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Processo Gotha, alla sbarra la testa della ‘ndrangheta. “Ecco il vero volto dell’organizzazione”

La Repubblica

Processo Gotha, alla sbarra la testa della ‘ndrangheta. “Ecco il vero volto dell’organizzazione”

di Alessia Candito

Nella requisitoria (di dieci ore) del procuratore Lombardo la radiografia di una mafia che è cambiata negli Anni ’70 ed è diventata protagonista del mercato illegale mondiale. Avvocati, massoni, politici: mezzo secolo di criminalità organizzata senza un capo unico

01 MAGGIO 2021

REGGIO CALABRIA – Quasi dieci ore di intervento. La prima parte di un percorso destinato a durare più di dieci udienze. A dodici anni dall’apertura del fascicolo che ha portato per la prima volta all’individuazione della direzione strategica della ‘ndrangheta e della componente invisibile dell’organizzazione, è iniziata la requisitoria del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, che insieme ai pm Sara AmerioWalter Ignazzitto Stefano Musolino ha coordinato l’indagine.

Principale imputato del processo con rito ordinario che si avvia a conclusione, l’avvocato Paolo Romeo. Ex deputato del Psdi nonostante la notoria e decennale militanza missina, per i pentiti massone di alto rango, piduista e uomo di Gladio, per sua stessa recente ammissione responsabile della latitanza del terrorista Franco Freda a Reggio Calabria, per i magistrati è lui uno dei sette componenti della direzione strategica, quell’organismo occulto in grado di determinare le linee guida per tutta l’organizzazione. L’altro, Giorgio De Stefano – penalista anche lui, cugino del boss Paolino De Stefano ed espressione limpida dell’omonimo casato di ‘ndrangheta – è già stato condannato per la medesima accusa in primo grado e in appello. E insieme De Stefano e Romeo, sottolinea il procuratore, sono “una divinità a due teste”, l’unica in grado di intervenire in “un programma così ambizioso in una città così pericolosa, instabile, scivolosa, inaffidabile, intimamente mafiosa come Reggio Calabria”. 

Il piano, ha svelato il procedimento Gotha, nato da una serie di operazioni di polizia del 2016, è quello di utilizzare lo Stato come una gigantesca macchina di riciclaggio in grado di distribuire fra clan e soldati – la struttura visibile – le straordinarie ricchezze di cui la ‘ndrangheta dispone, in modo da garantire ai vertici il necessario consenso, dunque la tenuta stessa dell’organizzazione. Il metodo è la costruzione in vitro di politici e amministratori – e sono diversi gli imputati di Gotha che hanno ricoperto questo ruolo – da muovere come pedine per far funzionare a dovere amministrazioni e governi locali e nazionali. Il luogo in cui tale “programma eversivo” è stato messo in atto è Reggio Calabria, “laboratorio criminale – sottolinea Lombardo – a cui tutta la ‘ndrangheta del mondo è chiamata a ispirarsi”. 

Reggio Calabria centro del mondo

Perché Reggio Calabria, con i suoi tre mandamenti – Jonico, Tirrenico e Centro -, della ‘ndrangheta è testa e cuore. E il mandamento di Centro che corrisponde a Reggio città e al suo hinterland è quello che “ha compreso prima e meglio di tutti gli altri che l’organizzazione doveva diventare molto altro” rispetto a una strutturazione arcaica, in cui i clan godevano di un certo grado di autonomia. Una svolta storica –  arrivata negli Anni Settanta con i Moti di Reggio prima, la spartizione degli appalti del pacchetto Colombo e la guerra di ‘ndrangheta che ne è seguita poi -, necessaria per comprendere cosa siano i clan oggi e perché siano così potenti. Un percorso che il processo Gotha in oltre quattro anni ha ricostruito, permettendo di chiudere il cerchio non solo sull’inchiesta, ma su una errata, sottodimensionata, banalizzata concezione dell’organizzazione criminale tutta. 

“Quando abbiamo iniziato a fare questo lavoro – ha spiegato il procuratore  aggiunto Lombardo – la ‘ndrangheta era considerata un insieme di famiglie che avevano tutte lo stesso peso, un insieme di componenti di base che occupavano determinati spazi territoriali, che ogni tanto entravano in conflitto fra di loro. Se il conflitto era estemporaneo e si legava a un motivo ben preciso, si collocava all’interno di una faida fra due famiglie, se invece coinvolgeva più famiglie diventava una guerra, se non si riusciva a risolvere a livello di macro-area territoriale, cioè di mandamento, diventava conflitto globale. Ma l’orizzontalità pura della ‘ndrangheta non è mai esistita e la prima sentenza che lo sancisce è del 2 ottobre del 1970”. 

Eppure per decenni i clan calabresi sono stati considerati un’accozzaglia di famiglie, spesso litigiose, di certo potenti, ma spesso guidate da logiche tribali, incredibilmente capaci, però, di dominare il mercato mondiale del narcotraffico, di espandersi in ogni continente, di gestire “operazioni di riciclaggio che hanno a che fare con miliardi di euro, perché queste sono le cifre di cui parliamo”. Una contraddizione, per decenni irrisolta, e che in Gotha – afferma Lombardo –   trova una sua spiegazione logica.  

