Accusato di aver incassato 900mila euro per acquistare un appartamento alla figlia nel centro di Roma, il ministro del governo Berlusconi non può limitarsi a generiche evocazioni di complotti. Necessarie le spiegazioni, circostanziate, in Parlamento. Il caso è odioso perché configurebbe lo sfruttamento di una posizione di potere: soldi in cambio di appalti
Perché la vicenda in cui è coinvolto il ministro Claudio Scajola non può passare come intendono farla passare il presidente del Consiglio e il governo, evocando un generico e indefinito complotto ai danni di un esponente di peso della maggioranza? Perché non basta appellarsi al garantismo o, al contrario, come fa l’Italia dei Valori, pretendere dimissioni immediate?
Sono queste le domande che occorre porsi, da subito, perché quello che ormai è sulle pagine dei giornali da giorni – anche il “Corriere della Sera” ha dato ampio risalto al caso – non è la solita selva di accuse e controaccuse, confuse e generiche, che si concluderà, come ha già pronosticato il premier, in “una bolla di sapone”.
Non conta che il ministro non sia indagato e non abbia ricevuto avvisi di garanzia, perché a Scajola sono mossi addebiti pesanti. Lo si accusa di aver – né più né meno – incassato una tangentona da 900mila euro dal costruttore che è stato il vero dominus della “cricca”, il rodato consesso di uomini che per anni hanno manovrato i più importanti appalti pubblici nel nostro Paese. Quei 900mila euro sarebbero serviti a Scajola per acquistare più o meno i due terzi di un appartamento nel centro di Roma, a due passi dal Colosseo.
La prima difesa di Scajola – che sosteneva di aver acquistato quell’appartamento poi intestato alla figlia con un comunissimo mutuo – è saltata, ora i quotidiani ci dicono che i testimoni (tra cui i precedenti proprietari della casa) e i rilevamenti bancari certificano che Scajola ha smistato i soldi ricevuti da Anemone tramite prestanome, e li ha tenuti fuori dalla registrazione ufficiale della compravendita. Li avrebbe, insomma, versati in nero, “fuori busta”.
Tutte queste informazioni sono frutto di pura e semplice cronaca giudiziaria: i dati e le circostanze sono emersi infatti in tutta la loro evidenza (nei giorni scorsi si era rimasti alle indiscrezioni) per una questione procedurale. I pm di Perugia, infatti, hanno dovuto fare ricorso contro una decisione del gip che ha dichiarato la procura territorialmente incompetente a procedere sul filone d’inchiesta.
Ovvio che Scajola, fino a prova contraria, è innocente. Suscita perplessità – o qualcosa di più – l’assenza della difesa di fronte alla gravità del fatto presunto. Le spiegazioni sono necessarie stavolta, più di tutte le altre, più dei casi Fitto e Bertolaso, più persino, in un certo senso, dei processi che riguardano Silvio Berlusconi: in tutti dibattimenti, da Mediaset a Mills a Imi – Sir, Sme e al lodo Mondadori, era sempre in questione il comportamento del cittadino Berlusconi. Qui invece, si tratterebbe né più né meno di un sfruttamento di una posizione di potere: soldi in cambio di appalti. Non è odioso questo, non è la tanto di più in un momento in cui le famiglie stringono la cinghia per arrivare alla fine del mese e i giovani devono indebitarsi per decenni per avere una casa dignitosa? E certo non di fronte al Colosseo.
L’auspicio è che Scajola non c’entri niente: almeno per non dare un ulteriore colpo, questo sì potente, alla credibilità della classe politica.
Si difenda Scajola, colpo su colpo. E lo faccia in Parlamento, di fronte ai rappresentanti dei cittadini. Di fronte a tutti, senza nascondersi come sta facendo. Se non vuole spiegare o non può spiegare, allora si dimetta: non per gli articoli, ma per la latitanza della chiarezza, che a questo punto è un suo dovere.
Andrea Scarchilli
(Tratto da Aprileonline)