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Se tutto è politica, figuriamoci la mafia

Antonio Vesco

14 Giugno 2023

Nel fronte antimafia critica sociale e foga repressiva tendono sempre più a coincidere: si rischia di perdere di vista la dimensione del conflitto e di non individuare i veri soggetti del potere della criminalità organizzata

Il dibattito su mafia e antimafia in Sicilia è stanchissimo e ha raggiunto livelli parossistici. Negli ultimi anni, gli innumerevoli casi di antimafia farlocca ci hanno fornito validi elementi per diffidare dei «tragediatori» e buone ragioni per posizionarci «contro l’antimafia». In effetti, è significativo che attori istituzionali di primo piano – dall’ex presidente di Confindustria Sicilia a un’ex giudice del Tribunale di Palermo, fino ad alcuni ex presidenti della Regione – si siano spesi tanto contro la mafia nelle loro sortite pubbliche per poi rivelarsi figure centrali di veri e propri circuiti corruttivi o addirittura vicine ai clan. Casi del genere rivelano i cortocircuiti della costruzione pubblica di uno stigma incaricato di spiegare buona parte dei problemi di questo paese.

Ma il modo in cui abbiamo interpretato questi episodi rischia di riproporre un vecchio malinteso, mettendo ancora una volta al centro i clan per sottolineare la compiacenza di imprenditori, politici e amministratori nei confronti dei boss. La natura politica della mafia contemporanea va invece cercata fuori dai clan in senso stretto, proprio tra quegli imprenditori, politici e amministratori che con i boss dialogano ma che possono anche fare a meno di loro.

È quello che ha mancato di fare un fronte antimafia in cui la critica sociale e la foga repressiva tendono sempre più a coincidere. Al di là del populismo penale scatenato da recenti vicende giudiziarie, perfino una parte dell’eterogenea rete costituita da Libera ha modellato per decenni la propria azione su una prospettiva legalitaria convergente con quella di magistratura e forze dell’ordine. Eppure questo mondo ha origine in ambienti tutt’altro che affini a questa sensibilità – basta pensare al lavoro pluridecennale di realtà come Acmos e il Gruppo Abele. 

Inoltre, l’antimafia nata dopo le stragi dei primi anni Novanta ha costruito la propria politicità prima intorno agli eroi e poi intorno alle vittime, in una spirale di anestetizzazione del conflitto che ci impedisce di individuare i nuovi soggetti del potere mafioso.

In questo quadro, è sempre più urgente fare chiarezza su due questioni. In che senso la mafia è sempre stata una questione politica? E come si è trasformata? Risolti alcuni equivoci, sarà forse più semplice affrontare anche altri problemi cruciali sui quali oggi proviamo un certo imbarazzo. Ad esempio, la questione del sostegno al reddito delle famiglie indigenti ma vicine ai clan, oggi tagliate fuori da una norma, quella sul Reddito di cittadinanza, che impedisce di percepire il sussidio a chi abbia subito condanne negli ultimi dieci anni. O gli enormi temi del carcere, del regime di alta sicurezza (che riguarda gran parte dei condannati per mafia), dell’ergastolo e del 41 bis; problemi già di per sé divisivi che diventano impronunciabili quando a subirne le conseguenze sono i mafiosi. Oppure, infine, l’imbarazzante problema del ruolo pubblico che ha via via assunto la magistratura antimafia. Temi che dovranno sollecitare l’antimafia di domani, quella attenta alla giustizia sociale e alle cause strutturali e culturali di un problema pubblico che continua a sfuggirci di mano.

Ri-politicizzare la questione mafiosa

Nel lontano 1986, un gruppo di psicologhe dell’Università di Palermo raccolse in un agile libretto le rappresentazioni della mafia di oltre cento adolescenti delle scuole professionali di Trapani e Palermo. Intervistate sui «rapporti mafia-comunità», studentesse e studenti descrivevano il potere mafioso come «un fenomeno interagente con la società: con i singoli individui in primo luogo e, secondariamente, con la collettività e le istituzioni». Pur avendo vissuto la violenza quotidiana delle guerre di mafia, quei giovani avevano già relativizzato la centralità del dominio militare dei clan, mostrando una piena consapevolezza della natura eminentemente politica del fenomeno mafioso.

