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Qualcuno salvi i ragazzi di Napoli.

Qualcuno salvi i ragazzi di Napoli.
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Il Mattino, Giovedì 21 Dicembre 2017

Qualcuno salvi i ragazzi di Napoli

di Pietro Treccagnoli

Ogni coltellata inferta da un giovane a un giovane è un passo verso l’abisso, verso la morte della speranza. Lo è di più in giorni che dovrebbero spingere a una pacificazione, a una redenzione. Eppure, in questo Natale che sta arrivando, Napoli appare come Sagunto assediata dal suo interno. Costretta a fare i conti con i fatti e non a far roteare sciabole pigliandosela con la narrazione, con i cattivi modelli raccattati da fiction. Si scambia il dito per la luna e si perde tempo. E di tempo non ce n’è più da perdere, da consumare in sociologia della comunicazione o in pedagogia orecchiata. Il ferimento di Arturo, il 17enne preso di mira nella affollatissima via Foria, tra la Sanità e la rovente zona di Carbonara da ragazzini probabilmente al di sotto dell’età imputabile, è un atto estremo di bullismo.

E’ crudeltà gratuita e ancora più criminale perché inconsapevole alimentata da una presunzione di impunità di chi vive nella sua tana come una murena velenosa pronta ad azzannare. L’aggressione animalesca contro un ragazzo che tornava a casa per i fatti suoi, spinge a interrogarsi e a mobilitarsi, come hanno fatto i compagni di scuola della giovane vittima. Domani scenderanno in strada, si riprenderanno la strada, dimostreranno di esistere e non solo di resistere in silenzio. È il primo di cento passi che, si spera, si moltiplicheranno per quanti vorranno metterci il cuore e la faccia, vincendo la paura che sta attanagliando le famiglie.

Bisogna scegliere tra salvare l’immagine e salvare la vita. Solo se si salva la seconda si può salvare anche la prima. E in questa città, costretta a confrontarsi continuamente con la devastazione delle coscienze, con lo slabbrato fallimento di progetti educativi, con l’arrancante riscatto, con la povertà senza vie d’uscita se non quelle della devianza, la vita che più conta è quella dei giovani, dei figli che dovranno abitare il futuro. Se si interroga chi lavora per il recupero di ragazzi che hanno sbagliato, se si ragiona con chi fatica a costruire rette vie, alla Sanità (come Pina Conte dell’Associazione Progetto Oasi) o a Bagnoli (gli operatori del «Quadrifoglio») o in altri quartieri del centro dolente e della periferia ferita, emerge un quadro dove prevalgono le tinte fosche, ma l’emersione dal gorgo brechtiano è possibile ancora. È ancora possibile costruirsi un lavoro come pizzaiolo, come barista (magari a Londra), accettare la sfida di liberarsi dalla morsa asfissiante degli amici del Sistema che spingono allo scippo, al furto, allo spaccio, alla rapina in un crescendo di prove che dall’iniziazione passano all’affiliazione, alla galera o alla morte.

Attorno a ragazzi che ormai conoscono il mondo solo attraverso lo schermo del telefonino ci sono troppo spesso famiglie prive degli strumenti minimi di protezione o che addirittura proteggono la devianza o sollecitano i reati. Mamme distratte, padri lontani, in carcere o già sottoterra. Famiglie dove non si parla neanche a tavola, anzi nelle quali a tavola non ci siede nemmeno. Il contesto è persino peggiore. Si è condizionati da amici appena più grandi che ostentano il successo ottenuto facilmente, ma che durerà poco, sono frequentazioni dove le abilità e le intelligenze vengono mortificate rispetto all’arroganza, alla prepotenza, al marcamento del territorio. Conta la forza, si cresce nella forza e di fronte all’ostentazione della forza e non c’è dibattito su Gomorra che tenga, che smonti il giocattolo perverso della narrazione. Chi segue questi ragazzi, battendosi per il loro recupero s’interroga sui modelli distorti e teme che qualche pericolosa sovrapposizione la creino con effetti ancora da valutare con rigore e non rincorrendo lo schiamazzo dei social. La verità è che sono specchi riflessi: la fiction riproduce la realtà che riproduce la fiction, in una fuga infinita nella quale si smarrisce il punto di partenza e quello d’arrivo. E sono questi due punti che chi ha il compito di combattere questo male annidato nell’oscuramento della ragione non deve mai perdere di vista. Servono le armi della concretezza, della meticolosa costruzione di un tessuto connettivo che tenga insieme le parti del copro sociale. È un lavoro duro e lungo, certo, ma il resto sono solo chiacchiere e tabacchiere di legno.