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PEPPINO IMPASTATO – La vera inchiesta la fanno i suoi amici

PEPPINO IMPASTATO – La vera inchiesta la fanno i suoi amici

9 MAGGIO 2020

Ma se la Procura della Repubblica di Palermo resta inerte nonostante le dichiarazioni, gli esposti, gli interrogativi che doveva suscitare un esame sereno di quello strano caso, ben diverso fu l’atteggiamento degli amici e dei familiari di Impastato, che continuarono nella opera di denuncia e nell’attività di ricerca di tracce obiettive del delitto di mafia.

A fronte delle resistenze dei carabinieri della Stazione di Cinisi, la scelta da parte degli amici di Impastato, di rivolgersi al prof. Ideale Del Carpio, cattedratico di grande autorevolezza morale e professionale, quale tramite con le istituzioni, si rivelò efficace. Il professore infatti avverte l’Ufficio di Procura nella persona del dott. Francesco Scozzari di quanto quei giovani avevano rinvenuto sul luogo del fatto sicché, in data 13 maggio 1978 si procedette a nuovo sopralluogo da parte dello stesso Scozzari, assistito dal magg. Subranni, dal cap. E. Basile e dal mar.Travali, alla presenza dei periti proff. Caruso e Procaccianti, oltreché dello stesso Del Carpio, consulente di parte, e di Pietro La Fata e Vito Lo Duca, cioè dei giovani che avevano trovato i reperti utili alle indagini.

L’atto giudiziario si rivelò di straordinaria importanza perché all’interno del casolare furono trovate macchie di sangue sia su pietre infisse nel pavimento, sia in prossimità della spigolo di un sedile in pietra, il tutto adeguatamente fotografato. I risultati della iniziativa degli amici di Peppino costituivano, com’è a tutti evidente, un dato obiettivo che contrastava e poteva azzerare la costruzione investigativa fondata sul binomio attentato-suicidio. Il dato fu però svilito, nell’analisi dei Carabinieri, con la considerazione che poiché la casa era abbandonata, poteva trattarsi di sangue di origine diversa (mestruale o di animali o altro). Ma quel che mette conto qui di osservare è che l’atteggiamento della magistratura inquirente non mutò, neanche a seguito di questa decisiva emergenza investigativa, peraltro direttamente verificata.

L’eccezionalità dei risultati del sopralluogo venne completamente ignorata dal magistrato inquirente. Egli si limitò a mettere a disposizione dei periti il materiale ematico e a chiedere loro la ricostruzione della dinamica della morte e la posizione di Impastato all’atto dell’esplosione oltre agli accertamenti di rito sull’esplosivo adoperato, senza attivare la polizia giudiziaria sulle ipotesi, indicate da quei giovani e dal prof. Del Carpio e, soprattutto, avvalorate dal ritrovamento delle importantissime tracce del delitto nel casolare.

Il rapporto del Reparto Operativo dei Carabinieri in data 30 maggio 1978, presentato a seguito della delega di indagine conferita dal dott. Signorino relativamente all’esposto presentato dagli amici Impastato, sembra invece voler costituire una vera e propria colata di cemento su ogni diversa lettura del fatto.

A seguito della delega non vi furono indagini positivamente indirizzate sugli ambienti e sui fatti indicati nell’esposto: il maggiore Subranni, infatti, si limita ad ascoltare i firmatari dell’esposto e il professor Del Carpio.

Invece di indagare le persone e i fatti segnalati dall’esposto, cioè la mafia di Cinisi e quindi Badalamenti e il suo gruppo, sono le dichiarazioni dei firmatari dell’esposto e lo stesso prof. Del Carpio ad essere oggetto di attenta verifica.

Sul punto va osservato che i Carabinieri del reparto operativo, senza delega specifica procedettero ad un atto, l’esame del consulente di parte della famiglia Impastato già formalmente costituito in tale qualità negli atti giudiziari compiuti dal sostituto Scozzari e già ascoltato nel corso del procedimento dal Pubblico Ministero titolare della istruttoria sommaria, che lo stesso dott. Martorana, nel corso della sua audizione ha definito «uno straripamento».

L’esame del prof. del Carpio, censurabile anche sul piano formale, condotto con veemente pressione inquisitoria, degna di miglior causa, si concentrava sul fatto che egli avesse formulato le sue valutazioni tecniche sulla scorta di quanto descrittogli (in modo assolutamente fedele dai giovani studenti) piuttosto che a seguito di esame diretto dei luoghi. La circostanza, evidentemente non minava la fondatezza delle osservazioni e delle valutazioni dell’illustre cattedratico ma la ingiustificata insistenza su di essa determinava una condizione psicologica difensiva, assolutamente ingiustificabile per un uomo di grande spessore morale e professionale, lealmente e intervenuto a dare un disinteressato contributo di scienza alle indagini.

