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Paolo Adinolfi, la rabbia della figlia: «Calabresi e gli altri trattati come eroi, ma mio padre giudice?»

Il Corriere della sera, 30 Aprile 2021

Paolo Adinolfi, la rabbia della figlia: «Calabresi e gli altri trattati come eroi, ma mio padre giudice?»

Lettera aperta di Giovanna Adinolfi, avvocatessa: «Oggi è facile prendere anziani ex terroristi a Parigi. Difficile è risolvere questioni aperte… Papà fu vittima delle infiltrazioni criminali in Tribunale, nel silenzio di di Csm e Anm»

di Giovanna Adinolfi

«Mio padre è stato un giudice della Repubblica italiana…» È rimasta defilata per quasi tre decenni. Con il suo dolore e la sua amarezza. Ha delegato alla mamma e al fratello, Lorenzo, avvocato come lei, un compito arduo: tentare di ottenere la verità sulla fine di suo padre, Paolo Adinolfi, giudice del tribunale fallimentare di Roma negli anni Ottanta del secolo scorso, scomparso il 2 luglio 1994, mentre svolgeva delle commissioni nel centro di Roma, tra il quartiere Prati e il Flaminio. Le indagini si conclusero con un nulla di fatto, dopo la riapertura ottenuta nel 1996 dalla famiglia in base alle parole di un pentito. Ma il magistrato di Perugia che firmò la seconda archiviazione parlò di «azione delittuosa» da mettere in relazione alla «delicatezza degli affari trattati dalla Fallimentare», alla «notevole rilevanza degli interessi economici coinvolti» e alla «asprezza delle reazioni suscitate» nei soggetti criminali colpiti. Eliminato perché con il suo rigore dava fastidio, insomma. Un giudice alto servitore dello Stato, vittima di «lupara bianca» nel cuore del capitale, negli anni in cui imperversavano potentati economici e criminali (banda della Magliana) ben introdotti negli apparati dello Stato. Il corpo in quasi 27 anni non è stato trovato. E adesso la figlia maggiore, Giovanna Adinolfi, avvocatessa civilista, per la prima volta rompe il silenzio con questa «lettera aperta» sgorgata dal cuore, all’indomani degli arresti degli ex terroristi italiani in Francia. È l’analisi amara di una figlia colpita dalla tragedia di veder sparire il proprio papà a vent’anni, di una cittadina indignata per l’isolamento in cui è stata lasciata la sua famiglia e di una professionista del diritto quasi incredula di fronte alla sconfitta della giustizia. (fabrizio peronaci)

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Caro direttore,

mi piacerebbe dire che li invidio, ma non sarebbe vero. L’invidia, senza alcun merito, non ce l’ho nel Dna, come gli occhi azzurri e le gambe lunghe. Razionalizzando, se fossi una persona invidiosa sarebbe comunque assurdo provare invidia per chi è orfano da tanto tempo. Per chi ha sofferto tanto. A voler trovare una cosa buona nella disgrazia, ho imparato a rispettare sempre il dolore altrui come assoluto, anche quando il peso che portano gli altri mi pare tanto più leggero del mio. Fastidio però oggi ne provo tanto, anche se ovviamente non è colpa delle vittime e delle loro famiglie. Benedetta Tobagi. Mario Calabresi. Gli altri, meno famosi, figli e parenti delle vittime. Oggi la signora Calabresi dice che finalmente può “sperare nella verità”. I giornali dicono che le vittime del terrorismo hanno avuto giustizia.

Giustizia contro distinti signori settantenni che non si ricordano neppure le facce delle vittime, che tra gli omicidi e oggi hanno vissuto un’altra vita, ma pur sempre giustizia. Negli anni passati invece queste famiglie hanno avuto un nemico. Facce barbute di ragazzini ventenni che giocavano a fare la rivoluzione con le pistole vere. Hanno avuto qualcuno da perdonare. Da combattere. Da inseguire. Da odiare, volendo. Dei loro padri si è parlato, spesso come di eroi (di Calabresi non sempre), e nessuno li ha dimenticati. Sono andata a guardare su wikipedia le onorificenze del Commissario Calabresi, le opere dedicate a Walter Tobagi, le medaglie ai carabinieri ed agenti uccisi dai terroristi. Immagino siano un conforto. E oggi in Italia è festa. Mario Draghi è soddisfatto. I perfidi terroristi sono stati arrestati.

Mio padre, anche se ormai lo ricordano in pochi, è stato un giudice della Repubblica Italiana. Come i padri di Tobagi e Calabresi e di tanti altri, è uscito per andare a lavorare. Come questi padri non è mai tornato a casa. A differenza loro, però, non ha mai avuto un funerale. I suoi nemici non erano ragazzini barbuti ed armati. Erano colleghi. Erano avvocati. Erano politici. Era la maledetta mafia/camorra/banda della Magliana che negli anni ’80 e ‘90 era infiltrata nel Tribunale di Roma, oramai lo sappiamo tutti.

E quando papà non è tornato a casa, lo Stato non ha fatto nulla. Quando non ha trovato le amanti, le ballerine brasiliane, i conti nascosti, quando non si è riusciti a sputtanarlo nonostante ci abbiano provato in tutti i modi (persino la tesi delle manie religiose è stata spazzata via in due giorni) ci hanno detto di accontentarci, era stato fatto il possibile. Non si trova, Forse (?) si è suicidato. Tutto nel silenzio dell’Associazione Nazionale Magistrati, del Consiglio Superiore della Magistratura, e dei colleghi. Un solo giudice coraggioso del Tribunale di Perugia lo ha cercato con dedizione, ma (non per colpa sua) è intervenuto troppo tardi. Con il suo provvedimento di archiviazione, lo Stato ha finalmente preso posizione, e si è arreso. Le ragioni della scomparsa di papà sono nel suo lavoro, ma lo Stato ammette di non essere stato capace di trovare i responsabili.

Facile andare a prendere a Parigi degli anziani che vivono lì da tanti anni senza nascondersi. Difficile andare a risolvere questioni ancora aperte, disturbando persone potenti ancora vive, o i loro figli. Mio fratello ed io non crediamo più nello Stato. Nella giustizia umana non abbiamo mai creduto, e paradossalmente ce lo ha insegnato proprio papà, che diceva sempre che il diritto e la giustizia sono due cose diverse. Oggi però siamo infastiditi e un po’ più tristi perché una volta di più emerge che in Italia ci sono morti e morti, e che nessuno farà per papà quello che è stato fatto per altri servitori dello Stato. Dopo 27 anni non abbiamo speranze, e come ci suggerì uno dei giudici che (non) indagò all’epoca, non ci resta che sperare nella pietà di chi ha ucciso Paolo Adinolfi, ed implorarlo di farci sapere dov’è. E’ troppo tardi per medaglie, comprensione, empatia e manifestazioni di affetto. Non ci interessa avere giustizia, e tutto sommato anche alla verità possiamo rinunciare. Vogliamo solo portargli un fiore.