A finire in manette la dirigenza del consorzio che gestisce l’impianto di smaltimento a Colleferro (Roma)
Un termovalorizzatore modello costretto a ingoiare e bruciare di tutto. È questa l’accusa di fondo per cui stamane i carabinieri del Nucleo operativo ecologico di Roma hanno eseguito 13 ordini di custodia cautelare degli arresti domiciliari, emessi dal gip del tribunale di Velletri, nelle province di Roma, Latina, Frosinone, Napoli, Avellino, Bari, Foggia, Grosseto e Livorno. I reati contestati a vario titolo sono di associazione per delinquere; attività organizzata per traffico illecito di rifiuti; falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico; truffa aggravata ai danni dello Stato; favoreggiamento personale; violazione dei valori limiti delle emissioni in atmosfera e prescrizione delle autorizzazioni; accesso abusivo a sistemi informatici.
A finire nei guai il direttore tecnico e responsabile della gestione dei rifiuti degli impianti di termovalorizzazione di Colleferro, Paolo Meaglia; un dirigente dell’Ama; soci e amministratori di società di intermediazione di rifiuti e di sviluppo di software, chimici di laboratori di analisi. I militari oggi hanno provveduto anche a notificare 25 informazioni di garanzia. Le indagini dei carabinieri sono durate circa un anno e sono passate attraverso «servizi di osservazione dei luoghi», «ispezioni e controlli agli impianti». Al centro della questione e della stessa inchiesta del pm Giancarlo Cirielli, della Procura di Velletri, c’è stata la verifica della qualità e consistenza del combustibile da rifiuti (Cdr) che veniva immesso nei cicli gestionali degli impianti di termovalorizzazione di Colleferro, alle porte della Capitale.
Gli accertamenti del Noe hanno permesso di raccogliere chiari elementi di responsabilità – si spiega – a carico dei soggetti che conseguivano ingiusti profitti, rappresentati dai maggiori ricavi e dalle minori spese di gestione dei rifiuti che venivano prodotti e commercializzati come Cdr pur non avendone le caratteristiche. In gran parte invece, l’impianto doveva, era costretto, a trattare rifiuti speciali anche pericolosi e quindi non utilizzabili nei forni dei termovalorizzatori per il recupero energetico. Il modus operandi era chiaro. Prima si allestivano uomini e mezzi (impianti di trattamento e recupero, intermediari, laboratori d’analisi, gestori di rifiuti), che conferivano ingenti quantitativi di rifiuti urbani non differenziati ai termovalorizzatori, classificandoli come Cdr benchè privi delle caratteristiche previste dalla legge.
Il passaggio successivo era la falsificazione e predisposizione di certificati di analisi redatti da liberi professionisti (chimici) che attestavano falsamente dati sulla natura, composizione e caratteristiche chimico-fisiche dei rifiuti, che hanno consentito la classificazione degli stessi come Cdr. La truffa ai danni dello Stato ammonterebbe a oltre 60 milioni di euro. Grazie all’ottenimento di incentivi statali, previsti dal CIP 6/1992, e non dovuti e nel dichiarare al Gestore Servizi Elettrici consumi di gas metano per uso generazione elettrica inferiori a quelli effettivi. Inoltre agli indagati, in concorso, è contestata anche l’alterazione dei dati relativi ai valori fuori limite, attraverso l’introduzione nei sistemi informatici destinati al controllo dei fumi e delle emissioni inquinanti, alla gestione e conservazione dei relativi dati e la trasmissione degli stessi agli organismi di controllo.
E se c’era qualcuno che si opponeva, all’interno degli impianti, bisognava procedere con «contestazioni disciplinari e sospensioni lavorative, al fine di evitare la collaborazione degli stessi con l’autorità giudiziaria». I militari ritengono significativo, in tal senso, l’episodio che riguarda la combustione di gomme intere di veicoli all’interno del termodistruttore, nonostante le rimostranze e i dubbi posti da alcuni operai verso i responsabili dell’impianto; oppure la combustione di altro materiale non idoneo, che veniva annotato dagli operai sulla documentazione e registri di accettazione con diverse diciture quali ’munezzà, ’pezzatura grossà o ’scadentè. Il gip di Velletri Alessandra Ilari ha disposto il sequestro preventivo degli impianti di termovalorizzazione di Colleferro, autorizzando comunque la continuazione delle attività, sotto la vigilanza del personale del Noe di Roma.
Il giudice ha anche disposto il campionamento giornaliero dell’Arpa sul Cdr in entrata, sui rifiuti prodotti ed analisi dei fumi dei camini. entro 90 giorni, comunque, ci dovrà essere il rilascio dell’Aia, autorizzazione integrata ambientale).Era tutto proibito nei due impianti di Colleferro che avrebbero dovrebbero trattare solo combustibile derivato da rifiuti. E l’immondizia «tossica» proveniva anche dalla Campania, da un’azienda di Serino, in provincia di Avellino. Dopo gli avvisi di garanzia emessi nelle scorse settimane i provvedimenti di arresti domiciliari eseguiti oggi dai carabinieri del Noe, chiudono una ricostruzione dei fatti che copre l’attività dei termovalorizzatori per almeno tre anni.
Era stata la denuncia di un ex dipendente a far partire le prime indagini. Il capo-turno si presentò con un campione di rifiuti da analizzare, estratto da una vasca per il trattamento dei rifiuti che presentava picchi anomali di XCl (acido cloridico) e SO2 (biossido di zolfo). Il campione sotto forma di cilindro è stato poi fatto analizzare dall’Arpa di Frosinone che non lo ha repertato come «materiale non identificabile come cdr» bensì «rifiuto speciale e pericoloso per la presenza di idrocarburi». I carabinieri del Nucleo ecologico di Roma diretti dal capitano Pietro Rajola Pescarini, nelle scorse settimane hanno sequestrato documentazione e computer nella sede legale del consorzio Gaia a Colleferro. Il polo energetico ambientale della Valle del Sacco, con al centro Colleferro, era un esempio di realizzazione del processo di termovalorizzazione. In numerosi incontri e occasioni pubbliche l’impianto di Colle Sughereto era indicato come la via da seguire. Nell’ordinanza del gip Ilari si riporta come i carabinieri abbiano fermato alcuni camion con all’interno piccoli radiatori, tubi di rame, fili metallici, batterie e materiale ceramico. Oltre addirittura a pneumatici, materassi ed eternit. E per far ’entrarè quel tipo di rifiuto nel termovalorizzatore non si è avuta alcuna remora secondo l’accusa.
(tratto da www.lastampa.it)