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Quarant’anni di delitti, ricatti e trame occulte: la P2 è morta, ma il piduismo vive

L’Espresso

Quarant’anni di delitti, ricatti e trame occulte: la P2 è morta, ma il piduismo vive

La loggia segreta di Licio Gelli, scoperta il 17 marzo 1981, era uno Stato nello Stato: 962 massoni infiltrati in tutte le istituzioni. Dal crack Ambrosiano alla strage di Bologna, da Tangentopoli a Berlusconi, l’eredità nera di sistema che sopravvive al suo creatore e condiziona ancora la democrazia

di Paolo Biondani

11 MARZO 2021

La P2 sembra morta e sepolta, ma il piduismo vive ancora. Sono passati 40 anni dalla storica scoperta dell’elenco degli affiliati alla loggia massonica segreta di Licio Gelli. Un sistema di potere occulto che si era impadronito delle istituzioni. Lui, il grande burattinaio, non c’è più: è deceduto nel dicembre 2015 nella sua villa di Arezzo, libero da anni, nonostante svariate condanne per reati gravissimi. Con il marchio di organizzatore e principale beneficiario della rovinosa bancarotta dell’Ambrosiano. E di stratega dei depistaggi di Stato che hanno ostacolato le indagini sulla strage di Bologna, per favorire i neofascisti dei Nar. Oggi, certo, l’Italia è cambiata, non è più il paese del terrorismo e dei servizi deviati, della mafia padrona e delle banche criminali. Ma le reti di mutuo sostegno nate in quegli anni neri hanno continuato a condizionare la nostra democrazia. Con dinastie di piduisti rimasti in posizioni chiave, nella politica, nell’economia, nei media. Con strategie e parole d’ordine che restano le stesse di allora. Tra soldi spariti, complicità mai confessate, dossier e ricatti che funzionano ancora.


Quarant’anni fa, il 17 marzo 1981, inizia il declino della P2, non la sua sconfitta. Quel giorno viene perquisita a sorpresa la Giovane Lebole (Giole), nota azienda d’abbigliamento con sede a Castiglion Fibocchi. L’ordine è firmato da due giudici istruttori di Milano, Giuliano Turone e Gherardo Colombo. Indagano su due misfatti che si rivelano collegati: l’omicidio di Giorgio Ambrosoli, il liquidatore delle banche private di Michele Sindona, e il finto sequestro dello stesso banchiere siciliano, incriminato per bancarotta fraudolenta in Italia e negli Usa. Questa genesi non va dimenticata: la loggia di Gelli viene smascherata dalle inchieste che portano alla condanna di Sindona, piduista, come mandante dell’omicidio dell’«eroe borghese» Ambrosoli. E che fanno emergere la complicità tra il banchiere e le famiglie italo-americane di Cosa Nostra, diventate ricchissime con il boom dei traffici di droga. Fuggito da New York nell’estate 1979, Sindona si rifugia in Sicilia, protetto dai boss palermitani. E per simulare di essere stato rapito da terroristi di sinistra, si fa sparare a una gamba da un medico massone. Che risulta in stretto contatto con Licio Gelli.

Turone e Colombo selezionano una squadra di finanziari incorruttibili e ordinano di perquisire, senza informare i superiori, quattro indirizzi. Nei tre ufficiali, compresa villa Wanda, non c’è niente d’importante. L’archivio segreto è nell’ufficio in uso a Gelli alla Giole. Nella cassaforte c’è una lista ordinata, con 962 nomi di affiliati alla misteriosa loggia massonica “Propaganda 2”. Ci sono quattro ministri, 44 parlamentari, tutti i capi dei servizi segreti, l’intero vertice della Guardia di finanza, decine di generali e colonnelli dei carabinieri, esercito, marina, aviazione. E poi prefetti, funzionari centrali e periferici, magistrati, banchieri, imprenditori, direttori di giornali. Una struttura segreta, con gradi e gerarchie, cementata dal vincolo massonico. Uno Stato nello Stato. Che obbedisce a Gelli.

I giudici milanesi si sentono in dovere di consegnare l’elenco al presidente del Consiglio, Arnaldo Forlani. A riceverli a Roma è il suo capo di gabinetto: piduista anche lui. Il 20 maggio il premier democristiano è costretto a pubblicare la lista. Lo scandalo scuote l’Italia. Una settimana dopo, Forlani si dimette. Nasce il primo governo laico, guidato dal repubblicano Giovanni Spadolini. Il parlamento vara una commissione parlamentare d’inchiesta, presieduta dall’ex partigiana bianca Tina Anselmi. Nel 1982 viene approvata una legge che vieta le associazioni segrete: mai più P2.

