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Ricordiamo, oltre ai magistrati, i giornalisti uccisi da mafia e terrorismo

Il 3 maggio 2009, a Napoli, si è celebrata la Giornata della memoria dei giornalisti italiani uccisi da mafia e terrorismo, organizzata dall’Unione Nazionale Cronisti Italiani (UNCI). Pubblichiamo l’intervento svolto dal fratello di Giovanni Spampinato, uno delle undici vittime (la prima, la più dimenticata dell’elenco è Cosimo Cristina, ucciso a Termini Imerese nel 1960) dei proiettili ma anche della disattenzione della politica, dei colleghi e dell’opinione pubblica

Sono il fratello di Giovanni Spampinato, uno degli undici giornalisti uccisi in Italia mentre documentavano fatti di mafia e terrorismo, e ringrazio quanti hanno la sensibilità di ravvivare la memoria di queste vittime, anche delle più dimenticate. Come altri familiari, ho atteso a lungo che il sindacato dei giornalisti, l’Ordine dei Giornalisti e le alte cariche dello Stato onorassero collettivamente i giornalisti italiani uccisi da mafie e terrorismo. E alla fine, dopo decenni di silenzi e disattenzioni, il 3 maggio 2009, a Napoli, come il 3 maggio dell’anno scorso a Roma, in Campidoglio, questo gesto è arrivato ed è una grande consolazione, come lo è la nobile iniziativa del Giardino della Memoria di Palermo e la manifestazione del 21 marzo con la quale, ogni anno, l’associazione Libera di don Luigi Ciotti ricorda pubblicamente tutte le vittime di mafia.

Dunque grazie agli organizzatori di questa giornata. Ma lasciatemi dire che non basta parlare una volta l’anno, nel chiuso di una sala, dei giornalisti uccisi in Italia perché si ostinavano a fare i giornalisti. Credo che bisognerebbe fare di più, per onorare come meritano questi “caduti” che – sfidando la retorica – tutti dovremmo chiamare eroi dell’informazione.
Secondo alcuni, a noi, familiari delle vittime, non spetta dire queste cose, ma solo rappresentare il nostro dolore e custodire i ricordi privati. Io dico: sarebbe giusto in una società con la coscienza a posto. Come ci si può rassegnare al silenzio quando tacciono anche le voci pubbliche?

Non vi nascondo l’amarezza di questi anni per la disattenzione delle istituzioni, della politica, della giustizia e anche del mondo giornalistico. Soprattutto per il silenzio del giornalismo organizzato che, a mio avviso, per primo deve difendere e coltivare la memoria dei suoi martiri; indicare più apertamente e con più continuità il loro esempio professionale e civile; promuovere un lavoro di documentazione e di analisi sulle circostanze in cui hanno perso la vita; sollecitare giustizia e piena luce su ognuno di questi casi.
Non è stato così finora. La memoria di questi undici giornalisti morti ammazzati è stata affidata solo a noi parenti o ai giornalisti vicini alla vittima per testata, per appartenenza politica o territoriale. Non è stato giusto. Ho atteso 37 anni questa cerimonia e mi commuove pensare che alcuni miei cari non ci sono più. Penso a quelli che hanno patito e che oggi avrebbero pianto e gioito insieme a noi. Vi dico grazie anche a nome loro e vi dico come vorrei che fossero ricordati i nostri morti: con animo sereno e facendo sapere a tutti che genere di uomini fossero veramente, cosa hanno fatto nella loro vita, quali passioni li animavano, cosa hanno scritto di tanto terribile. Questo sarebbe il modo giusto di onorarli.

E’ passato tanto tempo (la prima vittima di mafia, la più dimenticata, dell’elenco è Cosimo Cristina, ucciso a Termini Imerese nel 1960) e ancora non si riesce a parlare con serenità e con orgoglio di questi morti. Non è giusto, non mi sembra degno di una nazione civile lasciare che nella memoria collettiva i giornalisti uccisi appaiano, come spesso accade, vittime della loro testardaggine, vittime di una guerra per bande combattuta per una causa incerta, di uno scontro del quale non è facile dire chi avesse ragione e chi torto.
Nell’Italia ideologica che esisteva prima della caduta del Muro di Berlino questo atteggiamento, per quanto sbagliato, trovava qualche spiegazione: Ma dopo? Pesano ancora come macigni le miserie, dure a morire, di un modo di ragionare che sminuisce i fatti e riduce ogni cosa a logiche di appartenenza politica o di testata. Queste logiche hanno impoverito il giornalismo e la società civile. Mi auguro che anche grazie a queste cerimonie del 3 Maggio prima o poi si riesca a superare questo schematismo. Si capisca finalmente che ricordare questi giornalisti uccisi da mafie e terrorismo non è un optional, un omaggio al passato o un contentino concesso ad alcuni parenti lamentosi, ma è il modo nobile di ancorare la professione giornalistica ai valori più alti.