L’impegno fu rivolto alla sua persona e alla sua condotta, piuttosto che alle cose che diceva, ai fatti di cui dava prova, alla ipotesi dell’omicidio di mafia che doveva cogliersi dalle sue dichiarazioni.

Neppure le dichiarazioni dei compagni e dei familiari di Peppino, sentiti dal dott. Signorino dettero al magistrato inquirente l’impulso indagini nella direzione della mafia di Cinisi posto che si trattò di atti compiuti senza alcuno spunto significativo di un interesse per ipotesi diverse da quelle legate al binomio suicidio-attentato, senza alcuna conseguente iniziativa investigativa,quasi con nell’adempimento burocratico del dovere di dare veste giudiziaria agli compiuti dai Carabinieri.

L’istruttoria sommaria condotta dal sostituto procuratore dunque non vuole allontanarsi dal tracciato dei carabinieri, nonostante i dati obiettivi delle indagini richiedessero iniziative verso le persone e gli ambienti che erano stati oggetto di denuncia da parte di Peppino Impastato.

Potevano e dovevano adottarsi provvedimenti di prassi quali quelli di perquisizione o, all’esito di queste e ricorrendo i presupposti, richiedersi intercettazione delle conversazioni telefoniche, oppure pro- cedere agli accertamenti sui titolari delle cave che avevano la disponibilità di quell’esplosivo (che erano poi le stesse persone che gravitavano nell’ambiente di mafia protagonista delle speculazioni edilizie contrastate pubblicamente e con forza da Peppino Impastato).

Niente di tutto questo accade nell’istruzione sommaria del dott. Domenico Signorino.

Il tempo scorre in attesa delle relazioni dei periti senza che il Pubblico Ministero adotti alcuna iniziativa, fermo com’era, evidentemente, alla ipotesi dell’attentato-suicidio.

Passano così sei mesi, un tempo prezioso per acquisire decisivi elementi di prova di un delitto di omicidio.

Quando interviene, il risultato degli accertamenti peritali confermerà che le macchie trovate sul sedile di pietra all’interno del casolare erano di sangue umano, dello stesso gruppo del sangue di Giuseppe Impastato, così come sarà confermato che l’esplosivo era costituito da mina da cava. Questi risultati, stando alle carte processuali, impongono al sostituto procuratore Domenico Signorino a modificare l’impostazione del processo e ad ipotizzare, finalmente, a carico di ignoti, il delitto di omicidio premeditato.

Ma i risultati delle perizie non erano novità assolute per l’indagine.

Nel frattempo erano comunque trascorsi mesi e mesi dal fatto.

Le relazioni peritali, infatti, hanno solo convalidato gli elementi emersi nella immediatezza dei fatti.

Quegli elementi erano già stati fortemente – e anche formalmente – evidenziati agli investigatori e ai magistrati: le tracce di sangue all’interno del casolare, l’uso della mina da cava, l’esistenza di validi e noti motivi a sostegno della causale mafiosa erano dati disponibili per il magistrato già la mattina del 9 maggio 1978.

Nel novembre del 1978, senza che nel corso della sommaria istruzione fosse stato compiuto alcun atto mirato alla verifica della pista dell’omicidio, il Sostituto Signorino «formalizza» l’accusa di omicidio premeditato a carico di ignoti e affida il processo al giudice istruttore Rocco Chinnici.

Solo con l’arrivo nel processo di questo Giudice si cominciò a lavorare seriamente su quella che fin dal primo momento poteva e doveva essere utilmente verificata: la pista dell’omicidio di mafia.

L’esame delle attività sviluppate da questo giudice, il ventaglio degli accertamenti disposti per sviluppare gli originari elementi di prova contro la mafia di Cinisi, costituisce la conferma più autorevole e genuina della fondatezza delle osservazioni formulate da questa Commissione alla conduzione degli accertamenti seguiti alla morte di Giuseppe Impastato.

Si è cercato, in questa sede, di proporre una ricostruzione ancorata ai fatti di allora, una valutazione operata dalla medesima angolazione processuale di chi aveva il potere e il dovere di guardare e vedere gli indizi obiettivamente emersi nella direzione mafiosa, per svilupparli tempestivamente nei modi e con tutti gli strumenti propri della investigazione penale.

Con la formalizzazione della inchiesta da parte del Pubblico Ministero Signorino, viene dunque segnata in modo definitivo la strada dell’ipotesi mafiosa. Questo rendeva naturalmente proficuo il rapporto tra l’autorità giudiziaria, nella specie il giudice Rocco Chinnici, e coloro i quali sempre avevano affermato che la chiave del delitto fosse, appunto, quella mafiosa.

