24 Maggio 2020
di Rossella Guadagnini
È una storia che conosciamo, che tutti conoscono. Da quel fatidico 23 maggio del 1992 sono trascorsi 28 anni e ogni anno, in maggio, l’abbiamo ricordata: nella strage di Capaci, sull’autostrada A29, nel tratto che collega l’aeroporto alla città di Palermo, persero la vita il magistrato Giovanni Falcone con la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e i tre agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro.
Questa volta il Coronavirus ha cambiato le modalità delle celebrazioni, le lenzuola bianche ai balconi hanno preso il posto degli incontri e dei cortei. Ma la sostanza non cambia e i problemi rimangono. Nel giorno dell’anniversario, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ricordando Falcone e Borsellino (che verrà ucciso meno di due mesi dopo), parla dei due magistrati come di “luci nelle tenebre”. Da allora le luci sono state poche, in effetti, molte invece le tenebre.
Ma perché dobbiamo ricordare e ricordare ancora? Non abbiamo fatto già abbastanza? Inchieste, processi, condanne, articoli, libri, film, documentari, spettacoli, dibattiti che in questi anni si sono moltiplicati ovunque. Le immagini, tragiche, le abbiamo tutte negli occhi. E poi la retorica che ci prende alla gola. Eppure… eppure no, non possiamo dimenticare, metterci tutto alle spalle, le stragi, i lutti, la minaccia alla democrazia.
Tacere non si può, il silenzio è il pericolo. Per i giovani prima di tutto, che non c’erano, che non sempre sanno; e per noi stessi, per ricordarci dove eravamo e chi siamo. Nel silenzio gli eventi si attenuano fino a sparire, con gli anni i contorni sfumano, la memoria vacilla, l’indignazione si spegne. Per questo anche oggi vogliamo ricordare Giovanni Falcone per com’era, con le sue parole vive e presaghe.
Proponiamo di seguito il brano “La mafia non è un’emergenza” tratto da un intervento che fece a Palermo, il 17 dicembre 1984, in occasione di un incontro organizzato da Unità per la Costituzione (Unicost), corrente dell’Associazione Nazionale Magistrati. È un breve testo che riassume con lucidità profetica le annose questioni a venire e ci traghetta direttamente nel presente. Sono parole che Falcone potrebbe avere pronunciato ieri, il mese scorso, lo scorso anno.
In pochi punti ecco delinearsi, con estrema chiarezza, tutta la storia: l’origine del fenomeno criminale anteriore alla nascita della Repubblica, che ha resistito alle Commissioni Antimafia, divenendo un fattore sempre più destabilizzante per la democrazia. Il fatalistico ed erroneo convincimento che la mafia difficilmente potrà essere debellata, un preconcetto duro a morire e un alibi sempre valido per non fare nulla. Lo “sparuto drappello di magistrati” che combatte in prima fila. La realtà che scopre le “enormi dimensioni” di un fenomeno solo intuito in passato. La necessità di “indagini molto difficili e di ampio respiro”, quella di non lasciarsi scoraggiare da “difficoltà e indifferenza”.
I primi risultati con la positiva verifica dibattimentale di istruttorie particolarmente complesse. Esiti che “hanno sconvolto molti equilibri in una società che per lungo tempo ha ritenuto, a tutti i livelli, che con la mafia si dovesse convivere”. E, di conseguenza, il sorgere – neppure troppo inaspettato – degli interrogativi sulla correttezza istituzionale e repressiva della magistratura. Infine le valutazioni sulla “posta in gioco”, considerata la gravità del fenomeno, e la possibilità di qualche strappo all’ortodossia giuridica.
Sembra di essere tornati ai giorni delle indagini sulla Trattativa Stato-mafia, del conseguente processo e della sentenza o quantomeno a una sua precisa descrizione. Ancora una volta Falcone ci parla e parla di noi. Oggi.
