Cerca

Pene pesanti per il “Gotha” della ‘ndrangheta

Pene pesanti per il “Gotha” della ‘ndrangheta

Ventotto condanne e dieci assoluzioni nel processo a quella che la Dda di Reggio ritiene la direzione strategica della ‘ndrangheta. Vent’anni per Giorgio De Stefano. La sentenza scrive una nuova pagina nella storia del contrasto ai clan

2 marzo 2018

REGGIO CALABRIA Se non è una rivoluzione, poco ci manca. Da oggi, c’è una sentenza che scrive una nuova pagina nella storia del contrasto giudiziario alla ‘ndrangheta, fotografata nella sua essenza più segreta, riservata, determinante per i destini politici, sociali ed economici di Reggio Calabria e probabilmente non solo. Da oggi, la direzione strategica della ‘ndrangheta reggina è fatto giudicato e i suoi uomini sono stati tutti condannati a pene pesantissime, spesso anche più alte di quelle richieste. Ma soprattutto è arrivata una condanna durissima, 20 anni – il massimo della pena, al netto dello sconto di pena previsto dal rito abbreviato – per l’avvocato Giorgio De Stefano, che della direzione strategica è elemento di vertice, come pure eminenza grigia della ‘ndrangheta tutta.

TUTTE LE CONDANNE Ma pene pesantissime sono arrivate anche per gli altri imputati. Vent’anni sono andati a Domenico Stillitano e Mario Vincenzo Stillitano, mentre è di 18 anni la condanna decisa per Roberto Franco e Antonino Nicolò. È stato invece condannato a 2 anni Antonino Idone, mentre è di 13 anni e 4 mesi la pena decisa per  Dimitri De Stefano, il figlio più piccolo di don Paolino De Stefano, lo storico boss di Archi. Dieci anni e 8 mesi sono andati a Antonino Araniti, mentre è di 13 anni e 4 mesi la pena decisa per Emilio Angelo Frascati. Sono stati invece condannati a 12 anni Domenico Marcianò e il commercialista Natale Saraceno, mentre è di 4 anni la pena decisa per l’ex cancelliere del tribunale, Aldo Inuso. Dieci anni e 8 mesi vanno a Carmelo Nucera, mentre è di 10 anni la pena decisa per Giovanni Pellicano. Il gup ha poi condannato anche l’ex sindaco di Villa San Giovanni Antonio Messina (3 anni e 4 mesi), Rosario Rechichi (4 anni e 4 mesi), Bruno Nicolazzo (4 anni e 4 mesi),  Eva Franco (3 anni,  Saveria Saccà (3 anni),  Giuseppe Smeriglio (3 anni), Alessandro Nicolò (3 anni),  Anna Rosa Martino (3 anni), Pasquale Massimo Gira (2 anni e 4 mesi), Gaetano Tortorella (2 anni e 8 mesi), il pentito Roberto Moio (1 anno e 10 mesi), Elena Inuso: 4 mesi, Maria Antonietta Febbe (4 mesi) e Andrea Santo Tortora (4 mesi).

LE ASSOLUZIONI Erano quasi tutti imputati di reati minori e sono stati assolti Angela Chirico, Antonino Chirico, Domenico Chirico, Domenico Chirico (cl.86), Maria Luisa Franchina. Assolto anche Giorgio Modafferi. Il gup ha poi accolto anche le assoluzioni chieste dalla pubblica accusa per Michele Serra e Paola Colombini.

L’INCHIESTA GOTHA Il gup Laganà ha dunque di fatto confermato l’impianto accusatorio del maxiprocedimento Gotha, scaturito dall’unione di quattro diverse inchieste – Sistema Reggio, Fata Morgana, Reghion e Mammasantissima- coordinate dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e dai pm Stefano Musolino e Walter Ignazzitto.  Al centro dell’inchiesta una concezione rivoluzionaria della ‘ndrangheta, che per la prima volta afferma a livello processuale una verità solo in parte affiorata e mai pienamente provata in precedenti giudizi: esiste un livello superiore e strategico, che si colloca al di sopra dell’ala prettamente organizzativa e militare in tutte le sue differenti articolazioni e che a questa detta le linee strategiche. È quella ‘ndrangheta “invisibile” o “di sostanza” di cui avevano parlato pentiti come Paolo Iannò, Roberto Moio o Consolato Villani, è quella “Cosa nuova” che avevano intuito, ma non erano riusciti a provare “ogni oltre ragionevole dubbio” i magistrati di Olimpia, è la Santa, pietra angolare della ‘ndrangheta moderna e radice dell’impero costruito dai clan e che oggi ha estensioni e ramificazioni mondiali.

