Il Fatto Quotidiano
Riina ha parlato di “un uomo dall’Albania”: ma per via d’Amelio o la strage Chinnici? Il mistero su Mister X si infittisce
Stefania Limiti
Giornalista e scrittrice
13 LUGLIO 2021
Tanto si è parlato delle intercettazioni ambientali realizzate durante la prigionia di Totò Riina ma mai abbiamo sentito parlare dell’uomo venuto dall’Albania. Leggere quei brogliacci è una gran fatica, ci si perde nei meandri delle frasi, tra dialetto stretto, parole incomprensibili, allusioni. Ma se si va avanti con pazienza ci si imbatte, appunto, nell’albanese.
Non è che non ce ne eravamo accorti. Oggi su Il Dubbio Damiano Aliprandi dice che potrebbe essere lui l’uomo di via D’Amelio. Quello di cui parla Spatuzza. Ma non può essere. Rivediamo tutta la vicenda.
Il boss è nel carcere di Opera, sono le nove del mattino del 10 settembre 2013 quando entra nel cortile del penitenziario per la sua ora d’aria, pochi attimi dopo fa il suo ingresso un altro detenuto, Alberto Lorusso, che gli va incontro. I due si salutano e prendono a parlare di cucina e di cibo. Totò Riina ha una gran voglia di formaggio, dice di aver chiesto a suo figlio Giovanni di fargliene avere un po’ di quello buono, si lamentano delle angherie del carcere, poi la conversazione è coperta da un omissis, è ritenuta riservata dagli investigatori. La trascrizione riprende quando il Capo dei capi parla di un palazzo e ridacchia: “Figuratevi che questo palazzo si vede bene, salite, salite! minchia poi… poi basta che ci mettevano la macchina là sopra, dall’altro lato, la mettevano la davanti, la mettevano davanti, davanti il portone dove si entra jluuu“.
Gli osservatori ci dicono che fischietta, gesticola, alza il braccio in alto. Sta sicuramente parlando di via D’Amelio e della casa di Paolo Borsellino, l’unico luogo nel quale è stata realizzata una strage utilizzando una automobile imbottita di esplosivo parcheggiata nei pressi dell’obiettivo – a parte le stragi del Continente, come si è soliti chiamare quelle del 1993 a Firenze, Roma e Milano, ma al tempo Riina è già in galera.
La conversazione va ancora avanti, il boss spiega al suo casuale amico di aver insistito con “Nino” affinché si trovasse un parcheggio nei giorni precedenti: “Io ci combattevo, tre giorni, quattro giorni la macchina messa là… andavo a cambiare il posteggio… perché bisognava prendere il posto… mica che il posteggio lo trova quando poi ci arriva, non lo trova! Ecco perché uno ci deve lavorare nelle cose!”. Insomma, il vecchio boss si lamenta di un lavoro fatto male, di picciotti svogliati, “quando io dico, quando io dico che uno deve lavorare! Deve lavorare perché deve capire che se ti serve un posto vicino alla portineria, lo devi lavorare, lo devi cercare, ci devi combattere (perdere tempo, nda) te lo prendi, te lo prendi e te lo conservi, metti la macchina… esci con una macchina e ci metti quella, e poi vai a trovarlo, vai a cercarlo… come quello che venne solo dall’Albania… vallo a trovare un esperto come questo… incomprensibile”.
È qui che la fatica della lettura inciampa in quell’immagine improvvisa. Chi caspita è l’uomo venuto dall’Albania? Apprendiamo che si trovava ai domiciliari a Palermo, lo spiega lo stesso Riina al suo amico, “ci vuole fortuna” aggiunge, perché era uno bravo, “vallo a trovare un esperto come quello” e di facile reperibilità: non bisogna neanche pagargli il viaggio. È lì, in città.
La faccenda si presenta davvero interessante perché nel puzzle dello stragismo mafioso: di certo una pedina ormai certa è la presenza di quello ‘straniero’. Ne parla il pentito di Brancaccio, Gaspare Spatuzza, secondo i giudici “in maniera assolutamente attendibile“, (pag. 787 Sentenza Borsellino Quarter). La circostanza è nota: nel garage di via Villasevaglios, Gaspare si sta dando da fare per trasformare la Fiat 126 rubata in una micidiale bomba. Al momento della consegna, è il 18 luglio 1992, il giorno prima della strage di via D’Amelio, nel garage c’è Renzino Tinnirello e poi una terza persona, un tizio che non c’entra con Cosa nostra, uno sconosciuto che non dice una parola.
Dice Gaspare: “Se fosse stata una persona che io conoscevo (…), sicuramente sarebbe rimasta qualche cosa (…) più incisiva; ma siccome c’è un’immagine così sfocata (…). Mi dispiace tantissimo e aggiungo di più, che fin quando non si sarà chiarito questo mistero, che per me è fondamentale, è un problema serio per tutto quello che riguarda la mia sicurezza (…). Io sono convinto che non sia una persona riconducibile a Cosa nostra perché (…) c’è questa anomalia di cui per me è inspiegabile. C’è un flash di una sembianza umana. (…) c’è questa immagina sfocata che io purtroppo… (…) c’è questo punto, questo mistero da chiarire”.
È da lì che parte l’inchiesta su Mister X, il misterioso uomo di cui ha voluto parlare Spatuzza, sapendo bene che avrebbe aperto una questione delicata, una specie di caccia all’uomo di cui sappiamo ben poco. Tranne quel riconoscimento poi negato: nell’ottobre del 2010 la Procura di Caltanissetta gli mostra la foto di un funzionario dei servizi segreti interni, Lorenzo Narracci: è lui l’uomo misterioso? chiedono, e Gaspare dice di sì. Ne è sicuro, lo riconosce tra le tante altre foto che gli vengono mostrate. Poi le sicurezze del pentito si fanno via via più fragili fino a diventare così labili che l’inchiesta non può che scagionare Narracci.
Abbiamo provato a chiedere all’ex 007 oggi in pensione cosa ne pensi dell’uomo venuto dall’Albania, ma Narracci comprensibilmente non ne vuole sapere niente: “Come può comprendere, le indagini connesse a queste vicende sono attualmente in corso come i processi nei quali convergono. Ciò premesso nel sottolineare che nulla di mia conoscenza ho da commentare sulla citata intercettazione e ribadire la mia totale estraneità riguardo ai luoghi e ai soggetti indicati dal Sig Spatuzza, augurando Le buon lavoro Le porgo cordiali saluti”.
Il fatto è che l’uomo venuto dall’Albania secondo gli inquirenti riguarda l’attentato a Rocco Chinnici. Quando Riina ne parla, infatti dice di averne parlato con “Nino”: ebbene, la macchina esplosiva vicino alla portineria è un elemento comune alle stragi di via D’Amelio e di via Federico Pipitone. Ma “Nino”, cioè Madonia, di sicuro nel luglio ’92 era in carcere, Riina non può aver concordato con lui la strage per ammazzare Paolo Borsellino.