Qualche anno più tardi, le stragi condurranno il movimento antimafia palermitano sul terreno della lotta per la legalità, riproponendo una lettura che descrive ancora i clan come il cuore del sistema di potere mafioso e riproponendo il cliché della netta opposizione tra mafia e Stato.

È in questo solco che si inserisce gran parte del dibattito pubblico dei decenni successivi, fino all’enfasi mediatica con cui è stato accolto il recente arresto di Matteo Messina Denaro, utile soltanto a rappresentare uno Stato vittorioso.

Eppure, negli ultimi cinquant’anni, il problema della relazione strutturale tra gruppi mafiosi siciliani, istituzioni ed élites politico-economiche nel governo concreto dei territori è stato affrontato a fondo. A partire dagli anni Settanta, decine di studiose e studiosi, lasciandosi alle spalle una visione che tendeva a concepire mafia e Stato come due distinte entità in contesa tra loro per il controllo territoriale della violenza, sulla scorta della celebre inchiesta di Leopoldo Franchetti sulle condizioni politiche e amministrative della Sicilia, cominciarono a descrivere la mafia come un elemento costitutivo dell’organizzazione dei rapporti politici nell’isola. Nei primi anni Novanta, il criminologo critico Alessandro Baratta ci suggeriva definitivamente di rinunciare alla nostra passione per le definizioni ontologiche (mafia contro Stato) e adottare una definizione relazionale, per concepire mafia e Stato come due elementi di un unico, complesso, fenomeno. I recenti fatti di cronaca, come la celebre Trattativa o la scoperta dei rapporti tra Messina Denaro e una parte dell’establishment politico ed economico siciliano, vanno letti tenendo conto di questi aspetti. Parlare di coperture e accordi, o appunto di trattative, rischia di oscurare il problema, presentando le commistioni tra mafia e Stato come episodi eccezionali e non tenendo conto della complessa, intrinseca, politicità del fenomeno mafioso.

Come ha mostrato il sociologo Rocco Sciarrone, la forza della mafia sta fuori dalla mafia in senso stretto. È proprio la capacità di stringere relazioni con soggetti esterni all’organizzazione che consente di spiegare la forza e la persistenza della mafia, specie per quanto riguarda la sua capacità di operare nei mercati legali. Vista da questa prospettiva, la mafia ci appare come un fenomeno di signoria territoriale alimentato dalle relazioni tra boss, affiliati e soggetti esterni all’organizzazione. Una tesi ottenuta combinando l’attenzione per le strategie di azione dei mafiosi con l’analisi delle condizioni storiche, politiche, culturali, economiche, sociali dei contesti nei quali i clan si sono formati.

Per quanto affascinante sia il racconto dei legami tra un boss e i salotti delle città siciliane, quando pensiamo alle entrature borghesi di Messina Denaro non dobbiamo immaginare episodiche coperture fornite da amici influenti. Dovremmo pensare soprattutto agli imprenditori, ai politici e ai funzionari pubblici che, come il boss, hanno costruito il proprio successo sul sistema di relazioni di cui dicevamo. Coloro per i quali quel sistema di relazioni ha rappresentato uno strumento di ascesa sociale, a scapito dei territori e di chi li abita.

La borghesia mafiosa

Questa lettura deve molto all’elaborazione del concetto di «borghesia mafiosa», proposto da Mario Mineo all’inizio degli anni Settanta e ripreso più tardi da Umberto Santino proprio per sottolineare l’importanza dei legami tra boss e affiliati a Cosa nostra, da una parte, e attori economici e politici, dall’altra. Si tratta di una riflessione che è stata a lungo data per acquisita, poi messa in discussione da più parti, ma che resta un punto di partenza di cui non possiamo fare a meno, perché ci aiuta a comprendere i successivi sviluppi degli studi sulla mafia, ovvero delle concezioni della mafia in quanto fenomeno politico legato a doppio filo alle classi dirigenti in un ambiente capitalistico che ha suoi tratti specifici. 