IL “TRIANGOLO” DI COMPENSAZIONE Una struttura complessa, che si è evoluta nel tempo– hanno svelato l’ex Gran maestro Antonio Di Bernardo e pentiti come Cosimo Virgiglio –  anche grazie alla progressiva contaminazione con la massoneria. Un processo iniziato quanto meno quarant’anni fa e servito per creare una camera di intermediazione e incontro fra il potere mafioso e chi gestisce le leve istituzionali, economiche, politiche e finanziarie dell’Italia. Ed è questo – ha ricostruito l’inchiesta –  uno dei principali terreni di lavoro e di reclutamento dei cosiddetti “invisibili”, gli uomini di cui la Santa si è servita per governare la Calabria e in parte anche il Paese. Soggetti a cui gli affiliati tout court hanno spesso guardato senza comprenderne a pieno provenienza e posizione, ma di cui non hanno esitato a riconoscere il ruolo. «Dottore – dice con quasi sconcertante sincerità Villani –  l’apparenza è una cosa, la sostanza è un’altra. Io sono Padrino e non conto niente. C’è gente che non è neanche battezzata e mi mangia a colazione come un biscottino».

RUOLO DA RESTITUIRE Si tratta di una rete che solo la Santa ha tessuto, sebbene nel tempo abbia sviluppato rapporti anche con altri livelli dell’organizzazione. Ma solo alla Santa risponde. E della Santa – ha dimostrato l’inchiesta – Giorgio De Stefano è espressione di vertice. Un ruolo, ha detto il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, che gli deve essere restituito. Avvocato con il pallino della politica, in passato anche consigliere comunale di Reggio Calabria, tanto prima come dopo la condanna definitiva per concorso esterno che lo ha colpito per i pentiti è sempre stato non solo il consigliori storico del suo omonimo clan, ma l’eminenza grigia della ‘ndrangheta reggina. Evocato ogni volta che le strategie criminali si sono intrecciate con le strategie politiche ed economiche più complesse e di lungo respiro – dal golpe borghese ai rapporti con massoneria e servizi, dalle speculazioni finanziarie oltreconfine ai grandi investimenti – l’avvocato Giorgio ha sempre respinto ogni accusa, presentandosi come un limpido professionista, vittima esclusivamente del proprio cognome.

IL PESO DEL SANGUE In realtà, ha svelato l’inchiesta, è uno dei massimi eredi di uno dei pochi casati mafiosi che ha scritto di proprio pugno la storia della ‘ndrangheta. Anche prima che venisse chiamata così. L’avvocato non è semplicemente il cugino di don Paolino, il boss di Archi che negli anni Settanta ha stravolto ruolo e volto della ‘ndrangheta reggina e non solo, seppellendo nel sangue della prima guerra di mafia la “società di sgarro”. Giorgio De Stefano è anche figlio di quel Giovanni, negli anni Trenta condannato per uno dei primi omicidi di “maffia” giudicati in Calabria, che in pubblico per anni ha raccontato solo “stimato commerciante”, ma nel privato non esitava a definire “re dei re”, tanto importante da poter prescindere da santini e rituali.

