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Quakle uso é stato e viene fatto delle centinaia di milioni di euro confiscati alle mafie.

Si può sapere che uso é stato e viene fatto delle centinaia di milioni di euro confiscati alle mafie e finiti nelle casse dello Stato ??????

Qua si sta scoraggiando la gente a collaborare con la Giustizia !!!!!!!!!!!! Un colpo mortale che favorisce le mafie.
MA SI PUO’ SAPERE CHE
USO E’ STATO FATTO E
VIENE FATTO DELLE
CENTINAIA DI MILIONI DI
EURO CONFISCATI ALLE
MAFIE E FINITI NELLA
CASSE DELLO STATO
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Lo Stato non ha più i soldi per proteggere i pentiti
Numerosi collaboratori di giustizia escono dal programma di protezione per tutelare la loro famiglia
Carmine Gazzanni
Un’operazione antidroga a Scampia, Napoli (Credits: MARIO LAPORTA/AFP/Getty Images)

In periodo di spending review nemmeno la lotta alla mafia resta immune. E allora anche il fondo del
programma di protezione per i pentiti e i testimoni di giustizia finisce con l’essere falcidiato. Con la
conseguenza che molti collaboratori, spesso, preferiscono uscire dal programma per sentirsi,
paradossalmente, più al sicuro e tutelare i propri familiari.
Sembra assurdo, ma è così: pentiti e testimoni costano troppo per le casse italiane. Nonostante il
notevole aiuto nella lotta al crimine organizzato, mancano mezzi e uomini a sufficienza per garantire la
necessaria sicurezza e il sostegno economico. Anzi, la situazione peggiorerà nei prossimi anni. Se infatti
nell’ultimo semestre 2014 sono risultati insufficienti i circa 42 milioni impiegati per proteggere
collaboratori e testimoni di giustizia, secondo quanto riportato nelle note di variazione alla legge di
stabilità 2015, nel prossimo triennio i programmi per i soggetti a rischio subiranno un taglio di quasi il
30 per cento, passando da 85 a 60 milioni.
Nel prossimo triennio i programmi per i soggetti a rischio
subiranno un taglio di quasi il 30 per cento, passando da 85 a 60
milioni

È la stessa relazione sui “programmi di protezione, sulla loro efficacia e sulle modalità generali di
applicazione per coloro che collaborano con la giustizia” a dirlo in maniera inequivocabile: dal 2009 c’è
stato un progressivo taglio dei fondi messi a disposizione per l’assistenza sanitaria, sociale e lavorativa
per testimoni e collaboratori di giustizia. Ed ecco allora che si riscontrano sempre più “problematiche
di gestione sia per la sicurezza personale dei singoli soggetti sia per gli aspetti legati alla situazione
logistica e dell’assistenza economica. Infatti, l’aspetto emergenziale è fortemente aggravato dalla
carenza di disponibilità finanziaria che si protrae ormai da parecchi anni”. E, a fronte di risorse limitate,
gli ultimi dati (pubblicati lo scorso settembre) dicono che il numero, tra pentiti e testimoni di giustizia
(ovvero coloro che, non essendo interni alle criminalità organizzate, decidono di denunciare estorsioni
o minacce), è in evidente crescita. Basti questo: oggi le persone sottoposte a programmi di protezione
hanno superato quota 6000, 162 in più rispetto al semestre precedente. Mai così tante dal 1995.