I giornalisti dovrebbero porre queste vittime nel loro Pantheon ideale perché ciascuno di loro preso a sé, e tutte insieme, collettivamente, rappresentano l’identità più alta del giornalismo italiano, un punto di riferimento essenziale per la professione giornalistica intesa come funzione sociale insostituibile in ogni società democratica complessa come la nostra, in ogni comunità che fa discendere il consenso politico da scelte consapevoli di cittadini informati. In queste società i giornalisti sono le sentinelle, i guardiani degli altri poteri e perciò devono avere professionalità, coraggio, senso del dovere, responsabilità, orgoglio di tenere la schiena dritta: l’orgoglio di chi non si rassegna a tacere notizie scomode, di chi non sceglie il quieto vivere, di chi rifiuta condizionamenti impropri o violenti.

Le vicende di questi giornalisti uccisi, feriti, intimiditi, minacciati non sono storie di un passato da dimenticare. Raccontano la stessa storia dei cronisti di oggi costretti a vivere sotto scorta e ai quali rinnovo la mia solidarietà. Raccontano una grande verità che dovremmo tenere sempre presente: il lavoro di cronaca fatto con indipendenza di giudizio e volontà di non lasciare nulla di intentato per dare ai lettori una informazione libera, completa, tempestiva e veritiera, non è mai una passeggiata, è un viaggio che contempla tratte difficili, complicazioni e rischi non eliminabili e merita l’attiva solidarietà di tutti i cittadini onesti. E’ una verità incontestabile. Un giornalista che decidesse di svolgere il proprio lavoro evitando a tutti i costi la parte rischiosa o scomoda della sua professione, che decidesse di non disturbare mai interessi costituiti, personaggi dotati di potere lecito o illecito, deciderebbe di fare un altro mestiere.

Con ciò non voglio dire che i giornalisti debbano essere missionari votati al martirio, eroi che sfidano la morte per ogni notizia. Voglio dire che ogni onesto giornalista deve mettere nel conto che a volte è inevitabile correre qualche rischio, scontentare qualcuno in grado di nuocere. Non se ne può fare a meno. Non ci si può fare scudo alla leggera dell’auto-censura, non si può scegliere la scorciatoia del quieto vivere né farsi vincere dalla paura. Chi si trova in uno stato di costrizione, di minaccia, di pericolo reale, merita solidarietà e la massima comprensione, ma deve dirlo, deve rendere conto alla deontologia professionale. E’ un grosso problema sul quale i giornalisti devono riflettere.
Si sorvola troppo spesso su queste questioni, nonostante nelle redazioni si siano moltiplicati i casi di giornalisti minacciati, ridotti al silenzio con la violenza, costretti a vivere sotto scorta. Su queste questioni i giornalisti sono chiamati a sviluppare una riflessione più meditata, più approfondita, confrontando i pareri e le opinioni, che sono diversi, per precisare qual è il limite oltre il quale è arbitrario tacere una notizia; per trovare strumenti, procedure e soluzioni organizzative che permettano di abbattere il muro della paura, che è poi il muro della censura. Bisogna ragionarci seriamente, a freddo, quando non si è prostrati dalle situazioni di emergenza. Per promuovere questa riflessione, la Federazione Nazionale della Stampa e l’Ordine nazionale dei Giornalisti hanno promosso congiuntamente l’Osservatorio permanente sulle notizie oscurate e sui cronisti (OSSIGENO, in sigla) di cui sono stato nominato responsabile.

L’Osservatorio si fa carico anche di documentare e far conoscere la storie di ognuno dei giornalisti uccisi nella convinzione che esse siano elementi identitari del Giornalismo italiano e che possono aiutarci a comprendere i casi ”caldi” dei nostri giorni, per non affrontarli senza partire ogni volta dall’anno zero, senza cadere nella trappola ben nota delle incomprensioni che creano divisioni insuperabili e dannose fra le vittime e i loro compagni di lavoro. Il libro fuori commercio curato dall’Unione Nazionale Cronisti (UNCI), che rievoca la storia di ognuno dei giornalisti italiani uccisi, aiuta a sviluppare questi riflessioni.
Alberto Spampinato

(Tratto da www.aprileonline.info)