I familiari e gli amici di Giuseppe Impastato intervengono con tempestività ed efficacia sulla scena processuale presentando nel novembre 1978 il «Promemoria all’attenzione del giudice Chinnici» e il Documento della redazione di Radio Aut e del Comitato di controinformazione costituitosi presso il centro siciliano di documentazione, mentre la madre Bartolotta Fara e il fratello Giovanni si costituiscono parte civile.

Il «promemoria» offre una serie di suggerimenti investigativi che furono in gran parte espletati dal giudice istruttore, mentre altri, pure molto importanti, risultavano purtroppo superati o impossibili da eseguirsi per il lungo tempo trascorso (così per esempio il controllo delle cave di D’Anna o gli accertamenti sulle «strane effrazioni» nelle case dei familiari e degli amici di Peppino).

Ma, soprattutto, venuta meno la diffidenza verso gli amici e i familiari di Impastato, vengono offerte al giudice istruttore informazioni su circostanze inedite, prima fra tutte quella concernente l’avviso dato da Amenta Giuseppe al cugino Giovanni Riccobono, compagno di militanza di Peppino, a non recarsi a Cinisi, quella sera, perché sarebbe accaduto qualcosa di grave.

Le dichiarazioni rese a questa Commissione da Giovanni Riccobono, nel corso della missione del Comitato a Palermo del 31 marzo 2000 meritano di essere riportate perché espressione di coraggio civile e di capacità di rottura di un clima omertoso fondato anche sul ricatto degli affetti familiari. Quando il processo approda dinanzi al giudice Chinnici, il giovane Riccobono rompe gli schemi, denuncia un fatto di particolare importanza ai fini delle indagini e lo conferma, poi, anche in sede di confronto con il cugino Amenta, dinanzi al giudice istruttore.

Nel corso della sua audizione del 31 marzo 2000, così Riccobono ha precisato i fatti:

Innanzi tutto vorrei spiegare il motivo per cui non presentai subito la mia denuncia alla magistratura. All’indomani della morte di Peppino, gli inquirenti portarono me e altri amici di Giuseppe in caserma dove fummo tutti tartassati e trattati da terroristi. […] All’epoca lavoravo a Palermo da un mio cugino. Il giorno 8, nel pomeriggio, mi prese in disparte e mi disse che quella sera non sarei dovuto andare a Cinisi perché sarebbe accaduto qualcosa di grave. Premetto che quel giorno dovevo necessariamente tornare in paese per riconsegnare la macchina che mi aveva prestato un parente. In seguito a questo « avvertimento » – non so bene se definirlo avvertimento o consiglio – mi preoccupai subito per Peppino che, a mio avviso, era la persona più esposta proprio per il tipo d’attività politica che svolgeva. Quindi tornai in paese e mi recai direttamente, senza passare per casa, a «Radio Aut» dove arrivai verso le 19,45.

Peppino stava andando via perché a casa lo aspettavano dei parenti americani. Poiché alle 21 era in programma un incontro per discutere delle elezioni del giorno 14, ci sedemmo aspettando le 21 e fu durante quell’attesa che parlai dell’avvertimento con due o tre compagni. […] Durante il confronto con mio cugino alla presenza del dottor Chinnici, all’inizio egli giustificò il consiglio che mi aveva dato con il fatto che mio fratello era candidato nella lista della Democrazia Cristiana e, quindi, bisognava evitare di intralciare la sua campagna elettorale. Tuttavia, quella sera non dovevamo fare alcun comizio e, quindi, non potevamo creare alcun

problema. […] Domenico Di Maggio mi riferì di aver visto mio cugino in piazza, a Cinisi, appartato mentre parlava con Finazzo, che è ben conosciuto. Questo è avvenuto una settimana prima. […] è chiaro che sono giunto a questa conclusione dopo l’interrogatorio. Ho usato il termine «tartassati» perché una stessa domanda ci fu rivolta frequentemente ed è la seguente: «perché stavate facendo l’attentato?». Noi dovevamo affermare per forza che avevamo fatto l’attentato, o che lo stavamo facendo e che era andata male avendo Peppino perso la vita. Questo è il senso. La domanda venne rivolta parecchie volte. Ricordo che uno dei carabinieri, ma non so con precisione chi fosse, sbatté forte la mano sul tavolo quando dissi loro che sapevano benissimo chi aveva ucciso Peppino. Mi chiedevano di fare il nome e il cognome del mafioso. Non potevo pronunciare tale nome, perché non sapevo chi avesse ammazzato Peppino. Non sapevo se Badalamenti, Finazzo o altra persona lo aveva fatto saltare per aria. Questo è il senso della frase. Per forza dovevamo dire che avevamo fatto l’attentato o dovevamo fare un nome.

fonte:https://mafie.blogautore.repubblica.it/