Se ricordiamo qual era la materia di scambio indicata nelle more del patto Stato-mafia, di cui si sta celebrando il secondo grado, e volta anche a rendere più difficoltoso l’apporto dei collaboratori, non è difficile comprendere cosa sia successo. Fra il giugno e il settembre del 2016 Barreca si rende disponibile a essere sentito dal magistrato Guido Salvini (esistono due verbali) che per conto della Commissione Moro II svolgeva delle attività investigative. Poi, nel 2018, emerge un’altra storia disponibile su Youtube ma riferita a due anni prima: i nipoti di Barreca, testimoni di giustizia, in particolare Filippo omonimo dello zio, raccontano in una intervista da loro rilasciata a un canale TV locale L’Arciere dell’arma che avrebbe ucciso il politico DC Lodovico Ligato nel 1989 e dove si accusa la Procura di Reggio Calabria e la DIA di non aver voluto davvero rinvenire l’arma indicata dai testimoni di giustizia come sepolta in un determinato terreno. Per quell’omicidio ci sono state delle condanne ma l’arma non è mai stata trovata. Ligato, ex presidente delle Ferrovie dello Stato, è stato ucciso la notte del 26 agosto del 1989, da alcuni killer assoldati dalla ‘Ndrangheta con 26 colpi di pistola, una Glock. La morte di Ligato, come ha scritto nell’agosto del 2019 il Fatto Quotidiano, simboleggia il suicidio della Prima Repubblica: pupillo di Riccardo Misasi, Ligato, 50 anni appena compiuti era uno degli uomini più potenti d’Italia e tra le sue mani giravano appalti miliardari nonché il destino della DC calabrese con mire nazionali.
Alle interviste dei nipoti replica lo stesso collaboratore Barreca (classe 1947) che si sente diffamato dalle parole del nipote e che difende l’agire del procuratore Giuseppe Lombardo.
In questa querelle dalle dinamiche non chiare si inserisce poi la testimonianza del collaboratore alla Commissione Moro che riguarda sia la sostituzione dell’agente il giorno del sequestro, avendo così salva la vita, sia i rapporti fra Br e ‘Ndrangheta. Nel 2017 il Servizio di protezione comunica al collaboratore che non può più beneficiare della protezione per un evento: un suo allontanamento temporaneo fuori dall’Italia per ragioni lavorative che avrebbe secondo i vari pareri presentati cancellato la fiducia di cui godeva. In realtà il collaboratore pur essendo in quel momento un uomo libero quindi non costretto a informare nessuno (il contratto con lo Stato in attesa di rinnovo era terminato nel 2015) aveva informato gli agenti del Nucleo di protezione del suo allontanamento. È un fatto che i suoi verbali non compaiano più tra la documentazione della Commissione Moro, così come è un fatto che nessuno in Procura a Roma, la quale a oggi è titolare dei vari filoni ancora aperti sul Caso Moro incluso quello che riguarda la ‘Ndrangheta, abbia sentito l’esigenza di chiamare Barreca. Costituisce poi ancora un fatto che chi tocca queste vicende si bruci in vari modi e spesso non ne esca vivo. Allora è necessario che la giustizia si muova per difendere la ricerca della verità ed evitare che si compiano altri omicidi.

Fonte:https://www.antimafiaduemila.com/home/mafie-news/309-topnews/97617-stragi-omicidi-e-collaboratori-la-storia-di-filippo-barreca.html