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Quei figli tolti alla ‘ndrangheta in affido per avere un futuro

Quei figli tolti alla ‘ndrangheta in affido per avere un futuro

Sessanta minori allontanati in 7 anni. I giudici: il progetto funziona meglio con le ragazze

06 Settembre 2019

di Giuseppe Legato

Reggio Calabria, anno 2016. Udienza a porte chiuse. In aula compare una giovane madre accusata di mafia. Anni fa ha sposato un boss della ‘ndrangheta al «41 bis» nel supercarcere di Spoleto. La sua deposizione è “sofferta e insieme drammatica”, si legge in calce agli atti del procedimento. “La donna – scrive il giudice estensore – auspica un provvedimento di allontanamento dei figli dalla realtà delinquenziale di cui ella aveva fatto parte al fine di scongiurare il pericolo per i medesimi di finire in carcere oppure ammazzati”. Aggiunge: “Non pensate di affidarli al contesto familiare di mio marito. Non vi sono persone idonee”. Precisa: “In Calabria e in Italia non c’è nessun parente di cui possa fidarmi”. Poche ore dopo, i figli sono in Veneto. Lei, a distanza di alcuni mesi, li ha raggiunti. E non sono più tornati. È questo uno dei sessanta casi di minorenni «strappati», negli ultimi sette anni, alla potentissima mafia calabrese dalla giustizia minorile di Reggio Calabria. Dal 2012 è nato qui un rivoluzionario orientamento giurisprudenziale che muove da questo assunto: indottrinare un figlio alla sub-cultura mafiosa equivale a maltrattamenti in famiglia. Oppure da questo: “I comportamenti tenuti da un padre affiliato all’associazione criminale sono in tutta evidenza incompatibili con la funzione educativa che orienta i suoi poteri/doveri”. Per i giudici, il logico corollario “è la decadenza dalla responsabilità genitoriale”.
Una sessantina di bambini sono stati allontanati dalla culla della ‘ndrangheta, a volte con le loro mamme. “Provvedimenti adottati con coscienza e coraggio – spiega il Pg di Reggio,
Bernardo Petralia. Che mirano a salvare giovani da un futuro nero spesso già scritto, ma anche a scardinare «il cosiddetto forziere etico della ‘ndrangheta ossia quell’insieme di malintesi valori che si tramandano dai genitori ai figli che costituiscono la forza e al tempo stesso l’immanenza dell’associazione criminale”, dice Petralia. Il motore, manco a dirlo, spesso sono le stesse madri che invocano aiuto per poi dissociarsi dal mondo nero delle ‘ndrine e ricominciare una vita lontano. Alcune, a Natale, scrivono lettere al presidente del tribunale dei Minori. Una di queste recita: “Ogni volta che guardo negli occhi il mio bambino, e leggo la sua gioia nel trovarsi in questa città dove tutto lo rende felice, il mio pensiero corre da lei. Per questo non finirò mai di ringraziarvi. Il ragazzino si fa apprezzare dalle maestre e i suoi voti sono alti e spero che un domani anche Lei possa essere orgoglioso di lui”.
Alcuni dei giovani allontanati negli anni frequentano corsi di formazione di lingue in Inghilterra, altri si sono iscritti all’Università. Cercano un impiego e magari ci riusciranno anche grazie ai partner di questo progetto: la presidenza del Consiglio dei Ministri, Libera, il Miur, Unicef. Che credono al metodo dei magistrati reggini e mettono soldi ed energie per dare gambe a un’idea e a una rete che funzioni davvero e non rimanga uno spot antimafia.
Compiuti i 18 anni i giovani “strappati” ai boss possono scegliere: se tornare a casa e se delinquere ancora. O meno. Perché i provvedimenti – va detto – sono sempre temporanei e hanno diverse sfumature nella fase di esecuzione. Ma evidentemente funzionano, visto che «il tasso di recidiva è bassissimo», spiega il presidente del tribunale dei Minori, Roberto Di Bella, “la mente” del nuovo corso sui figli della mafia. “Le maggiori soddisfazioni ce le stanno dando le ragazze. Non vogliono tornare, hanno scelto di restare nelle famiglie affidatarie perché hanno scoperto il profumo della libertà. Dai soprusi, dai controlli ossessivi, dai divieti. Oggi possono scegliere di studiare, possono fidanzarsi con chi amano. In una parola: possono vivere”. Come un giovane della Locride che era un bambino quando è stato portato via. Gli investigatori lo avevano filmato alla guida di un’auto su cui il padre aveva appena caricato un mitragliatore. Oggi vive in Sardegna. Non è tornato a casa nemmeno lui. Pochi giorni fa un padre-boss di Reggio, uscito dal carcere dopo 23 anni ininterrotti di detenzione, ha chiesto di parlare con Di Bella. “La ringrazio per aver salvato i miei figli. Ma ora mi dissocio io dalla ‘ndrangheta. Voglio tornare da loro”.

Tratto da: La Stampa


fonte:http://www.antimafiaduemila.com