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Santoro torna in tv e intervista il pentito Avola. I pm: ”Dice il falso”

Santoro torna in tv e intervista il pentito Avola. I pm: ”Dice il falso”

Aaron Pettinari 29 Aprile 2021

Grossi dubbi e mancati riscontri sulla strage di via d’Amelio

“Io posso dire che c’ero e sono uno degli esecutori materiali della strage di via d’Amelio. E sono l’ultima persona che ha visto lo sguardo di Paolo Borsellino prima di dare il segnale per l’esplosione”. Sono queste alcune delle parole di Maurizio Avola, ex killer di Cosa nostra catanese, con cui riscrive la storia delle stragi messe in atto dalla mafia nei primi anni ’90.
Già qualche anno fa aveva raccontato nuovi risvolti sulla morte del giudice della Corte di Cassazione
Antonino Scopelliti, ucciso il 9 agosto 1991, in località Piale di Villa San Giovanni, su Matteo Messina Denaro e sulla strage di Capaci, tanto da essere stato sentito nei processi ‘Ndrangheta stragista e Capaci bis. Adesso, però, Avola ha aggiunto ulteriori dettagli su un’altra strage, quella di via d’Amelio, su cui da sempre aleggiano inquietanti ombre ed una verità, purtroppo, ancora non completa sul come e perché furono uccisi Paolo Borsellino e gli agenti della scorta Eddie Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi e Claudio Traina.
Dichiarazioni che aveva fatto ai magistrati ma anche a
 Michele Santoro che le ha inserite nel libro “Nient’altro che la verità” (edito da Marsilio).
Da queste dichiarazioni si è partiti nello speciale “Mafia – La ricerca della verità” realizzato dal
TgLa7 e da La7 condotto da Enrico Mentana, con Andrea Purgatori e il ritorno in tv dello stesso Michele Santoro. Ospiti anche la figlia di Paolo Borsellino, Fiammetta, ed Antonio Di Pietro.
Lo diciamo sin da subito: le dichiarazioni di Avola, così sconcertanti nella forma e che ridisegnerebbero lo scenario della strage del 19 luglio 1992, non ci convincono per niente e potrebbero essere frutto di una sporca manovra.
“Borsellino scende dalla macchina e lascia lo sportello aperto – ha detto il pentito catanese – Io mi fermo, mi giro e lo guardo, mi accendo una sigaretta. Lo guardo, mi giro e faccio il segnale, verso il furgone a Giuseppe Graviano e vado a passo elevato. Mi dà 12 secondi per allontanarmi. Ho avuto la sensazione che Emanuela Loi ha visto il led rosso dell’auto, lei alza il passo e non capisco se sta andando verso la macchina. A quel punto mi sono allontanato. Se non esplodeva la macchina avrebbero attaccato con i bazooka”.
Già a queste affermazioni sorgono i primi pesanti dubbi. Perché nelle testimonianze di
Antonio Vullo, l’agente sopravvissuto all’attentato, non vi è il dato dello sportello della macchina lasciato aperto dal giudice. E se così fosse stato è anche facile ipotizzare che la borsa del giudice all’interno dell’auto non sarebbe stata ritrovata pressoché intatta. Ma è un’altra affermazione di Avola che non solo ci ha lasciato perplessi, ma ci fa fortemente dubitare del dichiarato del collaboratore di giustizia. “Il nostro ottavo uomo – ha affermato – era lo Stato non i servizi segreti. Hanno fatto una ricostruzione diversa, posso giurare che non c’erano uomini dei servizi. Io dovevo fare la guerra allo Stato”.

