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Questione di genere – Il decreto antistupri

Il decreto anti-stupri appare più che altro ispirato alla necessità di rispondere alle angosce sulla sicurezza che proprio il governo, con l’aiuto dei media, ha alimentato negli ultimi mesi. Come dire: si crea un finto bisogno per curarlo con delle norme ad hoc, utili o meno che siano. Soprattutto non fa nulla per incidere sulla vera origine del problema, che è specificatamente culturale e di genere

Viene difficile definire il cosiddetto “decreto legge antistupri” come un passo in avanti sulla via del contrasto alle violenze di genere. Sicuramente è una norma che sembra voler incidere sulla certezza della pena. E questo è un bene, vista la carenza legislativa che per decenni ha fatto sì che molte donne vittime di molestie non siano riuscite a rapportarsi alla giustizia o, peggio ancora, a non trovarla.
In tal senso, potrebbero sembrare opportune le norme che prevedono l’ergastolo per l’omicidio a sfondo sessuale, l’introduzione del reato di stalking (che da mesi si era impantanato in parlamento) e persino l’obbligatorietà della custodia cautelare in carcere per chi ha commesso gravi delitti di matrice sessuale. Da sottolineare anche che il decreto concede alle vittime di violenze il beneficio della copertura delle spese processuali a carico dello Stato.
In tali punti, la legge sembra funzionare. Peccato, però, che le cose buone si fermino qui.

Il resto del decreto, infatti, appare più che altro ispirato alla necessità di rispondere alle angosce sulla sicurezza che proprio il governo, con l’aiuto dei media, ha alimentato negli ultimi mesi. Come dire: si crea un finto bisogno per curarlo con delle norme ad hoc, utili o meno che siano.
L’esempio più lampante è l’istituzione delle ronde, uno stratagemma mediatico e politico bell’e buono. Il governo, infatti, da un lato taglia le spese alle forze dell’ordine (da cui ci si aspetta il legittimo ed efficace controllo del territorio) e dall’altro dà ai cittadini la possibilità di autorganizzarsi. Non saranno certo le ronde a fermare le violenza: semmai, esse serviranno a quei cittadini esasperati di sentirsi sceriffi di quartiere, lenendo così le proprie paure. Ma se, mettiamo il caso, uno stupro avviene proprio in una zona su cui agisce una ronda, a chi sarà data la colpa? Non allo Stato, che aveva ceduto la sua prerogativa a un gruppo di cittadini. Insomma, questa mossa è decisamente vana e utilitaristica: vana perché non incide sul problema, utilitaristica perché permette al governo di scaricare il barile sui cittadini e, al contempo, di poter risparmiare sulle forze dell’ordine senza sentirsi il fiato sul collo di un’opinione pubblica assetata di sicurezza.
Non è un caso, quindi, che nel decreto si cita solo una blanda “previsione” di un aumento del personale di polizia. La “previsione” può essere anche non rispettata, se ci sono esigenze di bilancio (e in un periodo di crisi se ne trovano a bizzeffe).

Ma il punto peggiore di questo decreto è sicuramente quello che riguarda i migranti. Il fatto di accostare una problematica come quella dell’immigrazione ai reati sessuali è già agghiacciante (ma in linea con il finto problema sollevato dal governo fin dal suo insediamento). E poi, a che serve allungare la detenzione nei Cie? Non bastano le immagini di Lampedusa di questi giorni per capire che c’è un’emergenza umanitaria cui l’Italia non sa rispondere?

Insomma, a conti fatti, questo decreto fa un piccolo passo in avanti e tre lunghi indietro. E soprattutto non fa nulla per incidere sulla vera origine del problema, che è specificatamente culturale e di genere. Chi ha sbandierato l’emergenza immigrazione, facendola coincidere con la più generale emergenza sicurezza, ha voluto ignorare che la stragrande maggioranza delle violenze sulle donne avvengono nelle famiglie. Italiane.
In altre parole, se le donne continuano a morire sotto il proprio tetto è perché c’è un “maschio” che continua a farsi portatore di una “cultura” retrograda e che continua a considerare il corpo femminile come “una funzione sessuale”.
Una cultura che, complici anche i media, si radica nella nostra società già a partire dalle fasce più giovani, come dimostrano i fatti di violenza compiuti da ragazzini e, a volte, persino da bambini.
Per questo, se si vuole affrontare il problema bisogna elaborare programmi e azioni che vadano ad intaccare questo nodo culturale. Certo, contro stupri e maltrattamenti occorre agire subito anche sul piano delle leggi e della certezza della pena. Ma, essendola sua natura prettamente culturale, c’è bisogno soprattutto di un lavoro di sensibilizzazione, formazione e informazione rivolto tanto alle ragazze, quanto ai ragazzi (e soprattutto a loro). Un lavoro compiuto a partire dalle scuole, da quei luoghi dove si può e si deve arrestare la riproduzione sociale e culturale delle violenze di genere.
Valeria Ajovalasit

(tratto da www.aprileonline.info)