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Non abbiamo avuto,ad oggi,il piacere di conoscere personalmente la dottoressa Manzini ma non c’é stato finora un solo amico calabrese che non ce ne abbia esaltato le doti umane e professionali. A lei esprimiamo i sentimenti più vivi della gratitudine e delle vicinanza e solidarietà dell’Associazione Caponnetto.Questi sono i magistrati che dovrebbero stare in tutte le Procure italiane !!!!!!!!!!!!!!!

L’Espresso, Mercoledì 19 Ottobre 2016

La pm che «parla assai» nel mirino della ‘ndrangheta 
Marisa Manzini è il magistrato che sta seguendo il processo contro il clan Mancuso, famiglia tra le più temute del panorama criminale internazionale. Leader nel narcotraffico e in grado di entrare nei salotti della massoneria. Il capo Pantaleone Mancuso si è scagliato in aula contro Manzini: «Fai silenzio, che parlasti assai»

DI PAOLO OROFINO

Totò Riina nel suo delirio di onnipotenza è stato maestro di esternazioni durante i processi. Nel repertorio del boss non sono mancate certo le offese ai magistrati presenti in aula. E più velate sono, determinate esternazioni, e più vengono recepite in certi ambienti. Al capo di Cosa nostra è bastato indicare una persona con il dito o rivolgere frasi a tono ai pm, per lanciare precisi segnali che sicuramente non sono caduti nel vuoto. Ecco perché ciò che è accaduto alcuni giorni fa in Calabria, precisamente a Vibo Valentia, assume contorni davvero inquietanti. Ma come spesso accade per fatti che riguardano la mafia calabrese restano relagati ai confini territoriali. A Vibo si sta svolgendo un processo antimafia di importanza storica. Un processo che sta cercando di svelare il sentiero tortuoso del denaro sporco della cosca Mancuso.

Alla sbarra c’è il capo indiscusso della temutissima cosca di Limbadi, paese del Vibonese, Pantaleone Mancuso, detto “Luni Scarpuni”.«Fai silenzio, che parrasti assai». Parole dure quelle pronunciate dallo ‘ndranghetista rivolte al pm Marisa Manzini. “Scarpuni” ha poi ripreso la storia del suicidio della moglie, avvenuto nel 2011, attribuendo colpe alla “donna” magistrato per l’accaduto: il capocosca, in pratica, non si è limitato a censurare l’ipotesi di istigazione al suicidio avanzata dalla procura, è andato ben oltre.

Marisa Manzini da anni in trincea nella lotta alla ndrangheta, è sempre stato un magistrato schivo e riservato. Taciturna nei corridoi della procura antimafia di Catanzaro e che ha sempre dato l’impressione di voler evitare i riflettori addosso, anche nei giorni delle maxi-operazioni da lei coordinate.

La pm ha risposto con il silenzio non rilasciando nessuna pubblica dichiarazione in merito. Con l’Espresso ha fatto una piccola eccezione, parlando di «forme di esternazione del potere mafioso». Un riferimento generico, ma significativo. «La ndrangheta sul territorio di origine deve mantenere intatto il consenso sociale – ha detto – perché è il consenso sociale che permette alla stessa di vivere e mantenere la sua forza incontrastata. Il consenso sociale, in un territorio ove mancano le opportunità di lavoro, dove l’economia è  in condizioni di difficolta, dove le imprese  legali si trovano a concorrere con quelle finanziate da capitali illeciti è ottenuto attraverso la concessione di lavoro e liquidità. Lavoro illecito e liquidità frutto di attività’ illecite. La signoria territoriale che consente alla ndrangheta di continuare a mantenere la propria potenza  viene esercitata ancora in via principale e quasi esclusiva in Calabria, anche – ha puntualizzato il pm Manzini – con diverse forme di esternazione del potere mafioso. Le indagini hanno dimostrato che nella nostra regione si decidono le strategie che portano poi ad investire non solo in tutta Italia, ma anche in Europa e nel mondo»

Da qualche tempo Manzini è procuratore aggiunto a Cosenza, ma ha voluto mantenere la funzione di pubblico ministero nel processo “Black money”, contro il clan del vibonese. Del resto l’indagine è stata lei a portarla avanti. Il magistrato vive sotto scorta. Ma per far capire agli imputati che la procura è compatta, il procutatore capo Nicola Gratteri ha voluto dare un segnale importante. Così alla riprese del processo, dopo le minacce, si è recato in aula al fianco della collega. In risposta al segnale dato dal boss, dunque, è arrivato il messaggio di unità del capo della Dda di Catanzaro. E i simboli in terra di ‘ndrangheta sono l’essenza stessa della lotta ai clan.