E poi ancora ha affermato di essere stato lui a caricare la macchina, la Fiat 126 che rubò Gaspare Spatuzza, di esplosivo sconfessando quel che disse lo stesso ex boss di Brancaccio rispetto alla presenza di un uomo “non di Cosa nostra” all’interno del garage in via Villasevaglios. Io credo che lui abbia visto Aldo Ercolano – ha detto – Io ero al garage e lui non era un uomo d’onore. Ha detto una rilevante parte, ma non era un esecutore materiale della strage e non può sapere alcuni retroscena della strage Borsellino. O ha visto me o Aldo Ercolano. Lo dico con certezza. Non c’era nessuno dei servizi, ma solo boss e tutti di Cosa nostra”. Poi ha anche parlato dell’esplosivo usato e della preparazione dell’auto.
Nella giornata di oggi, rispetto al dichiarato di Avola, è intervenuta la stessa Procura di Caltanissetta, con tanto di comunicato stampa firmato dal Procuratore facente funzioni
Gabriele Paci, che vale più di ogni commento. Rispetto alla dichiarazione di Avola sulla sua partecipazione alla fase esecutiva della strage di Via d’Amelio, insieme a Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro, Aldo Ercolano e altri, il magistrato nisseno ha sottolineato che questa circostanza era stata riferita per la prima volta da Avola nel corso di un interrogatorio lo scorso anno, davanti ai magistrati della Dda, “a distanza di oltre 25 anni dall’inizio della sua collaborazione con l’autorità giudiziaria”. Gli accertamenti disposti dalla procura, finalizzati a vagliare l’attendibilità di dichiarazioni riguardanti una vicenda “ancora oggi contrassegnata da misteri e zone grigie”, per Paci, “non hanno allo stato trovato alcuna forma di positivo riscontro che ne confermasse la veridicità”. Piuttosto, dalle indagini demandate alla Dia, ha evidenziato Paci, “sono per contro emersi rilevanti elementi di segno contrario che inducono a dubitare tanto della spontaneità quanto della veridicità del suo racconto”. Nel comunicato viene citato anche il fatto: l’accertata presenza di Avola a Catania, “addirittura con un braccio ingessato, nella mattinata precedente il giorno della strage, là dove, secondo il racconto dell’ex collaboratore egli, giunto a Palermo nel pomeriggio del venerdì 17 luglio, avrebbe dovuto trovarsi all’interno di una abitazione sita nei pressi del garage di via Villasevaglios, pronto, su ordine di Giuseppe Graviano, a imbottire di esplosivo la Fiat 126 poi utilizzata come autobomba”. Ha poi concluso il Procuratore facente funzioni di Caltanissetta Paci: “Colpisce peraltro che Avola, anziché mantenere il doveroso riserbo su quanto rivelato a questo ufficio, abbia preferito far trapelare il suo asserito protagonismo nella strage di Via d’Amelio, oltre a quello di Messina Denaro, Graviano e altri, attraverso interviste e la pubblicazione di un libro. Lascia altresì perplessi che egli abbia imposto autonomamente una sorta di ‘discovery’ compromettendo così l’esito delle future indagini, dopo che l’ufficio aveva provveduto a contestargli le numerose contraddizioni del suo racconto e gli elementi probatori che inducevano a dubitare della veridicità di tale sua ennesima progressione dichiarativa”.

