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Salvatore Incardona, l’uomo che si ribellò ai clan

Salvatore Incardona, l’uomo che si ribellò ai clan

Da Giuseppe Bascietto – 9 Giugno 2022

Fuori dalla Sicilia si sa ben poco di Vittoria città delle primizie, di fontane della pace e di chioschi delle stragi. Di morti ammazzati e di prepotenze ai danni della povera gente. A Vittoria l’emergenza non esiste. La mattanza è la norma.
Oltre 100 morti ammazzati tra il 1989 e il 1992. 1300 arresti per mafia negli ultimi anni. 500 persone considerate dagli investigatori appartenenti alle bande criminali. In questo contesto di violenza e di paura, dove l’omertà sembra prevalere, si alza forte e potente la voce di un commerciante.
Di un bravo e coraggioso commerciante che contribuisce a rompere quel muro di omertà che da decenni protegge la mafia e i suoi amici. Una storia vecchia, dimenticata, ma ancora attualissima che parla di pizzo, intimidazioni, collusioni e ribellione. È la storia di Salvatore Incardona che inizia a Vittoria nella prima metà degli anni ottanta quando, come tutti i colleghi del mercato ortofrutticolo, viene chiamato dal Giudice istruttore Michele Duchi, un magistrato integerrimo, che voleva indagare sulla mafia e sulle estorsioni in provincia di Ragusa. Duchi faceva parte di quella élite di magistrati che in quegli anni si erano messi in testa di combattere la mafia mandando in galera boss e gregari. Il loro obbiettivo era di ripulire le città e di far riprendere allo Stato il controllo del territorio, ma ogni volta che indagavano si trovavano di fronte un muro di gomma. Nessuno parlava. Inaspettatamente, con Salvatore Incardona, le cose andarono diversamente. Duchi aveva davanti a sé un uomo che non aveva paura di raccontare quanto stava accadendo. “L’estorsione, ormai, era diventata una prassi consolidata, spiega Incardona al Giudice Duchi. A chiedere i soldi, all’inizio degli anni ottanta erano Cirasa e i Gallo, che andavano in giro nei box accompagnati da Pizzimenti che si dichiarava amico di tutti ma amico non era. Erano loro a chiedere il pizzo ai commissionari. Non c’era un tariffario ben preciso ma una sorta di sovrapprezzo sull’acquisto delle cassette per imballare le zucchine, le melanzane, i pomodori. Il clan aveva messo in piedi un meccanismo che con il tempo sarebbe diventato perfetto. Tutte le aziende che costruivano casse facevano confluire il loro prodotto in un unico consorzio e i commissionari dovevano rifornirsi in quel consorzio, garantendo in questo modo l’acquisto delle cassette. “Quasi tutti i colleghi avevano accettato questa soluzione” ricorda il figlio Carmelo che aggiunge: “qualcuno che non acquistava le casse presso il consorzio c’era.
Mio padre, per esempio, le acquistava da un piccolo artigiano di Vittoria. Molte volte utilizzava casse già usate che riacquistava dai rivenditori ambulanti o piccoli commercianti”.
Insomma i colleghi accettando questa situazione avevano istituzionalizzato la tassa, il sovrapprezzo imposto e nessuno aveva mai denunciato per paura di essere ucciso. Salvatore era diverso. Aveva paura che gli potesse succedere qualcosa ma andava avanti consapevole che la battaglia contro il pizzo andava fatta. Ogni volta che capitava di affrontare l’argomento con chiunque ripeteva sempre che la strada da perseguire era quella di non pagare e denunciare il fenomeno per porre fine, una volta per tutte, alle richieste estorsive. E lo faceva apertamente sempre anche con i suoi colleghi. Lo aveva fatto anche con il giudice Duchi al quale aveva descritto l’organigramma della mafia vittoriese dodici anni prima dell’operazione squalo che aveva decimato e mandato in carcere l’intero Clan.
Nel frattempo i vertici della mafia vittoriesi erano cambiati. Cirasa era stato assassinato dai Gallo, i quali a loro volta erano stati sterminati dai Carbonaro e Dominante. Questi ultimi avevano dato vita ad un sodalizio criminoso tra i più feroci e sanguinari della mafia siciliana e si erano legati alla cosiddetta Stidda. A Vittoria avevano diffuso il terrore e si erano autoproclamati “padroni della città”. Avevano deciso che il territorio andava assoggettato centimetro per centimetro. In questo contesto avevano preso di mira il cuore economico di Vittoria: il mercato ortofrutticolo.
