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Quel messaggio delle mafie che sparano in spiaggia a Roma

La Repubblica, 22 SETTEMBRE 2020

Quel messaggio delle mafie che sparano in spiaggia a Roma

Cosa nasconde l’agguato a Torvaianica. Ora che Piscitelli non c’è più e Carminati è stato fermato (per ora), il potere è passato alle famiglie albanesi. Senza più remore sugli spargimenti di sangue

di ROBERTO SAVIANO

Immaginate una spiaggia di Torvaianica in una classica giornata di fine estate, con il penultimo sole estivo di una domenica qualsiasi. Immaginate una spiaggia con persone la cui voglia di mare allontana la paura del contagio pandemico. Immaginate quindi la più comune delle situazioni: mare, ragazzini, sdraio, ombrelloni. Immaginate a un certo punto l’arrivo di un runner che mette in scena qualche esercizio di allungamento, si dirige verso un bagnante, gli spara alla schiena, poi ritorna sul motorino dove lo stanno aspettando e scappa via. L’operazione accade davanti a tutti. È un agguato classico, anzi il più classico degli agguati. 

La spiaggia concede molti vantaggi: da una parte c’è il mare, quindi sai che devi solo coprirti le spalle; poi le grida, la gente, il caos sono tutti elementi a vantaggio della fuga, dell’irriconoscibilità dell’esecutore. Nel 2012 a Terracina ci fu un agguato sulla spiaggia a un camorrista di seria caratura, Gaetano Marino, all’epoca marito di Tina Rispoli (attuale moglie del cantante neomelodico Tony Colombo). Lo uccisero proprio sul lungomare, davanti a uno stabilimento balneare.


Che questo possa accadere su una spiaggia, davanti a tutti, senza che ci sia alcuna particolare risposta della società civile o alcun dibattito politico è la prova reale che Roma è a tutti gli effetti territorio di mafia. “Zona nostra” è l’espressione utilizzata dai clan di camorra per identificare non semplicemente un territorio in cui comandano, ma un territorio in cui possono spargere sangue e non temere lo scandalo del sangue, la sollevazione dei cittadini, la grande attenzione mediatica. È considerato fisiologico, persino naturale, che si uccida a Sud, nelle terre di mafia, gli omicidi sono rumore di fondo.

Roma non era così: con l’eccezione della Magliana, i clan ‘ndranghetisti, camorristici e mafiosi a Roma erano prudenti nello spargimento di sangue. Da sempre valeva una sorta di protezione nella Capitale, tant’è vero che quando ammazzarono il boss di camorra Vincenzo Casillo o’ Nirone con un’autobomba nel 1983 nel cuore di Roma, Raffaele Cutolo, suo mentore, si difese dall’accusa di esserne l’esecutore aggiungendo un dettaglio tecnico, e cioè che mai la camorra avrebbe usato il tritolo a Roma. La prudenza è dovuta al fatto che “non si spara dove si ara”: dove ari per coltivare danaro con investimenti, dove crei legami politici importanti, più spari più generi fastidio, e il danaro secca.

A Sud, dove invece la zona è tua, non devi arare, hai già a disposizione le messi dei tuoi affari, e anzi non difendere il territorio con le armi significa dare tempo e possibilità d’organizzazione ai rivali. Ci sono zone considerate, quindi, luoghi dove può avvenire l’omicidio, dove la guerra si può compiere perché non c’è più il tempo della mediazione. Ora Roma è diventata “zona nostra”. Da tempo la Capitale sta vivendo una crisi criminale importante. La dinamica è molto chiara. Storicamente, le grandi organizzazioni criminali che comandavano su Roma – negli ultimi lustri le ‘ndrine calabresi e la camorra napoletana e casalese – hanno sempre lasciato un ruolo di controllo delle strade ai clan locali (come i Casamonica, gli Spada a Ostia, ma anche i Piscitelli…). Questa struttura permetteva a ‘ndrangheta, camorra e Cosa nostra di potersi limitare a coordinare gli affari senza dover entrare direttamente nella gestione militare. Per esempio, il clan Senese, di diretta emanazione camorristica, erede del potere dei Moccia (una delle famiglie camorristiche riuscite a trasformarsi in una struttura imprenditoriale) a Roma ha sempre avuto un ruolo particolare, cioè pur essendo parte dell’aristocrazia criminale camorrista, non ha rinunciato a una gestione diretta nel controllo delle strade. Il segmento criminale non è mai stato subappaltato. 

Quello che sta accadendo a Roma, probabilmente, è che una volta eliminato Piscitelli, una volta che Carminati è stato fermato (per ora) nel suo potere criminale, con l’attenzione mediatica così fortemente accesa sulla criminalità autoctona romana, si è creduto di star raccontando la mala della città, quando invece si trattava solo del segmento più basso. Il potere che hanno da sempre le organizzazioni storiche del Sud sulla Capitale è inviolato: finiti i Carminati e eliminati i capi alla “Diabolik”, le mafie rimangono e comandano. Carminati, del resto, è riuscito a sopravvivere fisicamente e giudiziariamente grazie alla sua intuizione: non toccare il narcotraffico. Non toccare, quindi, il potere delle organizzazioni mafiose e costruire gli affari negli interstizi possibili. Si sono vestiti da re Carminati, Diabolik, gli Spada, ma erano solo sensali. Oggi il loro potere sta passando alle famiglie mafiose albanesi. Diventate potentissime dopo decenni di presenza sul territorio e oggi definibili come la nuova mafia romana, sono operativamente efficienti perché possono contare su numerosi affiliati stretti da legami di parentela.

L’agguato di Torvaianica era, infatti, contro un ragazzo albanese con precedenti per droga. I clan di Tirana e Scutari gestiscono direttamente le piazze di spaccio romane, controllano i carichi e hanno un ruolo di interlocuzione privilegiata con i cartelli storici calabresi e campani, cui forniscono marijuana a prezzi imbattibili detenendo ormai il monopolio del traffico.

La risposta politica, in questi anni, è sempre stata sbagliata: si è sempre cercato di trattare la mafia a Roma come un fenomeno marginale, quando invece occupa ormai una parte centrale del segmento pubblico. La politica non ha mai cercato di sradicare le connivenze territoriali, dalle sale slot ai gruppi ultras legati alla criminalità organizzata, non si è mai opposta a tutto quel fascistume locale che ha sempre fatto da protezione e garanzia ai clan. Ha sempre permesso che questi fenomeni fossero visti come folkloristici, perché quei gruppi portano valanghe di voti alle elezioni amministrative.

Roma è ormai a tutti gli effetti terra di mafia. Anzi, di mafie.