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NON E’ NEMMENO IMMAGINABILE IL DANNO ARRECATO ALL’IMMAGINE ED AL PRESTIGIO DELLA MAGISTRATURA DALLE VICENDE DI QUESTI GIORNI

NON E’ NEMMENO IMMAGINABILE IL DANNO ARRECATO ALL’IMMAGINE ED AL PRESTIGIO DELLA MAGISTRATURA DALLE VICENDE DI QUESTI GIORNI

CI VORRANNO DECINE DI ANNI PER RICOSTRUIRE LA CREDIBILITA’ DELL’ISTITUZIONE.DECINE DI ANNI DI DURO LAVORO.SE SARANNO INCARDINATI DEI PROCESSI A CARICO DEGLI SCONSIDERATI TUTTI GLI ITALIANI ONESTI,I PARTITI,LE ASSOCIAZIONI DOVREBBERO COSTITUIRSI COME PARTI OFFESE

Se la giustizia si fa strumento di potere

16 giugno 2019

Come possiamo più andare nelle scuole, adesso, e parlare ai giovani, quando proprio noi ci riveliamo artefici di queste trame?”. L’amarezza profonda con cui si interroga un magistrato di rango, dietro le quinte di un pubblico dibattito, racconta il danno già devastante (auto)inferto alla magistratura dallo scandalo che travolge il Consiglio superiore della magistratura. Con quale credibilità, ora, la presunta ultima casta potrà sollevare la voce contro la corruzione o l’opaca selezione di classe dirigente della politica? Domanda retorica che aleggia da settimane, in cui è già consolidato il prima e il dopo che queste intercettazioni producono. E le maschere che lasciano cadere.

Così come è evidente che, al di là dei reati ipotizzati, l’inchiesta della Procura di Perugia da cui emergono specifiche condotte tenute da consiglieri del Csm, da capibastoni delle correnti delle toghe e da politici (in questo caso, sempre gli stessi nomi del Pd, l’ex ministro Luca Lotti e l’ex sottosegretario Cosimo Ferri) indica a quale livello di spregiudicatezza si sia spinto il malcostume (noto comunque a tutti) collegato alle stanze felpatissime del Csm. Dove ormai il vizio degli schieramenti non è solo legato alle faide tra correnti – degenerate, in casi come questi, a gruppi di inaudita pressione – quanto al trasversalismo di un potere che mira unicamente all’utile personale.

Stavolta, nel caso dei consiglieri Luca Palamara e Luigi Spina finiti sotto inchiesta, oltre che degli altri consiglieri per i quali fioccano le doverose dimissioni e si apre l’azione disciplinare, si rileva il dirompente salto di qualità: e cioè che le nomine “designate”, perseguite durante i conversari notturni dai magistrati insieme con pezzi da novanta del precedente governo, non avrebbero solo alimentato le ambizioni personali delle toghe e i desiderata dei politici, a scapito dei principi della trasparenza e del merito. Ma – stando all’impianto accusatorio – avevano il dichiarato scopo di sabotare l’efficacia e la funzione stessa dell’attività giudiziaria. Piegandone gli esiti al riprovevole scopo di incastrare i nemici e favorire se stessi e i propri sodali: che fossero magistrati o colletti bianchi. Una scia nera resterà come ferita e perdita di autorevolezza, nei sentimenti del Paese: anche dopo che si sarà depositato il clamore e il tam tam delle indiscrezioni (uno stillicidio che, tra l’altro, nel rispetto della gravità del momento e nel tentativo di arginare i ricatti incrociati di queste ore, dovrebbe spingere a valutare una parziale de-secretazione del materiale).