In quattro anni di collaborazione, Scifo è stato trasferito 15 volte,
suo figlio 17. Un continuo via vai che non ha permesso a Scifo di
potersi reinserire concretamente in un altro ambiente
Una situazione al collasso, dunque. E così ecco che, spesso, le tutele necessarie a collaboratori e
testimoni di giustizia vengono meno. Con la conseguenza, paradossale, che gli stessi pentiti
preferiscono uscire dal programma di protezione nel momento in cui protezione non è più. È il caso di
Antonio Scifo, per anni affiliato di Cosa Nostra e vicino ai Santapaola di Catania. È il 2010 quando
decide di pentirsi. Oggi, però, Scifo ha deciso di continuare la sua collaborazione con le procure fuori
dal programma di protezione. Il motivo? «La protezione è praticamente inesistente», dice. Basti questo:
in quattro anni di collaborazione, Scifo è stato trasferito 15 volte, suo figlio 17. Un continuo via vai che
non ha permesso a Scifo di potersi reinserire concretamente in un altro ambiente. Certo è, però, che
uscire dal programma di protezione espone e non poco. Basti pensare a Lea Garofalo, una delle
“fimmine” diventate l’emblema della lotta alla ‘ndrangheta. Lea aveva testimoniato sulle faide interne
tra la sua famiglia e quella del suo ex compagno Carlo Cosco. Ammessa nel 2002 insieme alla figlia
Denise, si vide estromessa dal programma nel 2006 perché «l’apporto dato non era stato significativo».
Lea fece ricorso al TAR, che le diede torto, e poi al Consiglio di Stato, che invece le diede ragione. Nel
dicembre del 2007 venne quindi riammessa al programma, ma poi decise di rinunciarvi ancora una volta
volontariamente. Prima di trovarsi, per l’ultima volta, dinanzi ai suoi assassini.
Prigionieri dello Stato
Ma c’è anche chi, per ragioni burocratiche, rimane letteralmente prigioniero dello stesso Stato. Luigi
Bonaventura è un ex boss di una delle cosche più efferate della ‘ndrangheta. Dopo sei anni di reggenza
della ‘ndrina crotonese Vrenna-Bonaventura, Luigi – che oggi è in carcere per scontare una pena per
reati passati – decide di pentirsi: comincia a parlare, a denunciare, a fare nomi. Arriva a collaborare con
ben 11 Procure distrettuali e con la stessa Direzione Nazionale Antimafia, rilevando particolari e legami
prima sconosciuti. Un rischio enorme, tanto che gli viene assegnato il programma di protezione di
livello IV, il più alto.
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Ecco, però, che qualcosa incredibilmente si rompe. È tutto riportato in una lettera del 26 aprile 2013
inviata dal legale del pentito a Viminale, Presidenze del Consiglio e Dna. Nel documento si ricostruisce
l’ultimo soggiorno di Bonaventura, a Termoli, in provincia di Campobasso: “«Il collaboratore – si legge
– ha ricevuto, solo dopo diversi mesi dal suo arrivo […] un documento personale con il limite di
utilizzo nella sola regione Molise, contrariamente a quanto previsto dalla legge, che non ha consentito
una concreta possibilità di inserimento socio-lavorativo».
Tutti sapevano chi fosse Bonaventura e perché mai un calabrese si
trovasse in Molise. E, soprattutto, lo sapevano anche gli “ex” amici
Stando alla denuncia di Bonaventura non sarebbe stato garantito nemmeno il giusto grado di
anonimato e mimetizzazione, dato che i contratti di locazione venivano stipulati direttamente da
personale del Nop. Stesso inspiegabile atteggiamento è stato tenuto anche per la scelta della scuola per i
due figli di Bonaventura e per la scelta del medico di famiglia. Insomma, tutti sapevano chi fosse
Bonaventura e perché mai un calabrese si trovasse in Molise. E, soprattutto, lo sapevano anche gli “ex”
amici: in quello stesso periodo risiedevano a Termoli anche due “falsi” pentiti, Eugenio e Felice
Ferrazzo, a cui è stato sequestrato (luglio 2011) un arsenale di armi insieme ad una lettera in cui,
appunto, si parlava espressamente della necessità di uccidere i Bonaventura. Una situazione assurda,
dunque, che ha spinto il pentito a chiedere addirittura di uscire dal programma di protezione. Peccato
però che, fino ad ora, nessuno dal ministero abbia mai risposto o accolto la richiesta del pentito.
Insomma, non solo non viene garantita tutela ma nemmeno, se si volesse, pare sia possibile farne a
meno. Una vera e propria “prigione di Stato”.