La commissione Anselmi, che ha poteri inquirenti, conclude la sua maxi-inchiesta stabilendo che la lista di Gelli è autentica e certifica vere affiliazioni, con riscontri oggettivi come i pagamenti delle quote d’iscrizione, versate su un deposito anonimo alla Banca Etruria. L’elenco però è incompleto: Gelli ha nascosto molte altre carte, centinaia di piduisti restano senza nome. Anche il livello superiore è oscuro. La relazione Anselmi usa la famosa metafora della clessidra: Gelli è al vertice della piramide visibile, ma è a sua volta controllato da strutture più potenti, rimaste occulte.

La svolta per la legalità, democrazia e trasparenza si esaurisce in pochi mesi. Già nell’estate 1981 la Cassazione strappa a Milano l’indagine giudiziaria sulla P2 e la trasferisce a Roma, dove viene insabbiata per tutto il decennio. I ministeri chiave avviano procedure amministrative che mettono in dubbio la lista sequestrata a Gelli, consentendo ai funzionari massoni di continuare a fare carriera. Caduto Spadolini, illustri piduisti tornano al potere. Il ministro del Bilancio del primo governo Craxi, ad esempio, è Pietro Longo (Psdi), passato alla storia come uno dei pochissimi politici italiani condannati per corruzione ancora prima di Tangentopoli.


Lo scandalo ha effetti profondi nella finanza e nei media, ma solo per ragioni economiche e giudiziarie, non per iniziative politiche. Il Banco Ambrosiano, motore del sistema, fallisce con perdite record per 1.193 miliardi di lire. Le sentenze spiegano che la banca cattolica guidata da Roberto Calvi (ucciso nel 1982 a Londra) era diventata la tesoreria occulta dei capi della P2. Ma anche la cassaforte estera dei fondi neri dello Ior, la banca vaticana, guidata da un cardinale americano che ottiene l’immunità diplomatica. Gelli e il suo braccio destro, Umberto Ortolani, vengono dichiarati colpevoli, in tutti i gradi di giudizio, per aver rubato montagne di soldi, usati tra l’altro per impadronirsi del gruppo Rizzoli-Corsera. Dopo l’arresto in Svizzera, Gelli risarcisce 300 milioni di dollari, ormai sequestrati. Mentre lo Ior ne rimborsa altri 250 «senza ammissioni di colpa».

Una società simbolo del sistema P2 è una offshore anonima, denominata Bellatrix: custodisce il pacchetto di controllo del Corriere della Sera, ma nessuno la rivendica, per non auto-accusarsi della bancarotta. A liquidarla sono i giudici di Milano che liberano la Rizzoli dalla P2. Calvi e Sindona furono due pionieri della finanza offshore, che oggi è una patologia mondiale.


Con lo scandalo P2 anche i vertici dei servizi segreti vengono spazzati via dalle indagini giudiziarie, quelle sul terrorismo di destra. Risultano piduisti, in particolare, tutti gli ufficiali condannati per aver depistato le inchieste sulle stragi nere, da Milano a Peteano, da Brescia a Bologna. Invece di contrastare il terrorismo, facevano scappare i ricercati con documenti falsi, distruggevano intercettazioni, nascondevano prove, pagavano i latitanti per farli tacere. Lo stesso Gelli è stato condannato come mandante del più spaventoso depistaggio di Stato: armi ed esplosivi nascosti dai militari piduisti del Sismi su un treno per Bologna.

La relazione Anselmi definisce la P2 «un’organizzazione criminale» con due fasi. La prima è «eversiva»: fino al 1974 Gelli arruola soprattutto militari di destra con tendenze golpiste. E ottiene coperture internazionali da un fronte anti-comunista che va dai servizi americani alla dittatura argentina. La linea cambia in coincidenza con la caduta di Nixon per lo scandalo Watergate. A partire dal 1976 nella P2 entrano imprenditori, politici, banchieri, funzionari, giornalisti. Ora l’obiettivo è conquistare il potere salvando le apparenze della democrazia, come nel «golpe bianco» progettato dal nobile piduista Edgardo Sogno.


Fuori dal perimetro dei processi penali, la P2 rinasce dalle sue ceneri. La relazione Anselmi cita Silvio Berlusconi (tessera 1816) come esempio di imprenditore favorito dalle banche controllate da piduisti, come Montepaschi e Bnl, «al di là di ogni merito creditizio». Lui smentisce (sbugiardato dalle sentenze) e negli anni Ottanta crea il suo impero televisivo, che sembra realizzare lo slogan del «piano di rinascita nazionale» sequestrato alla figlia di Gelli: «Dissolvere il monopolio pubblico in nome della libertà d’antenna». Il gruppo Fininvest accoglie molti ex affiliati, tra cui spicca Maurizio Costanzo, l’intervistatore ufficiale del «signor P2». A fare concorrenza alle tv private dovrebbe pensare la Rai, dove diventa presidente il socialista Enrico Manca: nella lista di Gelli c’era anche il suo nome, ma non si può scrivere che fosse piduista. A escluderlo è una sentenza romana firmata da Filippo Verde, un giudice che incassava soldi in Svizzera, poi assolto o prescritto da tutte le accuse. E la «prova a discarico» che scagiona Manca è una testimonianza orale di Costanzo. Che intanto ammette la propria iscrizione alla loggia segreta. Ed è tuttora il grande vecchio della televisione italiana, pubblica e privata.