Santino ci ha spiegato meglio di altri che la mafia non è riducibile alla sua ala violenta e stracciona (quella che abbiamo criminalizzato per lungo tempo e su cui è stato costruito lo stigma), ma è un fenomeno trans-classista. Con la locuzione «borghesia mafiosa» non si riferisce però esclusivamente al sistema relazionale entro cui si muovono i clan. Sottolinea per lo più il ruolo che la mafia ha giocato nei processi di accumulazione capitalistica e di formazione dei rapporti di dominio e subalternità. In questa prospettiva, la mafia non è altro che una peculiare declinazione del sistema capitalistico in territori che hanno propri tratti specifici. Un modo peculiare di governare le risorse, quelle legali e quelle illegali, talvolta mediando tra il piano locale e quello globale.

Nel frattempo, la mafia è cambiata. A dispetto dell’enfasi con cui sono accolti gli arresti dei grandi boss latitanti, negli ultimi trent’anni l’influenza delle famiglie mafiose siciliane sul funzionamento dei sistemi politici ed economici locali appare fortemente ridimensionata. La repressione giudiziaria ha dato i suoi frutti, relativizzando la centralità dei gruppi mafiosi siciliani anche nei traffici illegali gestiti a livello nazionale e internazionale.

La crescente criminalizzazione dei gruppi mafiosi ha favorito un’efficace repressione, la quale ha favorito una sempre più efficace criminalizzazione, in una spirale che ha avuto effetti di non poco conto sulla percezione diffusa del fenomeno. Quello che resta dei clan siciliani gode indubbiamente ancora oggi di un certo consenso sociale tra le fasce della popolazione che hanno ancora rapporti quotidiani con i mafiosi. Ma al di fuori di queste cerchie sociali nessuno accorderebbe una qualsivoglia forma di consenso a un potere esplicitamente violento. Una parte maggioritaria della popolazione siciliana oggi si professa – e si ritiene sinceramente – antimafiosa. Lo stigma ha funzionato, ma solo nei confronti delle solite «classi pericolose». 

Per comprendere il consenso che circonda oggi il sistema di potere mafioso dobbiamo allora guardare all’egemonia di quei soggetti che siamo abituati a collocare all’esterno dell’organizzazione mafiosa in senso stretto. A quegli imprenditori, politici, professionisti, funzionari pubblici che non appaiono rispettabili soltanto ai siciliani. Che si decida di definirli a loro volta mafiosi o meno, è a questo mondo che bisogna fare attenzione oggi.

Mafia e cratofobia: un’autocritica (e una modesta proposta)

«Il potere è sempre altrove. Il potere non è nel Consiglio Comunale di Palermo, non è nel Parlamento della Repubblica, il potere è altrove». Nel 1983, Leonardo Sciascia chiudeva con queste parole la sua esperienza in Parlamento. Questa sua nota affermazione, che troviamo ancora oggi su Youtube, fu resa in televisione nel pieno della circolazione di chiavi di lettura foucaldiane, ma è stata spesso più prosaicamente attribuita alla sua ormai conclamata disillusione politica e istituzionale, acuitasi durante la sua esperienza come deputato indipendente eletto nelle liste del Partito Radicale. Introducendo uno spettacolo teatrale ispirato proprio da queste affermazioni, il regista Fabrizio Catalano, nipote di Sciascia, scrisse: 

In poco meno di quattro anni, aveva potuto constatare che le decisioni più importanti, per il Paese e per i suoi cittadini, venivano solo formalmente prese alla Camera dei Deputati o nel Senato della Repubblica. Altrove, lontano da quelli che sono considerati i luoghi in cui si amministra il potere, forze occulte, nocive, impalpabili, segnavano e segnano – allora come ora – il destino dell’Italia […] Ancor oggi, a ventisette anni dalla morte di Sciascia, l’Italia è una nazione attanagliata da mille problemi: ignavia, inconsapevolezza, disoccupazione, corruzione, collusione tra mafia e politica.