IL PUPARO Un ruolo apicale, nascosto dietro un profilo tenuto strategicamente basso dopo gli “scivoloni” di gioventù. Esattamente come il figlio Giorgio ha fatto – hanno ricostruito i magistrati –  dopo la condanna per concorso esterno. Per decenni, si è tenuto in ombra. E dall’ombra tutto ha governato. Giorgio De Stefano – ha spiegato il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo – è «una grande intelligenza criminale, che ovviamente non solo ha saputo negli anni mutuare il suo ruolo con grande oculatezza, ma è riuscito come solo il grande stratega sa fare, a far muovere gli altri. Purtroppo per lui determinate tracce le ha lasciate. E quelle tracce, le ha lasciate nel momento in cui si è sentito più sicuro, nel momento in cui le ricostruzioni che venivano fatte in ambito giudiziario lo rassicuravano molto. Ha abbassato la guardia ad un certo punto, perché ha pensato che la Procura della Repubblica di Reggio Calabria si sarebbe fermata al Crimine di Polsi». Ma già allora, la Dda – che negli stessi anni lavorava all’inchiesta Meta – «aveva in mano le tracce di un qualcosa che a Polsi non finiva. Perché a Polsi – ha sottolineato Lombardo – la ‘ndrangheta inizia, non finisce».

CASUS BELLI Elementi che hanno fatto da cartina tornasole agli indizi emersi in relazione all’intervento di Di Stefano a tutela degli interessi degli arcoti nella gestione del Bar Malavenda. Apparentemente, hanno spiegato i magistrati una questione di secondo ordine, in realtà un problema complesso, tanto per i soggetti coinvolti – gli incontrollabili Serraino da una parte e  dall’altra i Franco, costola dei Tegano con ansie di emancipazione – tanto per la zona in cui è esploso, Santa Caterina, quartiere strategico e storicamente instabile. «Se si spacca il fronte su Santa Caterina – ha spiegato Lombardo in sede di requisitoria –  a Reggio Calabria la zona nord di Archi non riuscirà più a fronteggiare la zona sud e quindi si rischia la terza guerra di mafia». Ecco perché, da una parte costretto dalla detenzione di reggenti e capi operativi, dall’altra obbligato a far pesare il nome del proprio casato, Giorgio De Stefano si è dovuto spogliare della propria storica invisibilità per mettere il sigillo su quell’affare. Ed è una traccia «che restituisce dimensioni di umanità» ad un soggetto quasi impalpabile nel suo agire criminale, che a inquirenti e investigatori non è sfuggita. Ed ha permesso di mostrare in modo plastico i meccanismi di funzionamento di una struttura segreta, di cui neanche gli affiliati di rango più basso conoscono i confini, ma da sempre in grado di determinare la vita sociale, economica, politica e finanziaria di Reggio e non solo. Un livello in grado di condizionare la democratica e naturale evoluzione di Reggio Calabria e non solo, per piegarla al volere dei clan. Tutti i clan.

LA COSA UNICA Per gli inquirenti infatti la cupola riservata della ‘ndrangheta, di cui – recita il capo di imputazione – farebbero parte anche soggetti «in corso di identificazione», è solo parte di un organismo più grande – e ancora sconosciuto – che rappresenta tutte le mafie. I pentiti la chiamano “commissione nazionale”, “Cosa unita” o “Cosa nuova”. E secondo quanto messo a verbale nell’ultimo anno da diversi collaboratori di giustizia calabresi, siciliani, pugliesi e milanesi da decenni coordina le strategie criminali delle mafie in tutta Italia e non solo, grazie a “riservati” come il senatore Antonio Caridi (a processo con rito ordinario).

DEMOCRAZIA SCIPPATA Ma se Caridi è stato negli ultimi anni uno dei politici costruiti in vitro usati sullo scacchiere nazionale, altri hanno permesso alla cupola strategica della ‘ndrangheta di scippare a Reggio Calabria il suo futuro per piegarlo a necessità e voleri dei clan. Un piano – eversivo – passato attraverso il condizionamento di tutte le elezioni, dal 2001 al 2010, dal governo dei grandi affari societari e immobiliari realizzati a Reggio Calabria, dall’accaparramento di appalti, lavori e finanziamenti pubblici, anche grazie a strutture e uomini “riservati” che in silenzio e senza discutere hanno attuato senza discutere la strategia decisa dalla “cupola”. E il progetto, negli ultimi anni, era diventato anche più ambizioso.

