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Non solo ergastolo. Il vero obiettivo è colpire i collaboratori di giustizia

Aaron Pettinari 12 Novembre 2022

Nel decreto legge del Governo il possibile accesso ai benefici penitenziari resta presente. E “pentirsi” è una scelta sempre più difficile

Nessuno lo dice. Eppure è evidente che il decreto legge sull’ergastolo ostativo, resosi necessario dopo le indicazioni della Corte Costituzionale nell’aprile 2021, potrebbe avere pesanti ricadute nell’istituto della collaborazione con la giustizia.
Con l’intervento del governo, infatti, pur mantenendo dei paletti stringenti per il possibile accesso ai benefici penitenziari, si supera la disposizione precedente in cui si considerava la “collaborazione con la giustizia” come l’unica prova certa del ravvedimento del condannato ai fini della concessione della libertà condizionale o dei permessi premio.
Ed è questo un punto nodale su cui il dibattito politico non si sta concentrando abbastanza.
Collaborare con la giustizia per i boss che decidono di “saltare il fosso” è effettivamente “conveniente”?
Se si guarda ai fatti più o meno recenti la risposta non è affermativa. E ciò rischia di dare un colpo devastante non solo al contrasto contro le mafie e sistemi criminali che hanno voluto e compiuto le stragi, ma rischia di mettere un sigillo definitivo alla ricerca della verità proprio su quei delitti che hanno segnato profondamente la nostra Repubblica.
Nel nostro Paese si dimentica che molte verità su quella stagione le abbiamo apprese proprio grazie ai collaboratori di giustizia.
Nel nostro Paese si dimentica che nel papello di Riina non c’erano solo il 41 bis (ormai ridotto a un colabrodo con i boss che continuano a comandare dal carcere, nonostante le restrizioni) e l’ergastolo (ormai ridefinito dopo la scure della Cedu e della Corte Costituzionale), ma anche la riforma della legge sui cosiddetti pentiti.
Un primo intervento vi fu nel 2001 (governo di centrosinistra di Giuliano Amato – ministro della giustizia Piero Fassino, dell’Interno Giorgio Napolitano). Furono apportati dei cambiamenti che portarono ad una riduzione dei benefici, con una serie di sbarramenti per l’accesso ai programmi di protezione e, soprattutto, l’obbligo per chi decideva di “pentirsi” di raccontare ai magistrati tutto ciò che sanno nei primi 6 mesi di collaborazione.

Una legge che fece discutere al punto che l’allora Procuratore capo di Palermo, Pietro Grasso, affermò: Con questa legge al posto di un mafioso non mi pentirei più”. E infatti in poco tempo il numero di pentiti iniziò a scendere rapidamente.
E pian piano la normativa ha subito altri durissimi colpi.
Nel marzo scorso Piera Aiello, testimone di giustizia ed ex Presidente del sottocomitato della commissione parlamentare Antimafia che si occupa di collaboratori e testimoni di giustizia, ha denunciato gravissime anomalie sul rispetto al programma di protezione previsto per testimoni e collaboratori di giustizia.
Soprusi, violazioni del diritto allo studio a quella della salute, casi di identità segrete rivelate, per non parlare di vere e proprie minacce ai genitori sulla privazione della patria potestà sarebbero solo alcuni dei dati emersi dalle adozioni.
Anche il procuratore aggiunto di Firenze Luca Tescaroli, nel 2021, aveva evidenziato alcune problematiche.
Su tutte il rischio che intercorrono i collaboratori di giustizia nel momento in cui, quando vengono attribuite nuove generalità, al contempo vengono trasferite le risultanze del casellario giudiziario e del centro elaborazione dati, istituito presso il Ministero dell’Interno. “L’effetto – sosteneva il magistrato – è quello di ostacolare le ricerche di lavoro dei collaboratori e di esporli, in caso di ordinari controlli di polizia, ad accertamenti rivelatori della loro precedente identità”.
Sempre nel 2021 il dibattito sui pentiti si era acceso dopo il ritorno in libertà del boss di San Giuseppe Jato Giovanni Brusca. Figure come Matteo Salvini, Nello Musumeci, Licia Ronzulli e Mara Carfagna, anche chiesero a gran voce di cambiare la legge sui collaboratori di giustizia.
Un dibattito che in qualche maniera, seppur in forma decisamente minore, è tornato attuale quest’anno quando la Cassazione ha accolto il ricorso presentato dal pentito Gaspare Spatuzza contro l’ordinanza con cui il tribunale di sorveglianza di Roma aveva respinto la sua richiesta di tornare in libertà.

