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Sequestro Moro, cosa ci faceva il boss in via Fani? Una foto può riaprire il caso

L’Espresso, 15 marzo 2018

Sequestro Moro, cosa ci faceva il boss in via Fani? Una foto può riaprire il caso

Sparito e poi riapparso, lo scatto che ritrae 
un capo della ’ndrangheta potrebbe dare un volto a uno dei colpevoli dell’eccidio, impunito dopo 40 anni

DI PAOLO BIONDANI

Il mistero di una foto. Scattata in via Fani il 16 marzo 1978, poco dopo il sequestro di Aldo Moro e l’eccidio della scorta. Un’immagine scomparsa dal palazzo di giustizia di Roma. E ritrovata in copia a Perugia. Una foto che potrebbe dare un volto e un nome a uno dei colpevoli che da 40 anni restano impuniti. E riscrivere uno dei capitoli più tragici della nostra storia. Perché l’uomo della foto non è uno dei brigatisti già identificati e condannati: assomiglia terribilmente a un mafioso della ’ndrangheta. Un boss di alto rango, che scambiava favori sporchi con un militare dei servizi segreti. Una foto collegata ad altri misteri: la presenza in via Fani di due sconosciuti, in moto, armati di almeno un mitra che ha sparato. E il recente ritrovamento in Calabria di due mitragliette skorpion, che i boss più potenti della ’ndrangheta collegavano proprio al caso Moro.

Tutto parte dalla storia della moto, che è confermata anche dagli studiosi più scettici. Vladimiro Satta è uno storico che ha firmato vari saggi per smontare «i falsi misteri del caso Moro». Sentito dall’ultima commissione parlamentare d’inchiesta, ha riconfermato la sua conclusione: «Moro è stato sequestrato e ucciso dalle Brigate Rosse di Mario Moretti, che non erano etero-dirette». Le tante dietrologie di questi anni, ha aggiunto però lo studioso, hanno distolto l’attenzione dall’unico vero mistero, che «merita di essere approfondito»: la «questione della moto Honda».

Di cosa si tratti lo ha spiegato ai parlamentari il pm romano Antonio Marini: «Un cittadino mio omonimo, Alessandro Marini, che nel momento dell’agguato si trovava sul suo motorino all’incrocio di via Fani, ha visto passare una moto Honda di grossa cilindrata, da cui sono stati esplosi alcuni colpi contro di lui». Il magistrato romano sottolinea che la presenza della moto in via Fani «non è un’ipotesi, ma un fatto accertato con sentenza definitiva: «i brigatisti sono stati condannati in tutti i gradi di giudizio anche per il tentato omicidio di Alessandro Marini». In concorso con gli ignoti motociclisti.

La «moto Honda di colore blu» è stata vista da altri tre testimoni oculari, sempre accanto a due soli brigatisti (poi condannati). Un teste ha notato anche «il calcio di un mitra». Il killer che ha sparato, «quello seduto dietro», impugnava «una mitraglietta di piccole dimensioni» ed era «coperto da un passamontagna scuro». Per cui avrebbe potuto tornare senza problemi a godersi la scena in via Fani.

I brigatisti del commando hanno sempre smentito la presenza di qualsiasi moto, rivendicando di aver fatto «tutto da soli». Sul caso Moro però i terroristi rossi, dissociati compresi, hanno offerto nel tempo solo verità parziali, aggiustate dopo la scoperta e le successive condanne di altri complici, come Alessio Casimirri o il carceriere Germano Maccari. Le prime indagini sulla moto, quindi, seguono l’ipotesi più logica: altri due brigatisti ancora ignoti. Ma la pista rossa porta solo a due ex autonomi, riconosciuti totalmente estranei al caso Moro.

Il primo a parlare di complici esterni è un super pentito della ’ndrangheta, Saverio Morabito, arrestato in Lombardia nei primi anni ’90. Le sue confessioni hanno permesso al pm milanese Alberto Nobili e alla Direzione investigativa antimafia di ottenere più di cento condanne nel maxi-processo Nord-Sud. Morabito, giudicato nelle sentenza «di assoluta attendibilità», rivela che un mafioso importante, Antonio Nirta, nato a San Luca l’8 luglio 1946, negli anni ’70 aveva legami inconfessabili con un carabiniere di origine calabrese, Francesco Delfino, poi diventato generale dei servizi. Il pentito ne parla con paura e aggiunge che il suo capo, Domenico Papalia, gli rivelò che «Nirta fu uno degli esecutori materiali del sequestro Moro»: un segreto di mafia confermatogli anche dal boss Francesco Sergi.

