Cerca

RITRATTI DI SANGUE | Nino Imerti, il “nano feroce” da 30 anni in silenzio

Hanno provato a ucciderlo con un’autobomba, ne è nata una guerra da centinaia di morti. Arrestato a marzo del 1993, non ha mai collaborato con la giustizia

Claudio Cordova

15 Marzo 2023

Lo chiamano “Nano feroce”. Sicuramente non in sua presenza. Antonino Imerti è uno dei boss storici della ‘ndrangheta del Reggino. C’è il suo nome sull’evento che, nell’ottobre del 1985 cambia la storia della provincia di Reggio Calabria e, forse, anche dell’intera Calabria. La sua, come tante di quelle dei boss della ‘ndrangheta, è una vita da romanzo noir.

1985: si parla già del ponte sullo Stretto

Nino Imerti è originario di Fiumara di Muro ma, ormai da tempo, ha spostato il centro degli affari a Villa San Giovanni: un luogo più redditizio. Villa San Giovanni è un paese in crescita, un centro che ben presto potrebbe diventare una gallina dalle uova d’oro. Questo le cosche reggine lo hanno capito. Lo hanno capito gli Imerti, che tengono parecchio alla leadership nel Villese. E lo hanno capito i De Stefano, di cui Imerti è stato, per tanto tempo, fedele alleato.

Le cose però, negli ultimi mesi del 1985, sono cambiate: i rapporti tra le famiglie De Stefano e Imerti non sono più cordiali come lo erano in passato. Da un po’ di tempo, inoltre, si parla con insistenza della possibilità di costruire un ponte sullo Stretto di Messina, che congiunga Calabria e Sicilia: con i soldi a nessuno piace scherzare e gli appalti del ponte mettono sul piatto decine di miliardi. È un’occasione che le cosche non vogliono assolutamente lasciarsi scappare.
Siamo nel 1985 e oggi, a distanza di oltre trentacinque anni, del famigerato ponte non esiste nemmeno un pilastro. Ma questa è un’altra storia.

Nino Imerti, “Nano feroce”

Nino Imerti è un uomo giovane, non ha nemmeno quarant’anni, di corporatura minuta: per questo lo chiamano “Nano Feroce”.  Un soprannome che Imerti non gradisce affatto. E non perché non si riconosca nell’aggettivo “feroce”.
Nino Imerti è, fin dagli anni ’70, un boss di tutto rispetto: 
nel 1975 evade dal carcere di Augusta, all’interno del quale è detenuto, e vive da latitante per cinque anni. Poi, viene arrestato. Adesso, nell’autunno del 1985, è libero da un anno e mezzo. Imerti è in libertà vigilata, è un sorvegliato speciale. Non solo da parte delle forze dell’ordine, a quanto pare.

Dichiara il collaboratore di giustizia Giuseppe Scopelliti: «Nel corso della guerra di mafia che ha visto tutte le famiglie di Reggio Calabria schierate su due fazioni contrapposte, posso riferire che per quanto riguarda il nostro gruppo si sono succedute due fasi: la prima concerne il periodo in cui era detenuto Pasquale Condello. In tale fase la direzione delle operazioni militari era stata assunta da Nino Imerti, che si avvaleva della consulenza di Mimmo Condello […] Nel momento in cui uscì dal carcere Pasquale Condello, egli assunse la direzione di tutte le azioni belliche sul territorio del capoluogo, lasciando a Nino Imerti le decisioni sulla zona di Villa San Giovanni e comuni limitrofi. Si costituì una direzione strategica delle operazioni tra Pasquale Condello, Paolo Serraino e Diego Rosmini (senior), lasciando sempre a Nino Imerti la zona di Villa San Giovanni…”.

I matrimoni prima della guerra

Il matrimonio che avvicina le famiglie Condello e Imerti segna uno spartiacque fondamentale. Da quel giorno, da quel 16 giugno 1985, il malumore di don Paolino De Stefano cresce in maniera veloce e inesorabile.  Il collaboratore di giustizia, Giacomo Lauro, racconta che De Stefano affermava che «dopo il matrimonio contratto da Nino Imerti con Giuseppina Condello, i medesimi erano diventati arroganti ed irriguardosi nei suoi confronti». Da quel 16 giugno, infatti, Nino Imerti manifesta un’evidente insofferenza rispetto all’autorità di quello che, fino al momento, è stato il capo incontrastato della ‘ndrangheta reggina, Paolo De Stefano, cominciando a gestire autonomamente taluni affari nel territorio di Villa San Giovanni.