Al di là dell’uso costante e spesso distorto dei tanti campioni dell’antimafia, questa lettura delle sue parole sintetizza la spirale di fraintendimenti in cui si avvita il dibattito sulla mafia siciliana, riproponendo due diffusi equivoci. Il primo è quello che ha fatto notare qualche anno fa Rocco Sciarrone, che vorrebbe la mafia come un explanans, cioè una variabile in grado di spiegare ogni altra disgrazia politica, sociale ed economica di questo paese, anziché un explanandum di cui analizzare logiche e meccanismi. Il secondo riguarda il concetto di potere con cui abbiamo a che fare quando parliamo di mafia, un potere naturalmente «nocivo» e sempre «occulto» e «impalpabile» – come le trattative di cui da anni ci tocca occuparci, comunque la pensiamo.

Ma le letture complottiste del potere mafioso sono quelle più facili da disinnescare. Meno semplice è fare i conti con il nostro disagio di fronte a questo tema, che ha la stessa origine di quello mostrato da Sciascia qualche riga più sopra. Nasce dall’ormai conclamata disgiunzione tra potere e autorità statale, una frattura lungo la quale si è evoluto anche il rapporto tra mafia e Stato. Consapevoli di trovarci immersi in forme di potere sempre più estranee e rarefatte, svincolate da responsabilità politiche e morali, abbiamo spesso rinunciato a individuare i concreti soggetti che in specifiche congiunture consentono la costante riproduzione del potere stesso. Di fatto, dagli anni Ottanta in avanti, gli approcci anticapitalisti di ogni segno e gli indirizzi accademici più «critici» si sono spesso guardati bene dall’affrontare l’intreccio tra mafia e Stato, liquidando un po’ troppo rapidamente la questione mafiosa come uno dei tanti frutti marci del capitalismo o, meglio, come capitalismo mascherato da una serie di codici culturali. Chi propone questa lettura ritiene che le cause della mafia vadano cercate appunto «altrove», ben al di là delle quotidiane beghe tra clan. Non senza un certo imbarazzo, dovuto alla consapevolezza di star comunque eludendo un tema centrale che pone ogni giorno problemi concreti qui e ora e non «altrove».

Le ragioni di questo evitamento sono in realtà diverse e, a prima vista, tutte fondate. 

La prima nasce appunto da un chiaro disagio nei confronti del potere costituito in sé. Un sentimento assai diffuso che recentemente Piero Vereni ha definito «cratofobia»: «una sorta di interpretazione radicale del potere, specialmente del potere istituzionale e dello Stato in particolare, come male a prescindere, comunque oppressivo, comunque illiberale e comunque violento». 

Nel nostro caso, la natura profondamente istituzionale di buona parte del movimento antimafia ha tenuto alla larga chi intende leggere il problema della mafia in una prospettiva critica dell’ordine neoliberale e delle istituzioni che lo sostengono. Ormai da tempo, infatti, fatta eccezione per alcuni cattivi maestri, nel pur vasto ed eterogeneo fronte antimafia, c’è poco spazio per posizioni critiche nei confronti del potere statale. La fobia del potere mafioso che ha assalito militanti e studiosi critici trova quindi una prima, parziale, spiegazione nella composizione del fronte antimafia e nella definizione pubblica della questione mafiosa. Per chi persegue uno sguardo critico sulla società e sulle sue istituzioni, è inevitabile una certa difficoltà a prendere parte alla discussione avviata da un fronte antimafia che ha mostrato per lo più una vicinanza con gli apparati di contrasto (anche quelli repressivi) e con lo sguardo costruito in sede giudiziaria.

