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Nino Di Matteo:“Al Csm in difesa delle toghe Ma bisogna voltare pagina”

Il Fatto Quotidiano, domenica 1 settembre 2019

Nino Di Matteo:“Al Csm in difesa delle toghe Ma bisogna voltare pagina”

FRANCESCO CASULA

Guardavo con sospetto i professionisti dell’associazionismo e chi si candidava al Consiglio Superiore della Magistratura, ma lo scandalo che ha travolto il Csm mi ha spinto a difendere l’autonomia e l’indipendenza anche dei singoli giudici troppe volte lasciati soli proprio dal Csm”. COSÌ NINO DI MATTEO, magi – strato della Direzione nazionale Antimafia e pubblico ministero nell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, ha spiegato la sua candidatura all’organo di autogoverno. Dal palco della Versiliana, intervistato dal vicedirettore del Fatto, Marco Lillo, il magistrato siciliano ha toccato in modo duro, ma accorato i temi più caldi sullo stato dell’ordine giudiziario. Lo scandalo Palamara, i rischi di un’egemonia politica, il silenzio sulla trattativa. “Lo scandalo di Palazzo dei Marescialli –ha spiegato Di Matteo –mi ha fatto capire che potevo offrire un contributo e cambiare le cose. La mia non è una candidatura di sistema: non sono e non sarò mai iscritto alle correnti. Vorrei fare anche lì il giudice: studiare e valutare le questioni senza pressioni o scelte dettate da opportunismo”. Ha ricordato che nel 1990, anche Giovanni Falcone si candidò e fu “vittima di invidie e meschinità dei colleghi”, ma guai a parlare di campagna elettorale, “perché evoca concetti come appartenenza e clientela che sono del potere mafioso. Dobbiamo dare – ha detto – una spallata a tutto questo”. Per Di Matteo il caso Palamara ha causato “una perdita di rispetto verso l’istituzione che ha rappresentato l’avamposto efficace, anche al prezzo della vita, contro il terrorismo e le mafie, ma anche l’argine alle derive del potere politico, economico e finanziario. Nonostante tutto questo – ha poi ribadito con forza – sono orgoglioso di appartenere all’ordine giudiziario, ma dobbiamo riconoscere le nostre colpe”. Il magistrato della Dna ha elencato i “tarli” che infettano la magistratura: “Innanzitutto non dobbiamo fingere stupore, ma dirlo pubblicamente che esiste, in una parte della magistratura, l’idea che un’inchiesta possa o meno essere portata avanti per ragioni di opportunità. Oppure che ci sia una esasperazione del correntismo perché si punta a fare carriera o a cercare protezioni in momenti difficili. O, ancora, che serpeggi rassegnazione tra tanti magistrati che operano onestamente, ma accettano questi giochi di palazzo come qualcosa di inevitabile. Ecco, noi dobbiamo avere uno scatto d’orgoglio. È vero, abbiamo toccato il fondo e il momento è grave e decisivo, ma ora possiamo e dobbiamo ripartire”. Il rischio, ammette di fronte a un pubblico attento che lo interrompe spesso con applausi, è che qualcuno possa approfittare di questa delegittimazione per portare a termine un disegno di sottomissione della magistratura alla volontà politica. “Oggi – ha avvertito Di Matteo – chi mira a controllare le attività degli inquirenti potrebbe avere gioco facile e utilizzare le riforme per ottenere gli scopi che furono di Licio Gelli e poi di Bettino Craxi e Silvio Berlusconi”. A proposito di riforme, il magistrato ha definito “in chiaroscuro” l’ipotesi di riforma del ministro Alfonso Buonafede, promuovendo gli aspetti che riguardano le notifiche e il calendario delle udienze nei processi penali, ma bocciando il rischio di indagini più corte e l’ipotesi di provvedimenti disciplinari per i pm. HA EVIDENZIATO come dietro ogni riforma possa celarsi una “azione punitiva” e come la lotta alle mafie sia sparita dall’agenda politica. Inoltre ha definito “assordante” il silenzio sulle stragi, soprattutto dopo la sentenza di primo grado sullo trattativa Stato-mafia, che è “punto di partenza per fare luce sui lati ancora oscuri”. “Si può vivere – ha chiesto in conclusione – in un Paese che non fa di tutto per conoscere i mandanti esterni delle stragi?”.