Quando le vittime sono i figli
Ma non finisce qui. Spesso sono anche i figli dei pentiti a rimanere vittime innocenti e inconsapevoli
dell’abbandono da parte dello Stato. Francesco Oliverio è un ex esponente di ‘ndrangheta, on il ruolo di
“trequartino” di una locale ‘ndrina di Belvedere Spinello, in provincia di Crotone. Collabora con la
giustizia dal 2012. Le sue dichiarazioni sono state centrali, ad esempio, nell’inchiesta “Aemilia” che ha
portato all’arresto di ben 117 persone. Ebbene, il figlio di Oliverio è stato affidato alla madre che, oggi,
è fuori dal programma di protezione. Dal 2013 i due non si incontrano: il testimone di giustizia non sa
più nulla di lui, di dove viva, cosa faccia, del suo stato di salute. Tutto questo, nonostante le continue
richieste al nucleo operativo protezione di competenza. Una situazione insostenibile, resa ancora più
tale dal fatto che secondo le denunce di Oliverio – oggetto, peraltro, di ben due interrogazioni,
entrambe ancora senza risposta, presentate in commissione antimafia da Riccardo Nuti – non verrebbe
garantita alcuna copertura economica, né segretezza o mimetizzazione. Tutt’altro dato che oggi
Oliverio vive con la moglie e due figlie con soli 900 euro al mese. Non solo: proprio nel momento in
cui il collaboratore, nella sua nuova residenza, era riuscito a trovare un piccolo lavoro anche per far
fronte alle spese quotidiane visto l’esiguo versamento statale, ecco che gli è stata comunicata – senza
alcuna spiegazione – la necessità di un nuovo trasferimento.
Testimoni a proprio rischio e pericolo
Nella lotta alle mafie contano non solo i collaboratori, ma anche i
testimoni di giustizia. Parliamo, cioè, di tutti coloro che hanno
deciso di non piegarsi alle minacce e alle estorsioni delle criminalità
organizzate. Anche per loro lo Stato assicura protezione. O
dovrebbe
Ma nella lotta alle mafie contano non solo i collaboratori, ma anche i testimoni di giustizia. Parliamo,
cioè, di tutti coloro che hanno deciso di non piegarsi alle minacce e alle estorsioni delle criminalità
organizzate. Anche per loro lo Stato assicura protezione. O dovrebbe, è il caso di dire. Prendiamo la
storia di Gennaro Giliberto, di cui parla Paolo De Chiara nel suo libro “Testimoni di Giustizia. Uomini
e donne che hanno sfidato le mafie”. Gennaro è un ex carabiniere che ha denunciato in passato gli
interessi della camorra sugli appalti di carcere e autostrade italiane. La sua testimonianza, presso
svariate Procure della Repubblica, ha permesso di scoperchiare la pentola della corruzione. Eppure,
prima del programma di protezione, ha dovuto aspettare ben tre anni. In questo lasso di tempo si è
mosso su e giù per le procure italiane per raccontare il malaffare, a sue spese, dormendo spesso in auto
per paura di tornare nel suo paese e mettere a repentaglio la sua vita e quella della sua famiglia. Solo
dopo una raccolta firme su “change.org” (più di 40 mila firme) i suoi diritti sono stati riconosciuti.
Peccato, però, che oggi, a causa anche dell’abbandono e dell’isolamento, Gennaro si è ammalato e
soffre di una grave patologia.
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Finita qui? No. Perché ci sono anche casi al limite del paradossale. Andrea Cutrupi è un imprenditore
edile di Reggio Calabria. Tempo fa è stato arrestato e ha passato sei mesi in carcere, proprio per
presunti rapporti con la criminalità organizzata. Da quell’accusa, però, è stato pienamente scagionato.