Salvatore e tutti gli altri operatori erano ancora una volta sotto pressione. Ma lui non aveva cambiato idea sulla necessità, per contrastare la mafia, di non pagare. Ora però avvertiva che la situazione era diversa rispetto al passato. Così nel 1989 quando nelle riunioni con i commercianti cerca di convincere i colleghi a non pagare più il pizzo, a costituire un’associazione antiracket e a firmare tutti insieme una denuncia collettiva contro i boss mafiosi si ritrova solo. Salvatore era un uomo con un fortissimo senso del dovere e con una forte simpatia per il Movimento sociale Italiano che non si preoccupava di nascondere. Il figlio Carmelo, che all’epoca aveva 25 anni, ricorda: “papà lo diceva apertamente, “io non pago”. Lo diceva a me, ma anche al bar, in piazza e durante i comizi. Ai colleghi che come lui avevano un box al mercato diceva: “Se ci opponiamo tutti non potranno farci niente”. Incardona voleva solo difendere il proprio lavoro, non accettava di sottostare a una soperchieria che lo privava di una parte del suo guadagno. Ma i suoi colleghi, ormai, l’estorsione del clan Carbonaro-Dominante l’avevano accettata tutti, l’avevano istituzionalizzata, come se fosse una tassa. Un’addizionale da calcolare sulle cassette di legno impiegate.
Addirittura alcuni suoi colleghi erano andati a trovarlo per dirgli di non inceppare il sistema tanto alla fine pagava il cliente. Ma Salvatore si rifiutò. Andava ripetendo a tutti che era necessario denunciare i mafiosi che chiedevano il pizzo e contemporaneamente accusava chi pagava il pizzo di essere complice morale dei criminali. Di questo rifiuto furono informati i fratelli Carbonaro che fecero un ultimo tentativo inviando Carmelo Dominante. Ma Incardona appena lo vide all’interno del suo box lo prese per il colletto della camicia e lo buttò fuori dicendo che se fosse tornato lo avrebbe denunciato.
E così il 9 giugno del 1989, alle sei e trenta del mattino, entrarono in funzione i Kalashnikov. I killer lo stavano aspettando fuori dal garage da dove ogni giorno tirava fuori la sua macchina per andare al lavoro. Improvvisamente la quiete del mattino fu squarciata dal rombo di un motore e da diversi colpi d’arma da fuoco. Poi il silenzio. Inquietante, minaccioso. A spezzarlo ci hanno pensato le sirene delle auto della polizia e dei carabinieri che appena arrivati hanno trovato il corpo del commerciante riverso sul sedile, pieno di sangue e di pallottole.
Muore sul colpo Salvatore Incardona, a 50 anni appena compiuti, e lascia la moglie e 4 figli, la più piccola, Eliana, aveva 8 anni e il più grande Carmelo 25. In mezzo Valeria di 11 anni e Gianni di 23. Naturalmente nessuno ha visto o sentito niente. Come nella più classica storia di mafia.
All’indomani dell’omicidio tutti s’interrogano: perché viene ucciso? Era forse coinvolto in affari poco puliti? In realtà le indagini dei carabinieri da subito si indirizzano sul movente estorsivo, si riempiono man mano di tasselli, fino alla svolta del 1992, quando i dubbi vengono spazzati via da Silvio Carbonaro, dell’omonimo clan, che a proposito dell’omicidio Incardona dice: “fu ucciso perché non voleva cedere alle nostre richieste estorsive. Ogni volta che gli telefonava qualcuno per chiedergli i soldi dell’estorsione diceva sempre che non avrebbe pagato”. Allora Carmelo Dominante disse che “per aggiustare il mercato si doveva uccidere chi faceva più casino e tentava di convincere gli altri posteggiatori del mercato a non pagare”.
“Nelle riunioni che faceva con i commercianti li incitava a resistere e parlava male di noi chiamandoci parassiti”. Da qui la decisione di eliminarlo. Incardona fu ucciso e tradito due volte. Prima fu lasciato solo a opporsi al racket, poi, da morto, fu abbandonato da chi sapeva e anzi la sua memoria fu inquinata dal sospetto. “Io non sono andato al suo funerale”, confessa un politico di Vittoria, “perché se era stato ammazzato poteva essere in qualche modo coinvolto in affari loschi”. “Questa era la voce che circolava all’indomani dell’omicidio”, ricorda il figlio Carmelo che aggiunge: Tutti all’ortomercato conoscevano i pericoli che mio padre correva, ed e? impensabile che qualcuno possa poi aver dubitato sui reali motivi della sua uccisione. D’altra parte e? illogico che le cose note al mercato, motore dell’economia vittoriese, non giungessero in citta?, dove gli addetti e gran parte dei commissionari vivono.
In realtà Salvatore Incardona era un uomo coraggioso che fu ucciso due anni prima di Libero Grassi, l’imprenditore palermitano che si oppose al pizzo e fu eliminato da Cosa Nostra nel 1991.
Nelle conclusioni della sentenza di condanna dei mandanti e degli esecutori i giudici, infatti, scrivono che “al di fuori di ogni retorica, la figura di Salvatore Incardona è stata tra i più fulgidi esempi di resistenza all’ingiustizia e di opposizione alla sopraffazione”.
Senza ombra di dubbio, Salvatore Incardona può essere considerato un precursore dell’attuale movimento d’imprenditori e di cittadini siciliani che hanno deciso di sfidare apertamente le mafie cominciando col ribellarsi al giogo del “pizzo”. Lo ha fatto in un tempo in cui pochi avevano il coraggio di alzare la testa. A Vittoria il 26 settembre 1998 gli è stata intitolata una strada. Ci sono voluti nove anni.

Fonte:https://www.laspia.it/salvatore-incardona-luomo-che-si-ribello-ai-clan-2/