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Perché l’Italia ha bisogno di mafia

L’Espresso, martedì 11 luglio 2017

Perché l’Italia ha bisogno di mafia

DI GIOVANNI TIZIAN

La statua di Falcone decapitata e la foto del giudice bruciata è un oltraggio a tutte le vittime dei clan. La mafie parlano e manifestano il loro potere, in una società che ha abbassato la guardia e delega la lotta alle sole forze di polizia. Dietro i numeri e le statistiche però c’è una diffusa richiesta di mafia e dei suoi metodi nuovi

DI GIOVANNI TIZIAN

I clan hanno nel loro statuto la gestione del potere. Lo esercitano in vari modi. Questo esercizio del potere a volte è evidente altre meno. Le mafie utilizzano l’alfabeto dei simboli, lanciano messaggi più o meno cifrati, più o meno comprensibili, per ricordare che in un certo territorio loro sono l’autorità. I fatti di Palermo, l’oltraggio alla memoria di Giovanni Falcone con la statua devastata e la foto bruciata, è uno sfregio a tutte le vittime delle cosche. Un segnale lanciato nel caldo asfissiante di luglio, a nove giorni dai 25 anni della strage di via D’Amelio in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi , Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

Pensavamo, infatti, che dal dolore e dal sangue versato potesse almeno emergere un Paese nuovo, finalmente affrancato dalla dittatura criminale. Eppure dopo tanti anni, dopo alcuni traguardi importanti, dopo alcune vittorie, si percepisce l’aria greve di un passato che ritorna.

La percezione è data dal fatto che le mafie regolate dall’omertà in realtà hanno negli ultimi tempi ricominciato a parlare. Ammiccano, tentano, provocano, chiedono. Spesso sono dialoghi che avvengono nell’ombra, ma può succedere che tali messaggi per necessità vengano veicolati con la forza della violenza. In questi casi devono essere evidenti a tutti, perché il popolo sappia che gli uomini d’onore comandano ancora. Ridurre però questi fatti palermitani a semplice messaggistica mafiosa sarebbe fuorviante.

Il contesto in cui sono maturati questi e altri recenti fatti è forse il tassello che aiuta a ricomporre il mosaico di responsabilità. Se cosa nostra o le altre organizzazioni mafiose possono permettersi di alzare la voce è perché in questi anni la cultura mafiosa è stata legittimata da chi per raggiungere il profitto, o altri scopi, è disposto a tutto. Da chi ha sposato il principio secondo cui nel mercato e nella finanza tutto è concesso, che le regole sono solo di intralcio. Un’ideologia che ha spianato la strada a personaggi loschissimi, a quei volti presentabili delle organizzazioni mafiose moderne che usano il metodo mafioso per piegare l’economia e la società. Metodo mafioso non più per forza imposto mostrando la pistola nascosta sotto il giubbotto.

La strategia è più sottile. Per garantirsi un appalto, per esempio, sarà sufficiente andare dai concorrenti e proporgli dietro compenso di non presentarsi alla gara. Oppure mandare avanti loro e imponendo successivamente servizi utili all’impresa. Oggi nel metodo mafioso c’è quasi sempre una complicità dei “buoni”, di coloro cioè che sono estranei alle strutture criminali, ma che per convenienza economica accettano la proposta. Un tempo c’erano i buoni e i cattivi. O meglio tale distinzione era più netta, meglio decifrabile. Oggi è una massa grigia e indistinta . Di chi fidarsi? Su chi contare?

Il punto è centrato perfettamente da Attilio Bolzoni nel commento su Repubblica in cui analizza i fatti di Palermo: «La mafia che impone le sue leggi non la conosciamo abbastanza. La mafia che tutti noi abbiamo conosciuto cerca di non morire». Chi ha cantato vittoria troppo presto, vendendo all’opinione pubblica arresti di latitanti come durissimi colpi alle cosche, farà bene a imprimere una marcia politica diversa alla lotta alla mafia.

I partiti e i governi per lotta ai clan hanno seguito la strada della sola repressione. Possono bastare le manette e il carcere duro? I fatti, a distanza di anni, dicono il contrario. Retate e arresti non fanno altro che confermare nuove strutture, nuovi volti con gli stessi cognomi, eserciti di ragazzini assoldati dalla famiglie criminali.

«Qui lo Stato sono io», diceva un boss della ‘ndrangheta intercettato e arrestato qualche giorno fa. Quelli come lui rappresentano tuttora l’autorità perché da loro dipendono i destini di chi vuole essere eletto, sono loro che gestiscono i posti di lavoro, loro che piazzano amici e parenti in struttura pubbliche e private, loro che lottizzano quelle opportunità di terre in cui la questione meridionale c’è ma è meglio negarla.

Perché stupirsi allora se la cronaca racconta di ragazzini che cercano di accreditarsi con i boss per farsi “assumere” nel clan o riporta le immagini violente della testa di marmo di Giovanni Falcone usata come ariete per sfondare la porta della scuola della periferia palermitana. È l’eterno potere criminale che si rigenera, che in Italia non fa più paura perché si è normalizzato. Il mafioso? «Una brava persona, educata, gentile». Quante volte abbiamo sentito questa idiozia? E quante volte ancora la sentiremo?