Della P2 si torna a parlare con Tangentopoli. A partire dal 1992 le indagini sulla corruzione svelano il ruolo cruciale di molti piduisti. Come Duilio Poggiolini, corrottissimo capo della commissione farmaci. La maxi-inchiesta Mani Pulite comprova anche lo scandalo del Conto Protezione, descritto in uno dei dossier ricattatori sequestrati nel 1981 alla Giole: una tangente di 7 milioni di dollari, versati da una società estera dell’Ambrosiano a Bettino Craxi e Claudio Martelli, su un conto svizzero prestato dal faccendiere amico Silvano Larini. Soldi chiesti da Gelli a Calvi, che in cambio ottiene prestiti dall’Eni, smistati da un dirigente socialista e piduista, Leonardo Di Donna.

Nel processo simbolo per la maxi-tangente Enimont, invece, trova spazio un altro affiliato, Luigi Bisignani, scoperto a riciclare soldi della Montedison attraverso lo lor: la stessa banca vaticana del crack Ambrosiano. E di tanti scandali successivi, fino alle grandi pulizie ordinate da papa Francesco con la prima riforma anti-riciclaggio.


Nel 1994, con la nascita di Forza Italia e la vittoria di Berlusconi, Fini e Bossi, tornano al governo e in Parlamento schiere di reduci della P2: da Fabrizio Cicchitto ad Antonio Martino, Vito Napoli, Aventino Frau, Publio Fiori, Gustavo Selva. Mentre Massimo De Carolis (tessera 1815) diventa presidente del consiglio comunale di Milano, prima di dimettersi dopo una condanna per corruzione (tangenti sul depuratore, divise con altri ex piduisti).

Il ventennio berlusconiano è costellato di progetti di matrice piduista, di cui Gelli rivendica la paternità in un’intervista a Repubblica: leaderismo e presidenzialismo, riduzione del peso dei partiti, separazione delle carriere tra giudici e pm, attacchi ai magistrati «comunisti». Da allora, nei palazzi del potere, riemergono figure intramontabili: da Vittorio Emanuele di Savoia, riaccolto in Italia con una modifica della Costituzione, a Gian Carlo Elia Valori, il super dirigente pubblico che fu espulso dalla P2 perché faceva concorrenza a Gelli. Mentre Flavio Carboni, il faccendiere condannato per l’Ambrosiano, torna agli arresti con la cosiddetta P3 (tangenti sull’energia eolica, gestite da massoni sardi). E l’eterno Bisignani è tuttora sotto processo a Milano per corruzione, dopo essere stato intercettato con l’amico manager Paolo Scaroni mentre trattava affari con l’Eni in Nigeria e dispensava consigli a ministri.


Per completare il quadro, si potrebbero citare le straordinarie posizioni di potere conquistate, anche in tempi recentissimi, dai figli ed eredi di numerosi piduisti, che però hanno diritto di non rispondere delle colpe dei padri. Per misurare la forza persistente dei legami di loggia, piuttosto, basta studiare le nuove indagini della procura generale di Bologna, che accusa Gelli e Ortolani di essere stati i «mandanti e finanziatori» dell’orrenda strage del 2 agosto 1980. Quarant’anni dopo, la ricerca di verità e giustizia continua a scontrarsi con reticenze di ex ufficiali dei servizi, documenti spariti, menzogne depistanti, mediatori che non ricordano a chi hanno consegnato valigie di soldi della P2, complicità inconfessabili.

Un caso esemplare è l’interrogatorio di un generale che ha comandato il centro Sid di Padova, una roccaforte della P2. I magistrati di Bologna gli contestano che, nel luglio 1980, aveva ricevuto «il preannuncio della strage» da un giudice anti-terrorismo, Giovanni Tamburino, allertato da un detenuto di destra (poi pestato a sangue). Il generale ha 90 anni, è malato. I magistrati gli mostrano le carte dell’epoca firmate da Tamburino, ma lui nega perfino l’evidenza dell’incontro. E piuttosto di parlare, sceglie di affrontare, poco prima di morire, un’accusa infamante di falsa testimonianza sulla strage. L’ombra della P2 si allunga su molti altri delitti politici irrisolti, dall’omicidio Pecorelli all’assassinio di Piersanti Mattarella. L’ex giudice Giuliano Turone, oggi, commenta: «La P2 fa ancora paura».