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Pontina la storia mafiosa del capoluogo pontino

Pontina la storia mafiosa del capoluogo pontino

28/10/2019

di Clemente Pistilli

Questa è la storia di Latina degli ultimi venti anni”. A specificarlo, nelle motivazioni della sentenza con cui ha condannato a circa 74 anni di reclusione i nove imputati nel processo Alba Pontina che hanno scelto di essere giudicati con rito abbreviato, è il giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Roma, Annalisa Marzano.

Dunque non un semplice verdetto. Ma un pezzo di storia. E con una convinzione: il clan dei Di Silvio di Campo Boario è mafia.

Un particolare pesante, anche se sul fronte della pena non ha inciso molto per gli imputati.

Gli inquirenti, nel corso del processo, hanno ricostruito le indagini portate avanti dalla squadra mobile di Latina sul gruppo di Armando Lallà Di Silvio, tra estorsioni, usura, intestazione fittizia di beni, traffico di droga e corruzione elettorale.

Il giudice Marzano ha fatto anche un passo indietro ed è partita dagli accertamenti compiuti dagli investigatori a partire dal 2000 sulle famiglie di origine nomade stabilitesi nel capoluogo pontino, che hanno consentito di “ricostruire il tessuto criminale della città pontina”.

A pesare ovviamente la “preziosa collaborazione” dei pentiti Renato Pugliese e Agostino Riccardo, che avrebbero supportato in maniera determinante l’ipotesi sulla costituzione di un’associazione per delinquere di stampo mafioso.

Con un “clan strutturato su base territoriale”, in una città “strategica negli affari illeciti”dove la collettività sarebbe “assoggettata all’egemonia dell’associazione che è indubbiamente di tipo mafioso”.

Per il giudice, come emerso nel processo Caronte sull’organizzazione criminale messa in piedi dai Ciarelli e dai Di Silvio, “nella lotta per la supremazia criminale nel territorio di Latina, le famiglie rom decidevano di mostrare le proprie capacità delinquenziali, ricorrendo ad azioni dall’elevata potenzialità offensiva, idonee a rappresentare alla popolazione latinense l’indiscusso potere egemonico e intimidatorio della cosca che, evidentemente, poteva contare anche sulla disponibilità di armi comuni da sparo”.

Le prime tracce di mafia, sempre per il gup, sarebbero evidenti negli stessi pestaggi compiuti nel 2010 nelle stalle dei Di Silvio.

Poi il clan, sia a Latina che a Terracina, avrebbe “esteso la propria influenza anche nelle campagne elettorali”. E nel capoluogo pontino lo avrebbe fatto occupandosi dell’affissione di manifesti per conto di Noi con Salvini.

Un elemento che mostra come l’organizzazione fosse “capace di controllare il territorio anche influenzando il voto della comunità locale”. Con attacchinaggio e compravendita di voti.

Un gruppo insomma “capace di una straordinaria forza intimidatrice, che ha assoggettato intere categorie di professionisti e di imprenditori locali”.

Elementi che hanno portato il giudice Marzano a condannare presunto boss Armando “Lallà” Di Silvio: 17 anni e 4 mesi di reclusione a Gianluca detto “Bruno”, 16 anni e 8 mesi a Samuele e 16 anni e mezzo a Ferdinando “Pupetto”. E poi a condannare a 4 anni e 4 mesi Gianfranco Mastracci, a 5 anni Daniele “Canarino” Sicignano, a 4 anni Valentina Travali, a 4 anni e 2 mesi Mohamed Jandoubi e Hacene Hassan Ounissi, e a un anno e 10 mesi Daniele Coppi.

Fonte:www.h24notizie.com