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.Non fate di tutt’erba un fascio mischiando il grano con il loglio.L’Associazione Caponnetto non ha mai chiesto e preso un solo euro da nessuno,non gestisce beni ,non è prostituita a chicchessia e vive ed opera indagando e denunciando,nomi e cognomi,senza fare chiacchiere ,con i soldi che sono sottratti alle proprie famiglie.Vi preghiamo di rispettarla e di non metterla nel mucchio.

DAGLI INDUSTRIALI A “GERBERA GIALLA” ANTIMAFIA IN MACERIE

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Dell’Antimafia, ora che la maschera è caduta restano solo macerie. Le grandi illusioni e le generosità tradite da chi predica il verbo della lotta ai poteri mafiosi e razzola malissimo. Personaggi in cerca di visibilità, industriali che cianciano di protocolli di legalità e sviluppo e poi, all’occorrenza, chiedono il pizzo, matrone alla perenne ricerca di un palco. E premi, riconoscimenti, convegni inutili, musei e osservatori.
LE SPERANZE tradite sono quelle delle migliaia di giovani impegnati che al tempo delle stragi non erano ancora nati, che il sorriso ironico di Giovanni Falcone lo hanno visto solo in fotografia, e la voce di Paolo Borsellino l’hanno sentita in qualche filmato d’epoca. Il caso Pino Maniaci è l’ultima delusione per quanti avevano creduto in quest’uomo dai modi rudi e i baffoni spioventi elevandolo sull’altare di un giornalismo combattivo e coraggioso. “Voglio che Pino Maniaci dica a me- e a ad altri che in questi anni hanno messo la loro faccia accanto alla sua – se quelle trascrizioni sono manipolate o se è vero (ed è vero) che all’amica del cuore raccontava: ‘A me mi hanno invitato dall’al tra parte del mondo per andare a prendere il premio internazionale del cazzo di eroe dei nostri tempi’”. La reazione di Claudio Fava, vicepresidente della commissione parlamentare Antimafia e figlio di Pippo Fava, è durissima: “Maniaci ci dica che è tutto falso, intercettazioni, verbali, parole sue e degli altri: tutto! Oppure quel premio (intitolato a Mario Francese, cronista ucciso dalla mafia nel 1979, n dr ) lo restituisca subito. Spieghi tutto, oppure scompaia dalle nostre vite per sempre. A noi resta il torto di una nostra colpevole ingenuità: esserci fidati”. Ed è questo il punto “fi darsi”. In Sicilia per anni si sono fidati della “rivolta degli imprenditori”. Sviluppo e legalità le parole d’ordine. È finita come sappiamo, con la triste parabola di Antonello Montante, delegato nazionale per la legalità di Confindustria, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Montante, sempre in prima fila nelle manifestazioni antiracket, è accusato di “aver messo in modo continuativo a disposizione” della famiglia Arnone “la propria attività imprenditoriale, consentendo al clan di ottenere l’affidamento di lavori e commesse…”.
MA PRIMA c’era stato il caso Roberto Helg, ex presidente della Confcommercio, anche lui assiso al soglio della lotta al pizzo. Un anno fa è stato condannato a 4 anni e otto mesi proprio per aver chiesto una mazzetta. Centomila euro, “un delitto perfetto”, il commento dei pubblici ministeri. “Pena, questi episodi mi provocano rabbia e pena”. Parla Francesco Forgione, ex presidente della commissione parlamentare Antimafia: “Negli anni novanta ho fatto il direttore di Telejato quando era una piccola tv e faceva la battaglia contro la distilleria Bertolino, che inquinava Partinico ed era molto vicina alla mafia. Nessuno voleva prendersi questa rogna e me la accollai io. Negli anni tutto è cambiato e si percepiva, molta enfatizzazione della tv e della persona di Maniaci. Che attaccava tutti, anche Giovanni Impastato e la casa memoria dedicata al fratello Peppino. C’è una doppia morale, penso a Confindustria dove non c’è solo un problema Montante, perché se guardo all’inchiesta di Potenza vedo che c’è una rete di potere che è stata utilizzata con lo scudo della legalità e dell’Antimafia. Confindustria parlava di legalità ma teneva i suoi assessori nei governi Lombardo e Crocetta”.
ASSESSORE di Crocetta è stato anche Salvatore Calleri, il presidente della Fondazione Caponnetto. “Non ha lasciato alcuna traccia – continua Forgione – né nella politica, né ne ll ’amministrazione siciliana. Il problema, però, riguarda anche la stampa che ha dato fiato ad elementi del genere. Penso a Massimo Ciancimino, che non ha mai parlato dei soldi del padre, diventato una icona da talk show, e allo stesso Maniaci osannato nei festival di giornalismo. L’Anti mafia rischia di morire, si torni alle origini, si ricostruisca una Antimafia senza soldi pubblici e soprattutto autonoma dalla politica e dalla magistratura. Che sia in grado di fare una critica radicale del potere. Tocca a una realtà come Libera, che aggrega migliaia di giovani, fare il primo passo. Una profonda autocritica di quello che è stato per una vera rifondazione”.
SE LA SICILIA piange, la Calabria non ride. Qui l’Antimafia segna sconfitte serie. Si vota in tutta Italia, a San Luca no. Non ci sono liste. La democrazia è sospesa. Eppure fino a pochi anni fa il nome del paese aspromontano era stato portato alla ribalta da Rosy Canale. Volto sofferto, voleva combattere la ’ndrangh eta con spettacoli e comparsate tv. Il tutto finito in una miserabile storia di acquisti personali con i fondi pubblici, macchine, vestiti e scarpe di marca. Un processo e una condanna a 4 anni.
STORIE di soldi ballerini anche per “Il Museo della ’ndrangeta ” e polemiche su “Gerbera Gialla”. Una giornalista ottiene i bilanci dell’organizzazione Riferimenti, li legge e scopre un uso allegro dei finanziamenti con consulenze e incarichi assegnati a figli e familiari. Scoppia la polemica, la Procura e la Guardia di finanza indagano tutto il mondo dell’Antimafia reggina. Si urla alla “macchina del fango” e la giornalista viene querelata. “Ecco, di fronte a storie come queste mi viene da dire che se fossi un mafioso mi organizzerei la mia bella associazione Antimafia. Perché di fronte a una opinione pubblica superficiale, distratta, mi consentirebbe di crearmi uno scudo”. Parole amare quelle di Franco La Torre, recentemente dimessosi da Libera e figlio di Pio, il dirigente del Pci ucciso da Cosa nostra il 30 aprile 1982. “La mafia ci piace vederla nell’uomo brutto, corto e con lupara in spalla, non la conosciamo, non la studiamo, abbiamo una scarsa percezione del fenomeno. Anche nei giornali – si sfoga La Torre – il racconto della mafia è delegato ai professionisti dell’Antimafia. La colpa è nostra e del nostro bisogno di simboli. Abbiamo affidato a gente come Maniaci la lotta alla mafia, così stiamo tranquilli. Dov’è Leonardo Sciascia, mi chiedo. E dico di più, basta con le icone, facciamo male anche a considerare Pio La Torre un eroe, lui era un uomo normale, che faceva solo quello che doveva fare. Gli interessava sconfiggere politicamente la mafia. Non diventare un simbolo”.
(pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 6 maggio 2016)