E tuttavia, al di là delle ipotesi investigative, affiora un altro elemento inquietante: riguarda il disegno di indirizzare, dalla Lombardia in giù, in una sorta di catena “telecomandata”, le varie Procure chiave su cui pesa il compito – attraverso l’articolo 11 del codice di procedura penale – di indagare sui magistrati di un’altra città. Così: l’ufficio inquirente di Brescia – dove uno dei legittimi candidati era un magistrato legato al consigliere superiore Gianluigi Morlini – è competente su eventuali reati commessi dai magistrati di Milano; la Procura di Perugia, dove Palamara cercava di inviare un “fedelissimo” in grado di inquisire il “nemico” Paolo Ielo e di salvare se stesso, deve procedere sui colleghi magistrati di Roma; mentre quest’ultimo ufficio, a sua volta, è titolato ad indagare su quelli di Napoli; così come la Procura di Salerno, per il cui vertice risulta tra i più quotati il procuratore generale Leonida Primicerio (anch’egli un leader di Unicost, stessa corrente di Palamara: ma il Pg non appare citato e non risulta coinvolto) è chiamata a procedere sui colleghi di Catanzaro – dove già opera e con rigore il procuratore Nicola Gratteri, mancato ministro della Giustizia – mentre quella di Catanzaro esercita lo stesso potere su Reggio Calabria. Un vero e proprio effetto domino, che – nella rete di trame emerse per ora a carico di Unicost e di Mi – non è escluso dovesse tenere sotto “controllo” la spina dorsale giudiziaria del Paese.

Un panorama di esemplare gravità a cui va aggiunta la non trascurabile circostanza che si tratta, in gran parte, di Procure – a cominciare da quella romana, sede di Mafia capitale, per la quale il procuratore Pignatone ha avuto il “torto” di toccare centri “antichi” e nevralgici di potere – che sono immerse nell’emergenza delle economie e dell’imprenditoria penetrate dalle cosche, se non della diretta egemonia della criminalità organizzata. Ed è proprio in questa prospettiva che i fatti assumono una rilevanza sinistra.

A quali criteri irrinunciabili, i consiglieri superiori ritengono di dover ispirare la scelta dei vertici di Procure cruciali, nella mai superata sfida allo strapotere delle mafie, e ai loro complici delle zone grigie? Secondo quali priorità si combatte, ai piani più alti, quell’azione di contrasto che tante toghe, giovani ma anche di solida esperienza, continuano con onore a ingaggiare (in sostanziale solitudine), oltre le relazioni e i pacchetti di nomine, cioè a valle delle notti del potere romano? In altri termini, il contrasto alla criminalità organizzata e ai loro molteplici volti del presente, è una priorità solo enunciata, o praticata nelle alte sfere della magistratura associata?

In Campania, a ben vedere, il deficit di responsabilità del Csm – anche di quello della precedente consiliatura, si badi – si poteva già desumere dalla superficialità con cui è stato trattato (meglio: non trattato) proprio il caso Salerno. Il posto da procuratore è scaduto nel settembre 2018. Le regole, che dovrebbero essere per i magistrati il faro non solo quando si pongono come formidabile strumento contro gli avversari, prevedevano che il bando fosse pronto sei mesi prima: cioè a marzo del 2018. Tutto questo non è avvenuto e non c’è stata una sola voce – nessuna delle correnti – che lo abbia rivendicato, o giustificato in qualche modo, come carenza grave. Eppure Salerno non è terra di Bengodi. E per quanto abbia dato alla luce dinastie politiche che si sono avvalse (e vantate, giustamente) della stima di magistrati e investigatori di rango, avrebbe per costituzione meritato la efficacia e la puntualità di un’azione giudiziaria commisurata al ruolo di “grande città” di snodo che pure le progressive sorti le avevano attribuito. Salerno, invece resta ed è sede vacante. Per quante settimane ancora, per quanti mesi, senza che nessuno ne risponda? Ed ancora: tutto questo accade proprio nella stagione che vede – oggi un numero considerevole di magistrati di Catanzaro segnalati a Salerno con ipotesi gravi, e la cui posizione è al vaglio dei colleghi della città costiera, mentre proprio nelle Procure italiane esplodeva, da cinque mesi, la vicenda Exodus, il software spia, sulle società infedeli che avevano ottenuto gli appalti per le intercettazioni e sulle migliaia di captazioni pirata.

Salerno, dunque, ancora acefala. Roma e Perugia ridotte a “mercato” di influenze. Una pagina così buia da ipotizzare una pubblica e rigorosa discussione nazionale sulla qualità e la questione morale in magistratura. Temi che imporrebbero non già un duello inabissato nei reciproci veleni, ma un patto d’onore tra (migliore) politica e (lucide) toghe, teso a ricostruire l’onorabilità di uno dei tre poteri su cui si regge lo Stato democratico. Un orizzonte tuttavia su cui lascia poco sperare la debolezza politica e tecnico-strutturale di questo governo, l’esile voce dell’opposizione. E di un Pd che, su questa vicenda, è stato – oltre le condotte personali al vaglio – a dir poco inadeguato.

fonte:www.repubblica.it