NON sempre la magistratura riesce ad acquisire le prove indispensabili a incastrare gli “onorevoli” collusi, di ogni colore e stagione. Tuttavia, convergenti e reiterati sospetti consegnano, a chi abbia voglia di leggerlo, un pezzo di storia politica e sociale con cui bisogna fare i conti. E soprattutto, dovrebbero spingere lo Stato a intraprendere contromisure e a determinare scelte drastiche, come esortava l’inascoltato Paolo Borsellino. «Altri poteri e altri organi dovrebbero trarre le conseguenze da queste vicinanze tra politici e mafiosi che non costituiscono reato, ma rendono comunque il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica», ragionava il magistrato siciliano, nel suo famoso discorso del 1989 agli studenti di Bassano del Grappa, tre anni prima di essere ucciso da Cosa Nostra.

Sono parole che sembrano soprattutto oggi cadere nel vuoto, mentre risuonano ancora gli echi della roboante macchina delle commemorazioni per il 25ennale delle stragi di Palermo. Ma capita che il passato prossimo infastidisca, perché troppo correlato al presente; mentre il passato remoto commuove. Forse anche per questo un silenzio assordante delle istituzioni copre – e sembra insonorizzare – l’ultima raggelante pagina di politica e amministrazione pubblica che emerge dall’inchiesta della Distrettuale antimafia di Napoli sul Piano di insediamento produttivo (Pip) di Marano.

SI tratta dell’inchiesta che ha portato in carcere due fratelli costruttori del deputato di Forza Italia, Luigi Cesaro, insieme ad altri imprenditori accusati di riciclaggio; uno dei quali, Antonio Di Guida, ritenuto «l’uomo del clan Polverino» è stato per due volte assessore nella giunta (che fu) della Provincia di Napoli.

Per inciso: è lo stesso coacervo di affari sporchi e relazioni pericolose che già si era manifestato nel processo sulla realizzazione del Pip di Lusciano (Caserta). Come ad attestare che, in alcune aree, l’adozione di strategie amministrative e strumenti urbanistici diretti a portare sviluppo nel Mezzogiorno depresso sia servito a produrre, per paradosso, l’eliminazione dei germi di un’economia sana e la saldatura letale tra crimine organizzato e zone nere (di grigio c’è poco) di imprese e politica. Si tratta dello stesso Cesaro che, insieme con l’allora sottosegretario Cosentino, scalò Forza Italia e compose quelle candidature alle politiche del 2008 – per Camera e Senato – che tanto materiale hanno fornito alle Procure di varie città italiane, negli ultimi anni. Vale la pena di fare memoria, di quelle liste di “onorevoli”.

Ad esempio: Vincenzo Nespoli (condannato per bancarotta), Amedeo Laboccetta (accusato di riciclaggio), Marco Milanese (condannato per corruzione), Sergio De Gregorio (che si è autoaccusato e ha patteggiato una condanna per corruzione sulla compravendita dei senatori), Alfonso Papa (condannato per induzione alla concussione). E giù fino agli ultimi dell’elenco, dalle indagini che hanno coinvolto Pasquale Vessa fino a Marcello Di Caterina: quest’ultimo, ex deputato, ora nelle vesti di collaboratore della sottosegretaria Vicari, solo una settimana fa ha consegnato il Rolex da 5mila euro che i magistrati siciliani cercavano nelle sue stanze, nella perquisizione disposta dai magistrati siciliani. Passano le Repubbliche, Forza Italia resta quella.

Cesaro attualmente gestisce ciò che resta del partito berlusconiano in Campania; guida i consiglieri regionali in Regione, capitanati da suo figlio, Armando. Eppure, nel limbo della politica campana, non una voce né a destra né a sinistra, che ripercorra un allarme ad oggi tuttora valido: come testimoniano i numerosi comuni, qui ed ora, alla vigilia delle amministrative, in cui Forza Italia non compare con una sua lista semplicemente perché “distribuita” in varie compagini a sostegno del Partito democratico.

Per questo, i frammenti emblematici che si stagliano dalle 420 pagine dell’ordinanza sul Pip di Marano – pur vincolati al vaglio cui devono essere sottoposte le indagini preliminari – parlano al presente. E interrogano i vari livelli politici. Emerge forte il sospetto di come – in questa provincia e regione in particolare – le tentacolari espressioni di una cultura della violenza, della sopraffazione e dell’illegalità, abbiano manovrato il destino di intere comunità, spesso sostituendosi alle istituzioni.

La camorra che si fa direttamente classe dirigente? L’inquietante dubbio potrebbe essere sciolto anche solo a sentire alcuni indagati parlare. Cesaro, nelle accuse di alcuni pentiti, vi figura come il parlamentare della Repubblica nei cui «uffici, a Sant’Antimo » si recavano, stando alle accuse, sia un killer come Ferdinando Puca, sia un un riciclatore di capitali mafiosi come Gaetano Montalto. Entrambi a «ritirare soldi»: o per la compravendita dei voti, o per l’affare del calcestruzzo. Uno dei fratelli, Raffaele Cesaro, rassicura l’interlocutore, mentre è intercettato, con parole che ai magistrati appaiono inequivocabili sui «patti che avrebbero dovuto stringere con la camorra». «Il fatto con loro l’ho già fatto, Antò quindi ci sedemmo proprio», dice il fratello dell’onorevole.

E non basta. Perché Di Guida, il «riciclatore » messo in giunta da Cesaro (deleghe all’Agricoltura, al Commercio, all’Artigianato; successivamente anche al Turismo), si sfoga durante un dialogo intercettato appena pochi mesi fa: «Ma secondo te chi ha imperato a Marano? Simeoli, Polverino, Nuvoletta hanno fatto quello che c… volevano loro». E più avanti è sempre lui a rimpiangere il potere di quei “clan pesanti”, macchiatesi di stragi e sangue

innocente, adirandosi per le richieste estorsive dei giovanissimi boss emergenti, gli Orlando: «Andavi in una caserma a fare la denuncia, dopo due minuti lo sapevano prima loro che tu… Ma c’erano clan pesanti! Ora sono tutti ragazzini, roba di diciannove e venti anni. E tu vorresti rompere il c… a me?»).
Un racconto che, riscontri giudiziari a parte, dovrebbe valere come memoria. Non quella che commuove.

Possibilmente, non 25 anni dopo.