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La mafia non è un’emergenza
di Giovanni Falcone*
Attualmente, la criminalità organizzata – e mafiosa in particolare – viene ritenuta una delle più gravi emergenze del nostro Paese, ma dico subito che non mi sembra corretto trattare il fenomeno mafioso come un’emergenza. Mi domando, infatti, sulla base di quali presupposti può essere considerato emergenza un fenomeno criminale che ha origine anteriore alla nascita dello Stato unitario, che ha resistito alle Commissioni Antimafia e che è divenuto, negli anni, un fattore sempre più destabilizzante della democrazia.
Certamente, i fatti più eclatanti della criminalità mafiosa sono avvenuti soprattutto negli ultimi anni, e soltanto di recente si è cominciato a comprendere quanto profonde e complesse ne siano le radici; ma questa non mi sembra una buona ragione per ritenere che vi siano fondate speranze di poter venire a capo del problema in breve termine. L’attuale considerazione del fenomeno mafioso come emergenza è espressione, a mio avviso, di inadeguatezza di approccio al fenomeno stesso; e ciò comporta errori strategici e tattici nello studio e nell’attuazione delle misure più adatte per la sua repressione. E la situazione è aggravata tuttora dal generalizzato e fatalistico convincimento che la mafia e il costume mafioso molto difficilmente potranno essere cancellati dalla vita delle popolazioni meridionali.
Spesso vengono ripetuti concetti del seguente tenore: “Il terrorismo è un fenomeno esterno alla società, mentre la mafia vive all’interno delle istituzioni; la mafia non sarà mai debellata perché gli stessi governanti spesso si avvalgono della mafia per fini di potere; la mafia è un fenomeno economico-sociale riguardante vasti strati della popolazione del Mezzogiorno, per cui qualunque attività repressiva sarà sempre perdente in mancanza di contestuali interventi del potere politico diretti a elevare le condizioni di vita delle popolazioni meridionali”.
Se e fino a che punto questi concetti siano fondati non è facile stabilire, ma va sottolineato che, purtroppo, spesso sono utilizzati come alibi, per giustificare, cioè, le carenze dei poteri statuali nella repressione della criminalità mafiosa.
Negli ultimi anni, uno sparuto drappello di magistrati e di appartenenti alle forze di polizia ha cominciato, in più parti di Italia, a impostare le indagini in modo finalmente adeguato alla complessità del fenomeno, e i risultati non si sono fatti attendere. È cominciata a emergere una realtà di enormi dimensioni e inquietante, solo intuita nel passato, e si è compreso che, per proseguire le indagini, occorrevano strutture umane e materiali più adeguate e bisognava coinvolgere gli altri poteri dello Stato in indagini molto difficili e di ampio respiro. Non ci si è lasciati scoraggiare dalle difficoltà e, l’indifferenza e lo scetticismo generale, si è proseguita la via intrapresa ottenendo i primi importanti risultati: la positiva verifica dibattimentale di istruttorie, particolarmente complesse, riguardanti organizzazioni mafiose ed efferati delitti di stampo mafioso.
Tale inversione di tendenza circa i risultati, ritenuti scontati, dei processi di mafia ha indubbiamente sconvolto molti equilibri in una società che per lungo tempo ha ritenuto, a tutti i livelli, che si potesse convivere con la mafia. Una delle prime conseguenze è stata – fatto che non deve sorprendere anche se apparentemente singolare – che sono cominciati gli interrogativi sulla correttezza istituzionale dell’attività repressiva della magistratura, sia pure accompagnati dalla considerazione che, tutto sommato, data la gravità del fenomeno, qualche “strappo” all’ortodossia giuridica si poteva e si può perdonare, data la posta in gioco.
* Il testo è stato pubblicato nel volume “Giovanni Falcone. L’uomo, il giudice, il testimone” delle Edizioni Santa Caterina, Pavia (2019), curato da Enzo Ciconte e Giovanna Torre, promosso dal Collegio Universitario S. Caterina da Siena.
(23 maggio 2020)
Tratto da:temi.repubblica.it/micromega-online