Perplessità e dubbi
Alcuni dubbi sulle dichiarazioni di Avola erano stati espressi già nel corso del programma dallo stesso
Andrea Purgatori. Ci sono delle cose che stridono e delle cose che possono combaciare – aveva affermato – La prima cosa è il fatto che il sistema elettronico viene da Catania, questo è stato accertato, ci sono due apparati costruiti da azienda di Treviso che li aveva venduti a Catania e questi apparati sono finiti non solo in questa strage. Avola parla di un detonatore piccolo maneggevole, in realtà la parte che hanno trovato in via d’Amelio di quel sistema elettronico dove c’era segnale è piuttosto grosso, ha dimensioni di un piccolo computer. La seconda cosa che mi ha colpito è il fatto che lui dice che Nitto Santapaola che era il capo famiglia catanese non era d’accordo di quello che accadeva, noi sappiamo per certo che Nitto è sempre stato contrario all’idea stragista di Totò Riina, contrario in segreto. Questo è un altro aspetto che combacia. La cosa che io non riesco ancora a mettere a fuoco è la presenza con ruolo così cruciale di un catanese in un attentato come quello contro Paolo Borsellino che viene deciso dalla commissione palermitana”.
Anche
Fiammetta Borsellino, nel suo intervento, su Avola ha preferito non esprimersi.
Certo è che il tentativo di togliere dallo scenario della strage l’ombra dei servizi e soggetti esterni a Cosa nostra appare evidente, nonostante le molteplici evidenze fin qui raccolte tra, indagini, sentenze e processi.
Proprio
Spatuzza, sentito al Borsellino quater disse in maniera chiara:La persona che era nel garage in cui portammo la 126 usata per la strage non era di Cosa nostra. Ne sono convinto. Ho una diapositiva in testa e in questi anni ho cercato di mettere a fuoco questa persona. Ho fatto pure una descrizione, effettuando un riconoscimento fotografico ma non è che posso dire cose. Tra le possibilità c’è che possa appartenere alle forze dell’ordine e la mia vita la gestiscono loro, sono io la prima persona ad avere interesse a vederla in carcere. Ma proprio non ricordo. Questo è un mistero fondamentale da risolvere e io sono qui per la verità”. Quindi fornì un ulteriore dato su quel “mister X” non appartenente a Cosa nostra.Ribadisco di non averlo mai visto prima, né dopo nessuno mi ha mai detto chi fosse”.
Senza contare delle svariate sentenze sulla strage di via d’Amelio, come il Ter ed il Quater, in cui si mettono in evidenza i possibili coinvolgimenti esterni a Cosa nostra sul delitto.
Di tutto questo nella trasmissione di ieri non si è parlato, così come non si è parlato della fotografia in cui si vede l’allora Capitano
 Giovanni Arcangioli del Nucleo Operativo Provinciale dei Carabinieri di Palermo immortalato nell’atto di allontanarsi dal luogo della strage”, il pomeriggio del 19 luglio 1992, in direzione di via dell’Autonomia Siciliana, con in mano proprio la borsa del Magistrato” (di Paolo Borsellino, ndr).
Un elemento non da poco che si inserisce all’interno di quel buco nero che caratterizza la sparizione dell’Agenda Rossa del giudice Borsellino. Quell’azione rappresenta il più clamoroso e drammatico fatto perché è evidente che non furono uomini di Cosa nostra a sottrarla dalla borsa del giudice.
La nostra redazione è stata testimone diretta per quanto riguarda il ritrovamento dell’immagine dell’allora capitano dei carabinieri
Giovanni Arcangioli con in mano la borsa del giudice. E in merito il nostro vice-direttore, Lorenzo Baldo, ha anche testimoniato nel quarto processo sulla strage.
Successivamente furono recuperate le immagini televisive dove viene ritratto Arcangioli (indagato e prosciolto dall’accusa del furto dell’agenda), per nulla in stato di choc, mentre, attorno alle 17.30, si allontana velocemente dall’auto della vittima con in mano la valigetta di cuoio in direzione di via Autonomia Siciliana. E vi sono anche altri video dove appare l’allora capitano dei carabinieri a colloquio con altre persone.
Certo è che, come hanno scritto i giudici del Borsellino quater, su cosa accadde in quel giorno Arcangioli non ha fornito risposte soddisfacenti anzi, ha rilasciato “una deposizione ben poco convincente” oltre ad aver avuto un comportamento “molto grave”.
Sappiamo che la valigetta è ricomparsa nella macchina successivamente, circa un’ora dopo. Venne sequestrata e portata in Questura il giorno successivo. L’agenda del giudice, però, non c’era. Chi l’ha fatta sparire? Perché? Sono queste le domande che ventisei anni dopo devono ancora trovare una risposta. Che quel giorno il magistrato avesse l’agenda con sé è un dato certo che i familiari hanno raccontato più volte e vi sono più testimoni che hanno riferito come la stessa venisse usata dal giudice Borsellino per effettuare delle annotazioni.
Eppure ieri proprio Santoro ha sostenuto che sarebbe “inverosimile” che Borsellino abbia lasciato l’agenda nell’auto mentre suonava il campanello dell’abitazione della madre. Secondo il giornalista, dunque, la aveva con se nel momento dell’esplosione? O non la aveva affatto? Il dire e non dire sul punto lasciando aperta l’ipotesi, è evidente, svia l’attenzione del pubblico creando solo confusione.
L’accelerazione della strage
Sicuramente l’agenda rossa di Borsellino è una chiave importante per comprendere il motivo per cui fu necessario compiere un attentato appena 57 giorni dopo la strage di Capaci. Cosa poteva aver scritto in quella agenda
Paolo Borsellino? C’erano le sue intuizioni sulla morte del giudice Giovanni Falcone (aveva dichiarato pubblicamente di essere un testimone che aveva raccolto i pensieri di Falcone) e su quel “dialogo” tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra, di cui aveva accennato a sua moglie Agnese prima di essere assassinato assieme ai cinque agenti della sua scorta?
Come è avvenuto in altri omicidi eccellenti non si può escludere che vi sia stata una convergenza di interessi che ha portato all’eliminazione di Borsellino e il depistaggio che è stato perpetrato fa intendere chiaramente che questi non riguardassero solo Cosa nostra.
Nelle motivazioni della sentenza trattativa Stato-Mafia vengono spiegati i motivi che portarono a
 “l’improvvisa accelerazione che ebbe l’esecuzione del dottore Borsellino” e si evidenzia come “l’unico fatto noto di sicura rilevanza, importanza e novità verificatosi in quel periodo per l’organizzazione mafiosa sono stati i segnali di disponibilità al dialogo – ed in sostanza, di cedimento alla tracotanza mafiosa culminata nella strage di Capaci – pervenuti a Salvatore Riina, attraverso Vito Ciancimino, proprio nel periodo immediatamente precedente la strage di via d’Amelio”.