Non solo. Il signor Cutrupi è stato un teste fondamentale nella condanna del boss reggino Pasquale
Libri che, nonostante fosse al tempo ai domiciliari, tramite suoi mandanti aveva chiesto a Cutrupi una
cifra iniziale di ben 50 mila euro e un pizzo mensile di 10 mila euro, «avvertendo Cutrupi – si legge nel
verbale dei carabinieri – di non prendere neanche in considerazione l’idea di consegnare una somma
inferiore a quella richiesta». L’imprenditore reggino, però, ha avuto coraggio e ha rifiutato la “proposta”
del boss. Cominciano allora gli atti intimidatori, come il messaggio anonimo lasciato davanti alla sede
dell’azienda: «Ti invito a venirci a trovare urgentemente tu sai dove! Ti comunico che non verrà più
nessuno a cercarti! Se qualcuno verrà non sarà una visita di cortesia! Apri gli occhi e salutaci la
famiglia». A quel punto è troppo: Cutrupi denuncia tutto. Nasce un processo e Pasquale Libri viene
condannato a 18 anni. Si potrebbe pensare, a questo punto, che qualcuno abbia previsto per il Cutrupi
un sistema di protezione. E invece nulla di tutto questo.
Ma il bello deve ancora venire: nonostante le ben quattro istanze di riesame consegnate alla prefettura
di Reggio Calabria, questa non ha mai concesso all’azienda la certificazione antimafia. Il motivo?
Cutrupi, come detto, è stato in carcere. Fa niente se nel frattempo è arrivata l’assoluzione piena e se lo
stesso imprenditore si è esposto, rischiando la propria vita, per denunciare le estorsioni di una delle
‘ndrine più pericolose del reggino.
Se le banche arrivano dove non arriva la mala
Altro giro, altra storia inverosimile. Siamo nella Piana di Gioia Tauro, una delle zone calabresi più
inquinate dalla ‘ndrangheta. Antonino De Masi è un imprenditore. La sua è un’azienda, con oltre 100
operai, che opera nell’ambito delle costruzioni meccaniche e dei servizi portuali, con sede proprio
nell’area industriale del porto di Gioia Tauro. Il 13 aprile 2013 vengono sparati contro il suo capannone
44 colpi di kalashnikov AK-47. Un chiaro segnale. Come dire: qui gli affari si fanno solo se contratti
con noi. Ma anche De Masi decide di non piegarsi e resistere, denunciando pubblicamente. Peccato,
però, che se da una parte si resiste alle pressioni criminali, dall’altra sono gli interessi delle banche e il
disinteresse delle istituzioni ad affossare.
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De Masi, infatti, stretto nella morsa della criminalità e visti i ritardi da parte dello Stato
nell’assegnazione del fondo antiusura (nonostante il parere favorevole di qualcosa come 14 sentenze tra
Tar e Consiglio di Stato), si è dovuto rivolgere ad alcuni istituti di credito. Mai avrebbe potuto pensare,
però, che laddove non era riuscita la criminalità, ci sarebbero riuscite le banche. De Masi, infatti, è stato
vittima di usura da parte di tre Bnl, Unicredit e Monte dei Paschi, come confermato dalle sentenze in
primo, secondo e terzo grado. «Una volta accertata la sussistenza del fatto reato sotto il profilo
oggettivo da parte degli istituti di credito – si legge nella sentenza di Cassazione del 23 novembre 2011 –
trattandosi comunque di illecito avente rilevanza civilistica, non rileva, ai fini risarcitori, che non sia
stato accertato il responsabile penale della condotta illecita, in quanto l’azione, risarcitoria civile ben
potrà essere espletata nei confronti degli istituti interessati che rispondono, comunque, del fatto dei
propri dipendenti».
Insomma, anche se non si dovesse trovare un “colpevole” penale, «la responsabilità della banca sussiste
per il solo fatto che il danno ingiusto si è verificato per una condotta comunque alla stessa imputabile».
I tre istituti, dunque, dovrebbero risarcire De Masi. Ecco il punto: il condizionale è assolutamente
d’obbligo, dato che nonostante siano passati quattro anni dalla sentenza definitiva, le banche ancora
non risarciscono l’azienda di un euro (De Masi ha chiesto un risarcimento di 215 milioni). Ad oggi è
attivo un tavolo tecnico al ministero dello Sviluppo Economico per cercare di sbloccare la vicenda. Ma
i tempi si allungano. E il rischio concreto, ora, è che De Masi, se non dovesse arrivare il risarcimento
per l’usura subita, debba chiudere i battenti e licenziare gli oltre cento suoi dipendenti. Come dire: la
mafia può essere sconfitta. Ma, a quanto pare, non l’usura bancaria.