Il pm Nobili trasmette il verbale al collega Marini, che riapre l’indagine sui due in moto. E riascolta una telefonata intercettata durante il sequestro Moro. Un nastro del 1978, ma tenuto segreto fino al 1982. Un parlamentare calabrese della Dc, Benito Cazora, impegnato come tanti a cercare il covo brigatista, spiega al segretario di Moro che la ’ndrangheta può aiutare, ma vuole qualcosa in cambio: «Quelli giù, dalla Calabria» chiedono di «far sparire una foto del 16 marzo, presa lì sul posto», perché si vede «uno di loro… un personaggio noto a loro». L’inchiesta accerta che la profezia calabrese si è avverata. Un fotografo, Gherardo Nucci, ha scattato numerose foto in via Fani subito dopo l’agguato. Il rullino risulta consegnato all’allora pm romano Luciano Infelisi, ma non si trova più: è sparito.

A recuperare alcune copie di quelle foto, anni dopo, sono i magistrati di Perugia che indagano sull’omicidio del giornalista Mino Pecorelli. Visto che «i calabresi di giù» parlavano di un’immagine pubblicata, le verifiche si concentrano su una foto apparsa su un quotidiano del 17 marzo. È lo scatto riprodotto in queste pagine. In via Fani, davanti al bar Olivetti e ai corpi delle vittime, c’è un uomo che fuma una sigaretta. Giacomo Lauro, un altro grande pentito calabrese, vede la foto e conferma: «È Antonio Nirta». La somiglianza è riscontrata anche da una perizia dei carabinieri del Racis. Per fare un confronto, L’Espresso ha recuperato due foto segnaletiche di Nirta del 1968 e del 1975. Tra il boss e l’uomo di via Fani coincidono tutti i dettagli visibili: capigliatura, forma del naso, orecchio, occhi, sopracciglia… Se non è lui, è un sosia.

La pista della ’ndrangheta è accreditata anche dall’ex procuratore di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, e dal suo aggiunto Giuseppe Lombardo. Sentiti dalla commissione il 28 settembre scorso, i due magistrati premettono che la famiglia Nirta “la maggiore” fa parte di «un livello altissimo della ’ndrangheta», una cupola segreta con referenti nell’economia, politica e servizi. E in questo quadro inseriscono i legami tra Antonio Nirta e il generale Delfino. I procuratori calabresi aggiungono che un armiere importante della ’ndrangheta, quando si è pentito, ha fatto ritrovare un arsenale micidiale, con due armi speciali. Due «mitragliette tipo skorpion» che un boss potentissimo gli diede da «custodire con particolare cura e attenzione, perché sono simili a quelle usate per Moro». Dicendo «simili», sottolineano i pm, il pentito e il suo boss non parlano delle armi usate dai brigatisti, ma le collegano comunque al caso Moro. I due in moto, secondo i testimoni, non erano del commando: facevano da copertura esterna ai terroristi.

A tutt’oggi solo un ex brigatista, Raimondo Etro, ha parlato della moto. Etro non era in via Fani, ma dopo l’agguato ha ricevuto le armi in custodia da Alessio Casimirri. Mentre gliele consegnava, proprio Casimirri gli parlò di «due in moto», non previsti da altri brigatisti, tanto da definirli «due cretini». Al processo Moro, quando si scoprì un viaggio di Mario Moretti a Reggio Calabria, altri brigatisti reagirono con stupore. Oltre al capo delle Br, chi potrebbe conoscere questi segreti è Casimirri, che però non è mai stato arrestato ed è latitante dal 1982 in Nicaragua. La commissione Moro ha recuperato un documento del 1982 da cui risulta che fu fermato dai carabinieri, ma incredibilmente rilasciato. Lo stesso Etro, che era suo amico e scappò con lui, oggi sospetta una fuga favorita dai servizi.

Antonio Nirta, intervistato dall’autore di questo articolo durante un processo, non ha mai ammesso nulla, ma ha risposto con una frase allusiva: «Cosa volete da noi? In Italia comandano gli americani». Delfino, che dopo il caso Moro lavorò alla Nato e poi a New York, era soprannominato «l’americano». Purtroppo il generale è morto il 2 settembre 2014, portando con sé tutti i suoi segreti.