Perché non c’entra mafia-appalti
E’ questo l’elemento di novità di
quei 57 giorni, come rappresentato da Purgatori in studio, per cui, come abbiamo scritto in altre occasioni non può essere considerata come decisiva nella ricostruzione per comprendere ciò che avvenne ormai quasi 29 anni addietro, cioè le stragi di Capaci, via d’Amelio e nel 1993 gli attentati di Firenze, Roma e Milano.
Eppure durante la trasmissione tanto
 Fiammetta Borsellino quanto Antonio Di Pietro hanno più volte insistito su quell’elemento, indicandolo come possibile elemento scatenante che portò alla morte il magistrato palermitano.
Non solo, la figlia del giudice Borsellino, ha affermato in maniera perentoria che
nella sentenza trattativa si dice una menzogna” in quantosi dice che mio padre fosse addirittura disinteressato al dossier ‘mafia e appalti’ o che non lo conoscesse ma non è vero, perché lo conosceva benissimo”.
Ma a ben leggere la sentenza la considerazione dei giudici è diversa, e certamente non in maniera assoluta.
“Tale indagine – scrivevano i giudici della Corte d’Assise di primo grado – non era certo l’unica né la principale di cui quest’ultimo (Borsellino, ndr) ebbe ad interessarsi in quel periodo (basti pensare che il dottor Borsellino, tra le altre indagini, stava raccogliendo le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia agrigentini e, da ultimo, anche del palermitano Gaspare Mutolo)”. Quindi si evidenziava come, sul piano logico, non vi fosse la “certezza che Borsellino possa aver avuto il tempo di leggere il rapporto mafia-appalti e di farsi, quindi, un’idea delle questioni connesse, mentre, al contrario, è assolutamente certo che non vi fu alcuno sviluppo di quell’interessamento nel senso di attività istruttorie eventualmente compiute o anche solo delegate alla P.G., che, conseguentemente possano aver avuto risalto esterno giungendo alla cognizione di vertici mafiosi, così da allarmarli e spingerli improvvisamente ad accelerare l’esecuzione dell’omicidio”.
Altro fatto noto, raccontato durante la trasmissione, è il clima non sereno all’interno del Tribunale e che l’allora Procuratore capo
Pietro Giammanco aveva tenuto nascosto allo stesso Borsellino l’arrivo dell’informativa in cui si attestava l’arrivo a Palermo del tritolo che lo avrebbe dovuto uccidere.
Resta comunque clamorosa è l’insinuazione della figlia del giudice su ciò che si sarebbe nascosto dietro alla nota affermazione che il padre fece a sua madre,
Agnese Borsellino, sul generale Antonio Subranni, che sarebbe stato “punciutu”. Quelle dichiarazioni (Il 15 luglio 1992, verso sera, conversando con mio marito in balcone lo vidi sconvolto. Mi disse testualmente: ho visto la mafia in diretta, perché mi hanno detto che il generale Subranni era punciutu. Tre giorni dopo, durante una passeggiata sul lungomare di Carini, mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere”) secondo la figlia del giudice sarebbero potute essere il frutto di un “depistaggio” ordito da qualcuno all’interno della Procura di Palermo.

La complessità di Scarantino
Altro argomento affrontato durante la trasmissione è quello della falsa collaborazione di
Vincenzo Scarantino. Un tema troppo complesso per lasciarlo a pochi minuti tenuto conto che lo stesso picciotto della Guadagna fu “indotto a mentire” mescolando il vero ed il falso con elementi “coincidenti” persino con il dichiarato di Spatuzza proprio per rendere “credibile” il racconto del “pupo”.
Sicuramente le azioni che sono state commesse nella prima fase delle indagini su via d’Amelio, sono un fatto grave che va perseguito e su cui va fatta chiarezza, ma il cuore dei misteri sulla strage è nel conoscere il volto di quei concorrenti esterni che nella migliore delle ipotesi hanno avallato e nella peggiore hanno ordinato ed avuto un ruolo attivo nell’esecuzione dell’attentato. Una ricerca della verità che continua oggi non solo con i processi in corso tra Palermo, Caltanissetta e Reggio Calabria, ma anche nell’inchiesta della Procura di Firenze che vede indagati l’ex premier
 Silvio Berlusconi e il senatore (già condannato definitivo per concorso esterno in associazione mafiosa) Marcello Dell’Utri.
Che sia in corso un nuovo depistaggio investigativo proprio per confondere le acque su questi molteplici fronti e togliere ogni responsabilità a quei settori deviati dello Stato che possono aver avuto un ruolo in stragi e trattative? Un’ipotesi, se non anche una certezza, nel momento in cui si vuole dare corpo all’immagine di una mafia che oggi non spara più e non vuole stragi.
In barba a minacce e condanne a morte a quei magistrati impegnati in prima linea contro il Sistema criminale e che si trovano ancora oggi sotto scorta: da
 Nino Di Matteo a Giuseppe Lombardo, passando per Nicola Gratteri, Luca Tescaroli, Sebastiano Ardita, Roberto Scarpinato, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene, per citarne solo alcuni.
O forse il “gioco grande” è proprio quello di far credere che il Sistema criminale non esiste e che sia “tutto Cosa nostra”.

Fonte:https://www.antimafiaduemila.com/