Un’altra ragione, connessa alla prima, ha invece a che vedere con le priorità degli approcci radicali. E riguarda la tendenza a concentrare l’attenzione sulle vittime della governance (più o meno criminale) delle élites politico-economiche di turno piuttosto che su quelle cerchie sociali che detengono gli strumenti per governare e i «mezzi di orientamento», per dirla con Norbert Elias. L’enfasi sulle pratiche di coercizione esercitate dalle istituzioni rischia di oscurare gli elementi simbolici e culturali del potere dello Stato. Concentrandosi quasi esclusivamente sull’aspetto repressivo e sulla condizione dei repressi, si è troppo spesso rinunciato a un’analisi circostanziata dell’azione dei soggetti del potere. Come ha notato qualche anno fa Fabio Dei sulle pagine di Lavoro Culturale, gli studi «sedicenti critici» si interessano molto poco dei «cattivi» e attribuiscono sovente il male a un «sistema» che coincide genericamente con lo «Stato», o comunque con soggetti disumanizzati, mere espressioni del «potere». 

Un’occasione mancata, perché dentro le pieghe del potere mafioso si celano soggetti di grande interesse per chi ha a cuore le sorti dei subalterni.

Così, anche quando i movimenti sociali e le scuole accademiche «critiche» hanno avuto l’occasione di affrontare la questione del potere mafioso, l’hanno elusa: l’hanno elusa quando, occupandosi del potere statale, non hanno dato importanza al ruolo giocato dalla mafia; quando, occupandosi di diseguaglianze, non hanno provato a problematizzare lo stigma che attanaglia le classi popolari che forniscono migliaia di soldati alle diverse mafie italiane; ogni volta che, occupandosi di lavoro e diritti, hanno lasciato i media e la magistratura a sproloquiare di welfare delle mafie o di caporalato; più di recente, si fa per dire, hanno perso l’occasione di fronte ai fenomeni migratori, la cui portata ben più ampia non ci esime dal prendere atto del ruolo che vi giocano anche le organizzazioni criminali. 

In questa mancanza, e in questa postura, scorgiamo l’adesione di fatto a chiavi di lettura più complottiste che politiche. Un sapere critico può e deve invece mettere le mani su un oggetto come la mafia per proporre una sua ri-politicizzazione. 

Per farlo, deve superare la propria comprensibile ripugnanza e chiedersi cosa pensano le nuove élites su cui si fonda oggi il potere politico-mafioso. Sono poche le riflessioni che si soffermano sulle aspettative e sugli immaginari che circolano all’interno di questo blocco sociale. Cosa porta questi soggetti a identificarsi in particolari narrazioni deteriori del fare politica e del fare impresa? Narrazioni che, su un piano ufficiale, sono considerate motivo di imbarazzo, ma che, nondimeno, garantiscono la tenuta di un tale sistema di relazioni, contribuendo a «fare identità» tra coloro che ne fanno parte.

Registrate le trasformazioni della mafia siciliana, preso atto della sua progressiva demilitarizzazione, non può sfuggirci che le figure di cui sopra introiettano e incorporano un modello egemonico ancora fortemente maschile e votato al dominio con altri mezzi.

In definitiva, per dire qualcosa di politico sulla mafia dobbiamo chiederci quali figure sociali, oggi, godono del consenso diffuso che un tempo veniva accordato a boss e affiliati. Le basi di questo consenso sono politiche ed economiche, ma sono anche inevitabilmente culturali. Chi produce, oggi, discorso sulla mafia e da quale posizione? Quali nuove egemonie e subalternità sono in campo nella costruzione sociale (e quindi anche politica e giudiziaria) di una questione centrale come quella mafiosa?

Se ricostruiremo su queste basi un discorso antimafioso, potremo anche smettere di definirlo antimafioso. 

*Antonio Vesco è antropologo, ricercatore all’Università di Catania. Si occupa di mafia e stato, politica e consenso, commons e istituzioni. Tra i suoi lavori, Come pesci nell’acqua. Mafie, impresa e politica in Veneto (con Gianni Belloni, Donzelli, 2018).

fonte:https://jacobinitalia.it/se-tutto-e-politica-figuriamoci-la-mafia/