La famiglia De Stefano “risponde”, nello stesso anno, con un altro matrimonio di prestigio: Orazio De Stefano, fratello di Paolo, sposa Antonietta Benestare, nipote di Giovanni, Giuseppe e Pasquale Tegano. La frattura tra i due clan, i De Stefano e gli Imerti, con il passare dei giorni si acuisce, senza possibilità di ricongiungimento. D’altra parte, se la famiglia De Stefano, comandata da don Paolino, è una potenza assoluta, quella degli Imerti non è da meno.

L’autobomba di Villa San Giovanni

Nino Imerti non è né stupido, né, tantomeno, sprovveduto. Per questo si muove a bordo di un’auto blindata, nel caso in cui a qualcuno venisse qualche strana idea. L’11 ottobre del 1985 è un venerdì, sono le 19.10. Nella centrale via Riviera di Villa San Giovanni, a pochi metri dalla caserma della Guardia di Finanza, parcheggiata accanto all’auto blindata di Nino Imerti, c’è una Fiat 500.

Nessuno, probabilmente, nota quella Fiat 500, un’automobile come tante altre, in sosta in una delle zone più frequentate di Villa San Giovanni. Quell’auto, però, non è un’auto come le altre. Nino Imerti e i suoi uomini di scorta non lo sanno, ma quella Fiat 500 è imbottita di esplosivo.  Imerti e i suoi quattro guardaspalle sono appena usciti dalla sede dell’Italia Assicurazioni, che è gestita proprio dal “Nano Feroce”.

È un attimo. Un boato assordante che riecheggia anche a diversi chilometri di distanza: sul selciato restano in tre e la notizia si diffonde a macchia d’olio, nel giro di pochi minuti. Nino Imerti sarebbe morto sul colpo, insieme con altri due uomini. Altri due individui rimangono feriti. Via Riviera viene isolata, recintata da Polizia e Carabinieri. I rilievi proseguono fino a notte fonda: il commissario Blasco, il tenente colonnello Palazzo, nuovo comandante del Gruppo carabinieri di Reggio Calabria, e il capitano Pagliari si danno da fare per raccogliere possibili prove, elementi anche apparentemente insignificanti.

Nino Imerti è morto?

Per tutta la notte il nome di Antonino Imerti è inserito nella lista dei morti. Gli avversari festeggiano, hanno fatto bingo: avendo mandato all’altro mondo un leader così potente e carismatico, potranno adesso gestire a proprio piacimento gli affari di Villa San Giovanni e, soprattutto, gli appalti miliardari del ponte sullo Stretto di Messina.

La “festa”, però, dura solo poche ore perché, alle prime luci dell’alba, arriva il colpo di scena, la rettifica. Nino Imerti è vivo. È lui, insieme con Natale Buda, uno dei due feriti. Morti, ed irriconoscibili per l’effetto della dinamite, Umberto Spinella e i fratelli Vincenzo e Angelo Palermo, guardie del corpo di Imerti: il “Nano Feroce” usa lo sportello dell’auto, che è blindata, come scudo e rimane illeso.

Così Pantaleone Sergi su La Repubblica racconta quel giorno: «Per gli inquirenti è un boss di spicco, di quelli che contano, con legami saldi ed importanti in Calabria e fuori: al suo matrimonio con una maestrina elementare, nella scorsa primavera, sarebbero stati visti gli “ambasciatori” di cosche palermitane, catanesi, della camorra campana. Ora è in stato di arresto. Si rifiuta di collaborare con la giustizia e per gli inquirenti proteggerebbe così i propri mancati killer».

È forse questo il punto cruciale della scalata criminale di Antonino Imerti, fino ad allora esecutore integerrimo degli ordini impartiti dal di lui cugino Pasquale Condello, e ora oggetto dell’attenzione del contrapposto schieramento destefaniano, che riesce a capire l’effettiva caratura del personaggio.