Zero pentiti 
Nei giorni scorsi, nella puntata speciale di Non è l’ArenaSalvatore Baiardo, gelataio piemontese di origini siciliane, che all’inizio degli anni Novanta gestì la latitanza dei fratelli stragistiGiuseppe e Filippo Graviano, ha lanciato un duro attacco contro l’istituto dei collaboratori di giustizia rei, a suo modo di vedere, di essersi pentiti solo dopo essere stati arrestati, mentre Graviano, che ha detto di “ammirare”, si è fatto la galera ed ora dice delle cose agli investigatori (“Graviano non è uno Spatuzza o un Tranchina o uno dei tanti altri collaboratori di giustizia. Lui dice ‘ho sbagliato determinate cose, sto pagando’ e la sua intenzione è rifarsi una vita tranquilla pulita… (…) non ha bisogno di inventarsi cose e raccontare fesserie. A che beneficio?”).
In questo continuo “dire” e “non dire”, tra messaggi più o meno “velati”, è come se si volesse ricordare a chi di dovere dove è più necessario intervenire.
Ed è chiaro che, tornando al decreto sull’ergastolo ostativo, ammettere la possibilità di benefici penitenziari anche senza collaborazione offre uno spiraglio ai boss, stragisti e non, che oggi sono detenuti e che scelgono la via del silenzio.
Tempo fa, in un’intervista a noi rilasciata, il Sostituto Procuratore Nazionale Antimafia, Francesco Del Bene evidenziava il rischio: “Il progetto di legge definito merita una riflessione perché la vicenda è un nodo molto importante nel contrasto all’organizzazione mafiosa ed in particolare alla criminalità organizzata in generale nella misura in cui la lotta alla mafia va fatta anche di segnali. Il rischio? Che quei soggetti di Cosa Nostra detenuti, alcuni dei quali del 41 bis, con il nuovo intervento legislativo non mi sembrerebbero molto motivati a rendere dichiarazioni e collaborare con la giustizia”.
Ecco il nodo centrale che oggi ritorna con prepotenza.
Il giudice istruttore Giovanni Falcone nell’aprile 1986 a Courmayeur, nel suo intervento al Convegno “La legislazione premiale” affermava con determinazione: Per quanto mi riguarda debbo esprimere il mio avviso favorevole alla introduzione di una legislazione premiale che sancisca, a determinate condizioni, specifici benefici, in termini di pena e di altri effetti processuali, a favore di chi collabora con la giustizia”. E poi ancora: Il pentito ben difficilmente potrà mai rientrare, per intuitive ragioni, nel circuito della criminalità, e cioè nello stesso ambiente di cui fanno parte i soggetti di cui ha denunciato, in modo eclatante, i misfatti. È da escludere, quindi, a mio parere, l’esistenza di un concreto pericolo che la legislazione premiale costituisca incentivazione della pericolosità sociale dei soggetti che hanno collaborato con la giustizia”.
Frasi che, certi politicanti e pseudo-intellettuali, sempre pronti a gridare allo scandalo contro l’ergastolo, il 41 bis ed i collaboratori di giustizia, dovrebbero scolpire nella propria mente.

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fonte:https://www.antimafiaduemila.com/home/mafie-news/309-topnews/92448-non-solo-ergastolo-il-vero-obiettivo-e-colpire-i-collaboratori-di-giustizia.html