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Prestipino: “Sconfitti su Mafia Capitale, ma non ci rassegniamo alla corruzione”

Prestipino: “Sconfitti su Mafia Capitale, ma non ci rassegniamo alla corruzione”

Il procuratore facente funzione di Roma dopo il ribaltone della sentenza della Cassazione. “Non mi arrendo e non ci arrendiamo all’idea che per qualificare come mafiosa un’associazione criminale ci debba affidare al criterio etnico”

23 OTTOBRE 2019

DI CARLO BONINI

ROMA. La botta è stata ed è forte. E, seduto nel suo ufficio, il Procuratore aggiunto Michele Prestipino, capo della Direzione distrettuale antimafia e Procuratore facente funzione, ha l’onestà di non dissimularla. Riconosce con fairplay la sconfitta, non ne nasconde la sostanza. Che declina tutta di un fiato. “Inutile girarci intorno. La Cassazione ha stabilito che l’associazione criminale di Buzzi e Carminati non è qualificabile come mafiosa. E che quell’organizzazione ha nondimeno condizionato settori della vita pubblica e amministrativa della Capitale. Del resto, sapevamo che quello al ‘Mondo di Mezzo’ era un processo complicato, come osservato anche dal presidente della sesta sezione della Corte prima della camera di consiglio, e dunque dall’esito tutt’altro che scontato. Sapevamo, e ne sono prova le pronunce alterne dei giudici di merito, che la questione aveva aperto una dialettica all’interno della giurisdizione”.

C’è una postilla, tuttavia. “Osservo, e non lo dico come clausola di stile o per ridimensionare a posteriori il ruolo e le posizioni assunti da questo ufficio, che è stata cassata una ricostruzione del ‘Mondo di mezzo’ che non era di Giuseppe Pignatone, di Michele Prestipino o di singoli magistrati di questa Procura o del Ros dei carabinieri, che per altro vorrei pubblicamente ringraziare. Ma che era stata condivisa dalla Procura generale della stessa Cassazione e prima di lei da quella presso la Corte di Appello. E soprattutto dai giudici: gip, Riesame, Corte di Appello. Insomma, penso che la pronuncia della Cassazione rientri in una dialettica fisiologica. Ne ho il massimo rispetto. E ne attendo le motivazioni per capire se la censura della Corte sia in fatto, e dunque attenga a un deficit probatorio. O, al contrario, sia in diritto. E dunque rimetta in discussione un principio che, con giurisprudenza costante, la stessa Cassazione afferma dal 2015 e in forza del quale vennero confermate le ordinanze di custodia cautelare dell’inchiesta Mafia Capitale. E cioè che in una interpretazione moderna dell’articolo 416 bis il criterio per apprezzare la ‘mafiosità’ di un’associazione criminale vi sia anche quello della sua capacità di esercitare un ‘controllo sociale’ e non solo del ‘territori'”.

Potrebbe finirla qui, Prestipino. Ma sa che in questo processo la posta in gioco travalicava il destino dei singoli imputati. Dunque, al riconoscimento di una sconfitta si accompagna la rivendicazione di una linea di indirizzo della Procura. Che vale per ieri. Ma soprattutto per domani. “Con la stessa limpidezza con cui accogliamo il verdetto della Cassazione – dice – vorrei che a tutti fosse chiaro che il sottoscritto e l’ufficio che rappresento non ci rassegniamo all’idea che la corruzione, pulviscolare o organizzata che sia, che avvelena Roma sia considerato un fattore fisiologico. Al contrario, penso, pensiamo, che la corruzione sia e resti la piaga di questa città, la sua peste. Che rappresenti un fattore di deterioramento e inquinamento del suo tessuto sociale e della sua decrescita economica. Dunque, continueremo a contrastarlo”. Di più: “Non mi rassegno e non ci rassegniamo neppure all’idea che per qualificare come mafiosa un’associazione criminale ci debba affidare al criterio etnico. Che dunque non si dia mafia dove non ci sono coppole storte e lupara. E per altro, a Roma, in questi anni, l’insufficienza del criterio etnico è stata dimostrata dalle condanne alle cosiddette “piccole mafie”. Penso ai Fasciani, agli Spada, ai Casamonica”.

C’è tuttavia un convitato di pietra nella discussione sull’esito del processo al “Mondo di mezzo” che l’argomentare di Prestipino sembra voler evitare. Che è poi l’obiezione in fondo intellettualmente più onesta che in questi anni è stata mossa. Che la Procura di Roma abbia trasformato il giudizio a Buzzi e Carminati, ai loro 34 coimputati, in un laboratorio dove sperimentare “in corpore vivo”, sulla pelle e le vite dei singoli, un’interpretazione “avanzata” dell’articolo 416 bis. Un laboratorio aperto sette anni fa, quando proprio loro, i siciliani Pignatone e Prestipino, arrivarono a Roma da Reggio Calabria convinti di poter dimostrare che anche nella Capitale la mafia esistesse soltanto a volerla cercare. La voce di Prestipino si alza di un tono. “No. È un obiezione che respingo. E non solo perché a Roma la mafia l’abbiamo trovata. Spada, Fasciani, Casamonica. Ma perché a Reggio Calabria, Palermo e Roma vige lo stesso codice penale. E non ne abbiamo usato uno diverso. Non è stato fatto nessun esperimento e nessun azzardo. Nel 2015, le ordinanze di custodia cautelare furono confermate dalla Cassazione proprio in forza di un principio che da allora ha fatto giurisprudenza. Lo ripeto: il processo è fatto di dialettica. Il resto, non ci appartiene. Compreso l’uso che delle sentenze, di merito o di legittimità che siano, viene liberamente fatto nella discussione politica. In questi anni abbiamo processato sindaci di opposto colore ed è stato scritto e detto tutto e il contrario di tutto. Non ci riguarda. Faccio il magistrato. E continuerò a farlo nel rispetto della legge e con l’attenzione che si deve alla giurisprudenza. Niente di più. Niente di meno”.

fonte:https://rep.repubblica.it