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Pianificavano azioni di forza

I figli di Giulia “Cipolla” De Rosa, Cristian e Cesare, erano sempre pronti a impugnare le pistole In un caso pensavano di punire i fornitori apriliani, in una circostanza studiavano di intimorire un pusher indebitato

ANDREA RANALDI – Latina Oggi, Venerdì 22 dicembre 2023

L’indagine con cui la Polizia ha documentato gli affari d’oro della famiglia De Rosa nel traffico e nello spaccio degli stupefacenti, ha rivelato anche la ferocia con cui i figli di Giulia detta Cipolla, regista dei business illeciti, erano riusciti a raccogliere la sua eredità imponendosi negli ambienti della criminalità locale. Intercettati dagli investigatori della Questura, Cristian e Cesare De Rosa, come raccontato anche dai collaboratori di giustizia, parlavano spesso di volere fare ricorso alle armi per azioni di forza. Sfoghi che vanno ritenuti fondati perché in un caso, nell’aprile dello scorso anno, il più grande dei figli maschi una pistola l’aveva impugnata veramente, per sparare a uno spacciatore marocchino che occupava uno stabile abbandonato vicino casa loro in via Londra e disturbava i loro affari. Prima di quel tentato omicidio e quindi dell’arresto, che poi in primo grado gli è costato una condanna a sette anni e quattro mesi di reclusione, proprio Cesare De Rosa faceva riferimento di frequente alla disponibilità delle armi. In un caso, parlando con uno degli indagati, commenta i comportamenti di alcuni loro fornitori di Aprilia e si dichiara intenzionato a regolare i conti così: «…gli imbocco ad Aprilia con tutte le pistole che ho, te lo giuro suAle, gli faccio delmale fisico…». Secondo il giudice, Cesare De Rosa vuole affermare l’egemonia del gruppo quando dice, intercettato, mentre in auto è in viaggio verso Aprilia: «…se solo uno di qua mi viene a dire qualcosa… vado a casa, chiamo mio fratello (Cristian, ndr) mi prendo il mio fucile, il mio kalashnikov, le mie due bombe, vengo qua, te lo giuro sui miei figli, lo faccio tremare, lo faccio pisciare sotto…». Lo stesso Cesare De Rosa, sempre intercettato mentre parla con un suo sodale, si dice adirato per il comportamento di un pusher di suo riferimento, un giovane di Latina che si rifornisce da lui e non ha onorato un debito. Pretende che gli consegni subito 20.000 euro ed è pronto a ricorrere alle armi per convincerlo a pagare: «…portameli qua se no questa sera ti ammazzo, ti sparo in bocca, perché mo, appena torno, me piglio tutte le armi che ho, tutte quelle che ho, entro domani me li deve dà, se no io chiamo sempre a Cristian». Perché il sospetto degli investigatori, alimentato dalle dichiarazioni dei pentiti, è che sia proprio il fratello a curare la custodia dell’arsenale. Elementi questi che testimoniano la pericolosità degli indagati, motivando la custodia cautelare in carcere.