La “tragedia”

L’autobomba da cui si salva miracolosamente Nino Imerti è l’inizio della fine. L’inizio di circa sei anni di guerra di ‘ndrangheta a Reggio Calabria e nella sua provincia. Sei anni cui si conteranno sul selciato circa 700 morti ammazzati.
L’inizio delle ostilità viene ricordato anche dal collaboratore di giustizia Cesare Pollifroni nel verbale del 14 aprile del 1994 davanti al pm Enzo Macrì: «Tutto ebbe inizio con una “tragedia” organizzata da Paolo De Stefano in danno di Imerti Antonino. Avvenne, infatti, che di un carico di droga o armi, organizzato insieme ai palermitaninon venne dato conto ai palermitani di Cosa Nostra che vi avevano interesse. Richiesto dai siciliani, Paolo De Stefano addossò tutta la colpa su Nino Imerti, contrariamente al vero, aggiungendo che lui non poteva intervenire contro Imerti, in quanto suo alleato, ma che avrebbe appoggiato le decisioni prese da Cosa Nostra. Fu così che venne organizzato l’attentato con autobomba ai danni di Imerti, al quale prese parte qualche uomo di Cosa Nostra. Imerti, però, scampò all’attentato e capì il gioco. In seguito egli riuscì a chiarire con i palermitani la sua estraneità alla vicenda e a diventarne alleato».

La vendetta di Nino Imerti e l’inizio della guerra

Nino Imerti è vivo, dunque. È stato fortunato, molto fortunato. E, conoscendolo, vorrà sfruttare tale fortuna per vendicarsi di chi lo voleva morto.  Ci sono equilibri da rimettere in discussione, conti da far quadrare e affronti da punire.
Paolo De Stefano conosce bene Nino Imerti, sa quanto possa essere “feroce”. Non sembra preoccupato, però. Il 13 ottobre, due giorni dopo l’autobomba di Villa San Giovanni, De Stefano è in moto, insieme con uno dei suoi più fidati complici, Antonino Pellicanò.

La vendetta scatta due giorni dopo, con la morte di Paolo De Stefano. Il 13 ottobre, nel rione Archi di Reggio Calabria e cioè nel cuore del suo regno incontrastato, viene ucciso il boss Paolo De Stefano insieme al quale cade il suo fido picciotto Antonino Pellicanò. I due (entrambi latitanti: Pellicanò era colpito da ordine di cattura per omicidio volontario) viaggiavano a bordo di una moto Honda Cross, intestata a Bruno Saraceno, noto agli organi di polizia come bene inserito nel clan De Stefano e più volte segnalato quale autista di Orazio De Stefano (il quarto dei fratelli De Stefano) nel periodo della latitanza di questi.

Una telefonata anonima informa che i responsabili del duplice omicidio sono Pasquale e Domenico Condello, Antonino Imerti, Giuseppe Saraceno e Antonino Rodà, detto Nuccio. La magistratura reggina li individua e li condanna all’ergastolo in Corte d’Appello, per quel duplice omicidio. Ma Corrado Carnevale cancella tutto con un colpo di spugna, in Corte di Cassazione.

Gli ultimi 30 anni di Nino Imerti

Nino Imerti ha oggi 76 anni. In varie tranche, ne ha trascorsi più della metà in carcere. L’autobomba di via Riviera, peraltro, non è l’unico attentato cui sfugge il “Nano feroce”. Meno di un anno dopo rispetto all’inizio della guerra, Imerti scampa a un altro tentativo di ucciderlo. È il 7 luglio del 1986. Da quel momento si dà alla latitanza.

Viene arrestato diversi anni dopo, circa trent’anni fa esatti: il 23 marzo 1993, insieme a Pasquale Condello, il “Supremo”. Negli anni, sul suo conto arriveranno diverse condanne: all’ergastolo per omicidio e quindici anni di reclusione per associazione mafiosa.

Poco meno di trent’anni in carcere, di cui quasi dieci in regime di carcere duro, disposto dal Ministero della Giustizia, su richiesta della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, il 27 marzo 2012. Ma non ha mai scelto la via della collaborazione con la giustizia. Il 28 luglio 2021 è stato scarcerato dopo 28 anni dietro le sbarre e sottoposto al regime di libertà vigilata.

Fonte:https://icalabresi.it/rubriche/nino-imerti-il-nano-feroce-da-30-anni-in-silenzio/