DALL’ECONOMIA ALLA CITTÀ STATO Obiettivo della cupola non era solo il controllo – totale e asfissiante – delle principali leve economiche e imprenditoriali cittadine, come il sistema della grande distribuzione, ma anche della gigantesca mangiatoia dei finanziamenti pubblici in arrivo per la costruzione della città metropolitana. Una città Stato, nei progetti di Paolo Romeo, di fatto alternativa alla Regione e in grado di interfacciarsi con strutture simili a livello nazionale e internazionale, da governare tramite politici costruiti allo scopo. Una città che trova eco nella strategia secessionista o indipendentista che – quanto meno dalla metà degli anni Ottanta – adottata con impegno variabile dalla cupola delle mafie, che nel tempo non hanno avuto difficoltà a individuare o costruire in vitro interlocutori politici, anche per sostituire quelli considerati non più affidabili

I RISERVATI Per la costruzione di questo ed altri progetti, la cupola poteva contare su un esercito di pupi, diversamente strutturati, in parte persino inquadrati in una struttura paramassonica segreta, ma governati tutti dagli stessi pupari e devoti alla medesima causa: rafforzare i clan. Una “formula” applicata non solo alla politica, ma anche all’economia, alla grande finanza, alla burocrazia, alla società civile. Settori in cui gli uomini della Santa hanno strutturato reti che si sono anche interconnesse con l’ala militare.

LE CONDANNE IN DETTAGLIO

Giorgio De Stefano: 20 anni (richiesta 20 anni)

Roberto Franco: 18 anni (richiesta 20 anni)

Antonino Nicolò: 18 anni (richiesta 20 anni)

Domenico Stillitano: 20 anni (richiesta 20 anni)

Mario Vincenzo Stillitano: 20 anni (richiesta 20 anni)

Antonino Idone:  2 anni (richiesta 18 anni)

Dimitri De Stefano: 13 anni e 4 mesi (richiesta 15 anni)

Antonino Araniti: 10 anni e 8 mesi (richiesta 15 anni)

Emilio Angelo Frascati: 13 anni e 4 mesi (richiesta 15 anni)

Giorgio Modafferi: assolto (richiesta 14 anni)

Domenico Marcianò: 12 anni (richiesta 14 anni)

Natale Saraceno: 12 anni (richiesta 14 anni)

Aldo Inuso: 5 anni e 6 mesi (richiesta 12 anni)

Giovanni Cacciola: assolto (richiesta 10 anni)

Carmelo Nucera: 10 anni e 8 mesi (richiesta 9 anni)

Giovanni Pellicano: 10 anni (richiesta 9 anni)

Antonio Messina: 3 anni e 4 mesi  (richiesta 8 anni)

Rosario Rechichi: 4 anni e 4 mesi (richiesta 6 anni)

Bruno Nicolazzo: 4 anni e 4 mesi (richiesta 6 anni)

Eva Franco: 3 anni (richiesta 4 anni)

Saveria Saccà: 3 anni (richiesta 4 anni)

Giuseppe Smeriglio: 3 anni (richiesta 4 anni)

Alessandro Nicolò: 3 anni (richiesta 4 anni)

Anna Rosa Martino: 3 anni (richiesta 4 anni)

Pasquale Massimo Gira: 2 anni e 4 mesi (richiesta 4 anni)

Gaetano Tortorella: 2 anni e 8 mesi (richiesta 1 anno e 8 mesi)

Angela Chirico: assolta (richiesta 1 anno e 4 mesi)

Antonino Chirico: assolto (richiesta 1 anno e 4 mesi)

Domenico Chirico: assolto (richiesta 1 anno e 4 mesi)

Domenico Chirico (cl.86): assolto (richiesta 1 anno e 4 mesi)

Francesco Chirico: assolto (richiesta 2 anni)

Roberto Moio: 1 anno e 10 mesi (richiesta 1 anno)

Elena Inuso: 4 mesi (richiesta 1 anno)

Maria Antonietta Febbe: 4 mesi (richiesta 1 anno)

Andrea Santo Tortora: 4 mesi

Maria Luisa Franchina: assolto (richiesta 1 anno)

Michele Serra: assolto (assoluzione)

Paola Colombini: assolto (assoluzione).

 

Alessia Candito

a.candito@corrierecal.it

 

 

fonte:https://www.laltrocorriere.it/