“Il livello segreto”

Lo hanno spiegato i pentiti, lo hanno “confessato”, intercettati, Paolo Romeo e Giorgio De Stefano, così come altri imputati del processo in migliaia di conversazioni ascoltate dagli investigatori: quei clan che sul territorio si rendono visibili con la loro violenza, sono solo una parte – necessaria e sacrificabile – di un’organizzazione molto più complessa e che loro stessi neanche conoscono. È quella parte composta da “tutti quegli uomini e donne di ‘ndrangheta che non devono sapere nulla rispetto a quello che va oltre la struttura criminale di base, fatta di doti, cariche, rituali, immaginette”. I capi di questo esercito – “i grandi generali” che hanno il compito di indirizzarlo e coordinarlo, spiega il procuratore – sanno che esiste un altro livello e loro precipuo compito è “collegare il sovramondo con il sottomondo in una sorta di terra di mezzo in cui il visibile-territoriale si collega all’invisibile-strategico”. Più su, c’è un Olimpo elitario, riservato, sconosciuto ai ranghi più bassi dell’organizzazione che non si vede ma governa e per la prima volta con il Processo Gotha è stato individuato.  

Non si identifica con un “capo dei capi” – afferma Lombardo nel corso della requisitoria – perché “quello della ‘ndrangheta un sistema strutturato, pensato, attuato in modo tale da consentire l’assorbimenti di colpi demolitori senza cedere mai rispetto a quella della complessiva ampiezza dell’organizzazione. Frana una parte, ma mai l’intera organizzazione. Ecco perché la figura del capo unico non è una figura vincente. Perché se tu uccidi il capo unico hai difficoltà di relazione con gli apparati ai quali necessariamente sei legato, con cui sei entrato in rapporto e che ti chiederanno: e ora che succede? Chi comanda? Per questo quella del capo unico è una scelta perdente. È una scelta da perdenti. Anche perché la ‘ndrangheta è talmente ricca e potente che c’è spazio per tutti”. 

 

“La base può essere sacrificata”

Questo fa gola anche a quei componenti di vertice della parte visibile dell’organizzazione che convivono con la consapevolezza di essere sacrificabili. “La componente riservata e segreta della ‘ndrangheta deve rimanere distante dalle attenzioni investigative, perché le attenzioni investigative devono esclusivamente colpire la componente di base. Questo non significa – continua a spiegare Lombardo nel suo lungo intervento – che devono cadere soltanto i picciotti, ma tutta la componente di base o componente visibile è a rischio. Ma è un rischio che bisogna correre perché quelle teste pensanti sanno benissimo che non esiste una testa senza corpo e non esiste un corpo senza testa”. 

E “la testa”, che ha connotazione “politica, imprenditoriale, professionale”, ha un compito molto preciso, vitale per “il corpo” dell’organizzazione: assicurare che parte della gigantesca ricchezza accumulata dai clan – solo virtuale finché non viene reimpiegata – e che in massima parte neanche torna in Italia, sia redistribuita alla base. E senza che la cosa desti troppa attenzione. “Se tu spendi un miliardo di euro nella città metropolitana di Reggio Calabria anche il più stupido, disinteressato e incapace degli investigatori capisce che c’è qualcosa che non va. L’unica possibilità è di ricollocare nei territori d’origine una parte di ricchezza che ha generato e la pubblica amministrazione, per questa ragione, diventa l’interlocutore necessario di un’enorme, deviata ed eversiva operazione di riciclaggio e reimpiego attraverso organi dello Stato”.  

Ecco qual è una delle principali funzioni della direzione strategica. Ecco perché quella “Testa” da oltre vent’anni – questa una delle principali accuse al centro del Processo Gotha – ha fabbricato politici in serie, da sottosegretari regionali come Alberto Sarra a senatori come Antonio Caridi, azzerando le elezioni, svuotando di ogni significato la democrazia, rendendo inutile l’esercizio del voto. Un regime mascherato, in cui persino l’associazionismo è diventato strumento per stringere rapporti, creare legami, costruire alleanze e canali di finanziamento. Non si tratta di ipotesi, ma di episodi realmente accaduti, un rosario di fatti concreti che è diventato un elenco lungo oltre cento pagine di capi di imputazione. Una sorta di decalogo di funzionamento della direzione strategica.

Il “coso di sette”, lo chiama il reggente del Clan Libri intercettato, “i segreti” lo chiamano i pentiti che per rango ne hanno solo potuto intuire l’esistenza. La testa. A cui, dopo quello di Giorgio De Stefano – afferma la procura -, va aggiunto il volto di Paolo Romeo, considerato da cinquant’anni il baricentro della vita politica, sociale, criminale di Reggio Calabria.