Lavori «truccati» al porto di Civitavecchia
Per la Procura le banchine riempite con materiali scadenti. Nove indagati
Sigilli al porto di Civitavecchia e nove indagati per frode nelle pubbliche forniture. Il brutto sospetto è che la
costruzione dei nuovi attracchi riservati alle navi commerciali stia avvenendo con materiale scadente e che
potrebbero essere seriamente danneggiati o naufragare con la furia della prima mareggiata. In sostanza, circa
130 milioni di euro rischiano di fare un buco nell’acqua. Ieri mattina nella cittadina sono arrivati i carabinieri
del Nucleo operativo ecologico di Roma, coordinati dal Capitano Ultimo, il colonnello Sergio De Caprio. I
militari hanno affisso cartelli di sequestro, chiesto dal capo della Procura Gianfranco Amendola e dal pm
Lorenzo Del Giudice e firmato dal giudice per le indagini preliminari Lorenzo Ferri. Per ora il provvedimento
è preventivo, vincolato all’esito dell’inchiesta partita circa un anno fa da una lettera anonima, rafforzata poi da
un altro esposto. La prima sosteneva che i lavori non erano fatti a mestiere. Il secondo è stato firmato dai
cavatori locali e ha puntato il dito sulla piaga, sulla presunta cattiva qualità dei materiali portati dai camion e
poi calati in mare per essere le fondamenta del nuovo porto. I fogli sono stati spediti all’Autorità portuale del presidente Pasqualino Monti e anche a Guardia di finanza, carabinieri, Corpo forestale dello Stato e Procura
di Civitavecchia. I militari si sono appostati, hanno verificato i carichi dei Tir e in alcuni casi hanno anche
intercettato conversazioni telefoniche dove si parla chiaramente di roba scadente al posto di materiale
adeguato al tipo di lavoro. Ieri il blitz. Gru e camion hanno dovuto spegnere i motori nel cantiere per la
costruzione delle «opere strategiche per 1° lotto funzionale, prolungamento antemurale Cristoforo Colombo,
darsena servizi e darsena traghetti», varato nell’estate del 2012, sulla carta da finire nello stesso periodo del
2015. In Italia è la più grande impresa marittima pubblica degli ultimi 15 anni. Detto in parole povere si tratta
di tirare su una trentina di banchine (la cifra è inferiore perché la numerazione è sfalsata). Sono braccia in
cemento che si allungano dalla costa, tenute a galla da grossi cassoni in metallo, cubi poggiati sul fondo colmi
di pietre e altro materiale da cava che dovrebbe assicurare il peso necessario per resistere agli scossoni del
mare grosso. Cosa che sembra non sia stata fatta. Prima di due anni fa lo spazio era occupato dalle onde.
Adesso è stato riempito con terra e sabbia. In questo modo i moli in cemento galleggiano a profondità che
possono sostenere le grandi navi cariche di container pieni di materie prime. Circa l’80% del tabellino di
marcia è stato percorso. Il restante 20% è ancora in alto mare e su questo rimanente sono scattate le indagini
di inquirenti e investigatori, e sono venuti a galla i dubbi che ancorano il progetto all’inchiesta.
A essere colpiti dall’ipotesi di reato non sono le ditte che hanno vinto l’appalto: l’associazione temporanea
d’impresa composta da Itinera, Impresa Pietro Cidonio, Grandi lavori Fincosit (la stessa incaricata di
realizzare il Mose, la diga mobile nel mare antistante Venezia) e Coopsette cooperativa. Pare che i carabinieri
abbiano colpito l’Ati solo di striscio. Nel mirino della Procura sono finite le ditte che lavorano in subappalto.
Si tratta di Pietro Lo Monaco: amministratore unico della srl che porta il suo nome, responsabile di estrazione
e movimentazione dei materiali lapidei dalla cava “Darsene Nord”, e con la stessa carica nella Stone&Green,
gestore della cava Sassicari. Ci sono Simone e Andrea De Amicis: amministratori della Siad autotrasporti e
scavi, si occupano del movimento terra e della fornitura del materiale da cava. Figurano Mauro Bellucci e
Giuseppe Celentano: dipendenti della Pietro Cidonio, deputati a controllare il materiale in entrata nel cantiere.
Compare Maurizio Mazzola: direttore della Cidonio. E infine in elenco c’è Alessandro Guerra: direttore
operativo della Rogedil servizio, aggiudicataria dell’appalto per la direzione dei lavori.
«Quella roba fa schifo, tutta monnezza»
Ecco le conversazioni tra autotrasportatori e colleghi nell’area della costruzione
Quattordici febbraio 2014, ore 15.23, un
autotrasportatore: «Perfetto… perfetto… è quella
roba de stamattina che faceva schifo, quattro
sassi grossi sopra e il resto tutta monnezza».19
febbraio, ore 7, 27, Simone De Amicis: «Sono
pietre bucate… Ahahah e ma è un peccato pure
buttarle quelle… quelle so’ da giardino so?».12
marzo, 7, 19, un altro conducente di Tir: «M’ha
scaricato un viaggio di merda e invece serviva
roba bona pe’ finì de riempì il cassone… ».
C’è quanto basta per avere pesanti sospetti nel
decreto di sequestro preventivo firmato dal gip
Ferri. Lui è lapidario: «I materiali (utilizzati per il
mantenimento dei cassoni a mare) per
caratteristiche, qualità, dimensioni, provenienza e
natura sono del tutto difformi da quanto previsto nei capitolati d’appalto».
Secondo il giudice, la provenienza sarebbe dalla cava Sassicari di Pietro Lo Monaco «non autorizzata
o comunque diversa da quella indicata nella documentazione prodotta». Stando alle carte le rocce
portate in cantiere risulterebbero «di dimensioni inferiori a quelle previste e, in frequenti casi, mescolate
a terra e marma».
Non solo. Il Gip scrive che «le caratteristiche geologiche sono difformi da quelle richieste».
E ancora, le pietre sarebbero pure inferiori a quelle previste per «caratteristiche di resistenza e di
compressione».
Per cui i cassoni sarebbero stati riempiti «con materiale deteriore». Le ipotesi sono gravi. Secondo le
indagini portate avanti sin qui dai carabinieri del Noe le anomalie non riguarderebbero solo la fase
finale, in cui tutto finisce sott’acqua. Le ipotesi di reato fatte sue dal Gip riguardano anche la fase di
estrazione delle rocce, irregolare anche questa: «Il materiale – scrive nel provvedimento preventivo –
viene estratto ricorrendo ad un martello pneutmatico utilizzato tramite escavatore e caricato sui mezzi
meccanici senza alcuna selezione, con terra e marma mescolata alla roccia. L’estrazione – prosegue
– avveniva presso una cava (dei Sissicari, di proprietà della società Stone&Green di Pietro Lo Monaco)
diversa da quella (la cava Fioritta) indicata nei documenti di trasporto esibiti a personale del Corpo
forestale nel corso di un controllo amministrativo. La cava da dove provengono effettivamente i
materiali impiegati nei lavori non è autorizzata a procedure di estrazione con finalità industriali e
costruttive».
Poi la chicca: «È stato inoltre acquisito un filmato in cui un autocarro della società Fantozzi
proveniente dalla cava di Basilina presso Bagnoregio (nel Viterbese), prima di recarsi nel porto di
Civitavecchia a scaricare il materiale, effettuava una sosta presso gli impianti di recupero di rifiuti edili
“Nuova Eco Edilizia».
(Articoli tratti da Il Tempo – Roma Capitale)